Testi per la vita monastica                                         Sacra Scrittura - sezione II


scheda bio-bibliografica

Abbate Armand Veilleux ocso

La lectio divina come scuola di preghiera

nei Padri del deserto

 


Dom Armand Veilleux è stato Assistente del Padre Generale OCSO negli anni ’90.

È attualmente Abbate del monastero trappista di Scourmont, in Belgio:

Armand Veilleux, Abbaye de Scourmont, B - 6464 Forges-Chimay, Belgique

(per la bibliografia  cfr : http://www.scourmont.be)


nostra traduzione di una conferenza tenuta a Roma, a S. Luigi dei Francesi, il 7 novembre 1995


a cura dei monaci della Abbazia Nostra Signora della Trinità - Morfasso (PC) Italia


 

 

 

     

Abbate  Armand  Veilleux  ocso

 

La  lectio  divina

 come  scuola  di  preghiera

nei  Padri  del  deserto

 


 

   Scrittura,  scuola  di  vita

   Che cosa significa lectio divina ?

   Lettura ?

   Scrittura  come  unica  “Regola” del  monaco

   L’ermeneutica  del  deserto

  Figli  della  Chiesa  d' Egitto  e  di  Alessandria

   Cerchio ermeneutico

   Comprensione  della  Scrittura

   Pre-comprensione

   Parole  degli  Anziani

   La  concezione  moderna  di  lectio  divina

   Conclusione

 

 

 

 

 

Scrittura, scuola  di  vita

La vocazione di Antonio, così come ci viene descritta nella Vita Antonii di Atanasio, è ben nota. Un giorno il giovane Antonio, educato in una famiglia cristiana della Chiesa di Alessandria (o nella regione circostante), e che quindi aveva sentito leggere le Scritture fin dall'infanzia, entra in chiesa ed è molto colpito dal testo della Scrittura che sente leggere: si tratta dell’episodio della vocazione del giovane ricco: “Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri e vieni, seguimi, avrai un tesoro in cielo (Mt 19,21; Vit Ant 2).

Antonio senza dubbio aveva già sentito molte volte questo testo in passato; ma quel giorno il messaggio lo colpisce come una frustata, ed egli lo recepisce come una chiamata personale.  Lo mette in pratica: vende la proprietà familiare – assai cospicua – e distribuisce ai poveri del paese il ricavato della vendita, tenendosi giusto quanto gli occorreva per occuparsi della giovane sorella, di cui aveva la responsabilità.

Qualche tempo dopo, entrando di nuovo in chiesa, ascolta un altro testo dell'Evangelo, che lo scuote quanto il primo: “Non preoccupatevi per il domani” (Mt 6,34; Vit Ant 3).  Questo testo lo colpisce in fondo al cuore, come una chiamata personale.  Affida la sorella ad una comunità di vergini (tali comunità esistevano già da tempo), si libera di tutto quello che gli resta e intraprende la vita ascetica vicino al suo paese, facendosi aiutare dagli asceti del luogo.

Questo racconto indica molto bene l’importanza e il senso che la Scrittura aveva per i Padri del deserto.  Essa era innanzi tutto scuola di vita. E dal momento che era scuola di vita, era anche scuola di preghiera per uomini e donne che aspiravano a rendere la loro vita una preghiera continua, così come chiedeva loro la Scrittura.

I Padri del deserto volevano vivere fedelmente tutti i precetti della Scrittura. E, nella Scrittura, l’unico precetto concreto che essi trovavano circa la frequenza della preghiera, non era che si dovesse pregare ad una tale o tal’altra ora del giorno o della notte, ma che si dovesse pregare senza interruzione .

Riguardo ad Antonio, Atanasio precisa (Vit. Ant 3): “Lavorava con le sue mani perché aveva ascoltato: Chi non lavora, neppure mangi (2 Tess. 3,10).  Con una parte del suo guadagno comperava del pane, il resto lo distribuiva ai bisognosi.  Pregava continuamente, avendo imparato che bisogna pregare senza sosta.  Ascoltava la lettura con una tale attenzione, che non gli sfuggiva nulla delle Scritture e che la memoria gli faceva le veci dei libri”.

Bisogna subito notare, in questo testo di Atanasio, che la preghiera continua si accompagna con altre attività, in particolare con il lavoro. 

Evidentemente non è possibile parlare della Scrittura, come scuola di preghiera presso i Padri del deserto, senza fare riferimento alle due stupende Conferenze che Cassiano consacra esplicitamente alla preghiera, tutte e due attribuite ad abbà Isacco: la 9ª e la 10ª.

Il principio fondamentale è dato subito all'inizio della Conferenza 9ª: “Tutto lo scopo del monaco e la perfezione del cuore consistono nel perseverare ininterrottamente nella preghiera”.  E Isacco spiega che tutto il resto della vita monastica, l’ascesi e la pratica delle virtù, ha senso e ragione solo se conduce a questo scopo.

 

Che  cosa  significa  lectio  divina ?

Prima di proseguire, ci tengo a precisare subito che quando parlerò, in questa conferenza,  della lectio divina presso i Padri del deserto, non userò l’espressione lectio divina nel senso tecnico (e riduttivo) che gli è stato dato nella letteratura spirituale e monastica degli ultimi decenni.

Il termine latino lectio nel suo primo significato si riferisce ad un insegnamento, una lezione.  In un secondo senso, derivato, lectio può anche designare un testo, o un insieme di testi che trasmettono questo insegnamento. Così si parla di lezioni (lectiones) della Scrittura lette durante la liturgia.  Infine, in un senso ancora più derivato, e più tardivo, lectio può anche voler dire lettura.  

Quest’ultimo senso è evidentemente quello nel quale si intende questo termine oggi.  In effetti ai nostri giorni si parla di lectio divina come di un’osservanza determinata: e ci dicono che si tratta di una forma di lettura differente da tutte le altre, e che soprattutto non bisogna confondere l’autentica lectio divina con altre forme di semplice ‘lettura spirituale’.  Questa è una visione totalmente moderna che, come tale, rappresenta una concezione estranea ai Padri del deserto, e sulla quale tornerò subito.

Se si consulta l’insieme della letteratura latina [cristiana] primitiva (cosa che oggi è facile, sia con delle buone concordanze, sia con i CDRom di CETEDOC), si constata che ogni volta che si trova l'espressione lectio divina negli scrittori latini, prima del Medio Evo, questa espressione designa la stessa Sacra Scrittura, e non una attività umana sulla Sacra Scrittura.  Lectio divina è sinonimo di sacra pagina. Così si dice che la lectio divina ci insegna la tale o tal’altra cosa; che noi dobbiamo leggere con attenzione la lectio divina; che il Divin Maestro, nella lectio divina, ci ricorda questa o quella esigenza, ecc. 

Esempi: Cipriano:  “Sit manibus divina lectio” (De zelo et livore, cap 16); Ambrogio: “ut divinae lectionis exemplo utamur” (De bono mortis, cap 1, par.2); Agostino: “aliter invenerit in lectione divina” (Enarr in psalmos, ps 36, serm. 3, par. 1).

Questo è l’unico senso che aveva l’espressione lectio divina all’epoca dei Padri del deserto.  È quindi il senso che userò in questa conferenza, eccetto quando farò allusione all’approccio contemporaneo.  Non parlerò quindi di un’osservanza particolare che ha come oggetto la Scrittura, ma della stessa Scrittura come Scuola di vita e Scuola di preghiera dei primi monaci.

 

Lettura ?

Parlare di “lettura” della Scrittura nei Padri può d'altra parte indurre a confusione.  La lettura propriamente detta, così come la si intende oggi, doveva essere tutto sommato un fatto molto raro. I monaci pacomiani, per esempio, che venivano per lo più dal paganesimo, dovevano, dal loro arrivo al monastero, imparare a leggere se ancora non sapevano farlo, per poter imparare la Scrittura.  Un testo della loro Regola dice che non ci deve essere nessuno, in monastero, che non conosca a memoria almeno il Nuovo Testamento e i Salmi.  Ma una volta memorizzati, questi testi diventavano l’oggetto di una ‘meletè’, di una meditatio o ruminatio continua lungo tutto il giorno e gran parte della notte, sia in privato che nella sinassi.  Questa ruminatio della Scrittura non è concepita come una preghiera vocale, ma piuttosto come un contatto costante con Dio, attraverso la sua Parola.  Un’attenzione costante, che diventa una preghiera costante.

Un detto degli apoftegmi esprime bene questa importanza relativa della lettura in rapporto all’importanza assoluta del contenuto della Scrittura.

In un giorno di grande freddo, Serapione incontra ad Alessandria un povero completamente nudo.  Dice a se stesso: ‘È il Cristo, ed io sono un omicida se egli muore prima che io abbia cercato di aiutarlo’.  Serapione si toglie tutti i vestiti e li dona al povero e resta nudo per strada, conservando solo una cosa: un Evangelo sotto il braccio… Un passante, che lo conosceva, gli domanda: ‘Abba Serapione, chi ti ha tolto i tuoi vestiti?’.  E Serapione, mostrando il suo Evangelo, risponde: ‘Ecco chi mi ha tolto i miei vestiti’.  Serapione se ne va poi in un altro luogo e vede un tale condotto in prigione, perché impossibilitato a saldare un debito.  Serapione, preso da pietà, gli dona il suo Evangelo affinché, vendendolo, possa rimborsare il suo debito.  Quando, senz'altro tutto tremante, Serapione rientra alla sua cella, il suo discepolo gli domanda dove è la tunica e Serapione risponde che l'ha mandata là dove era più necessaria che non sul suo corpo. Alla successiva domanda del discepolo: ‘E dov'è il tuo Evangelo?’ Serapione risponde: ‘Ho venduto colui che mi diceva continuamente: ‘Vendete i vostri beni e donateli ai poveri’ (Lc 12,33); l’ho donato ai poveri, per avere una fiducia più grande nel giorno del giudizio’ (Pat Arm. 13,8 R:III, 189).

Come abbiamo detto all’inizio, Antonio, cristiano dalla nascita, è stato convertito alla vita ascetica dalla lectio divina, o sacra pagina, proclamata nella comunità ecclesiale locale, nel corso della celebrazione liturgica.

Pacomio, che proveniva da una famiglia pagana dell’Alto Egitto, fu convertito anche lui dalla Scrittura, ma dalla Scrittura interpretata e incarnata nella vita concreta di una comunità cristiana che viveva l'Evangelo, quella di Latopoli.  Conoscete la storia: il giovane Pacomio è destinato all’esercito romano ed è messo su una nave che lo conduce con gli altri coscritti verso Alessandria.  Una sera la nave si ferma a Latopoli e i coscritti sono messi in prigione; i Cristiani del posto portano loro dei viveri e delle bevande.  È il primo incontro di Pacomio con il cristianesimo.

Per Antonio, rappresentante per eccellenza dell’anacoretismo, come per Pacomio, rappresentante del cenobitismo, la Scrittura è prima di tutto Regola di vita.  Essa è anche la sola vera Regola del monaco.  Né Antonio né Pacomio hanno scritto Regole nel senso inteso dalla tradizione monastica dopo di loro, anche se un certo numero di regolamenti pratici di Pacomio e dei suoi successori sono stati riuniti sotto il nome di “Regola di Pacomio”.

 

Scrittura  come  unica  “Regola” del  monaco

A un gruppo di fratelli che volevano una ‘parola’ di Antonio, egli rispose: “Avente ascoltato la Scrittura? va proprio bene per voi” (notare il termine: ‘ascoltato’ –  èkousate) (Ant. 19).

Un altro domandò ad Antonio: “Che cosa devo fare per piacere a Dio?”.  L’anziano rispose: “Fa' ciò che ti dico: dovunque tu vada, abbi sempre Dio davanti ai tuoi occhi; qualunque cosa tu faccia, agisci secondo le testimonianze delle Scritture” (Ant. 3).

Sottolineiamo subito tre cose in questo breve apoftegma.  Prima di tutto: il monaco che interroga Antonio non cerca un insegnamento teorico e astratto.  La sua domanda, come quella del giovane ricco dell'Evangelo, è molto concreta: “Che cosa devo fare?” – “Che cosa devo fare per piacere a Dio?” (È d'altronde un atteggiamento che si ritrova costantemente negli apoftegmi).  La risposta di Antonio è duplice: si piace a Dio se si ha sempre Dio davanti agli occhi, ossia se si vive costantemente alla presenza di Dio (che è la concezione che hanno i Padri del deserto a proposito della preghiera continua); e questo è possibile se ci si lascia guidare dalle Scritture.  Antonio non parla qui di lettura o di meditazione delle Scritture, ma di compiere ogni cosa secondo la testimonianza delle Scritture.  

Un giorno Teodoro, il discepolo prediletto di Pacomio, gli domanda, con l’ardore tipico del neofita, quanti giorni si debba restare senza mangiare durante la Pasqua, ossia durante la Settimana Santa.  (La regola della Chiesa e l’uso comune era di fare un digiuno totale durante il venerdì santo e il sabato santo;  ma alcuni stavano tre o quattro giorni senza mangiar nulla).  Pacomio gli raccomanda di attenersi alla Regola della Chiesa, che prescrive il digiuno totale solo per i due ultimi giorni, per poter così avere la forza di compiere senza svenire le cose che ci sono comandate nelle Scritture: la preghiera incessante, le veglie, le recitazioni della legge di Dio e il lavoro manuale.

Ciò che importa prima di tutto ai Padri del deserto, non è leggere la Bibbia , ma viverla.  Evidentemente, per viverla, bisogna conoscerla.  E come ogni cristiano, il monaco imparava la Scrittura anzitutto ascoltandola proclamata nell’assemblea liturgica.  Imparava poi a memoria dei lunghi brani della Scrittura, allo scopo di poterla ruminare lungo tutta la giornata.  Da ultimo, alcuni avevano accesso a manoscritti della Scrittura e potevano farne una lettura privata.  Questa lettura privata non era che una forma tra altre, e non necessariamente la più importante, di lasciarsi costantemente interpellare dalla Parola di Dio.

 

L’ermeneutica  del  deserto

I racconti che ho ricordato ci lasciano intravedere le linee di forza di quella che si potrebbe chiamare l’ermeneutica dei Padri del deserto: un'ermeneutica certamente mai formulata sotto forma di principi astratti, ma tuttavia vera ermeneutica.  I grandi maestri dell’ermeneutica moderna, che considerano ogni interpretazione come un dialogo tra il testo e il lettore o l’ascoltatore, e per i quali ogni interpretazione deve normalmente condurre a una trasformazione o a una conversione, non hanno inventato nulla. Essi hanno formulato una realtà che i Padri del deserto hanno vissuto, certo senza formularla o comunque senza preoccuparsi di formularla.

Nel deserto la Scrittura è costantemente interpretata.  Questa interpretazione non si esprime sotto forma di commentari e di omelie, ma di azioni e di gesti, in una vita di santità trasformata dal dialogo costante del monaco con la Scrittura.  I testi non cessano di rivelare sempre ulteriori significati, non solo per coloro che li leggono o li ascoltano, ma anche per coloro che incontrano questi monaci che hanno incarnato tali testi nella loro vita.  L’uomo di Dio che ha assimilato la Parola di Dio è divenuto un nuovo ‘testo’, e un nuovo oggetto di interpretazione.  Ed è in questo contesto che occorre comprendere il fatto che, nel deserto, alla parola dell’Anziano viene attribuita la stessa forza della parola della Scrittura.

Ho ricordato più sopra l’apoftegma di Antonio che risponde ai fratelli: “Avete ascoltato la Scrittura? Va proprio bene per voi”.  Di fatto i fratelli non furono soddisfatti di questa risposta e gli dissero: “Padre, noi vogliamo anche una parola da te”.  Allora Antonio disse loro: “L'Evangelo dice: se qualcuno ti percuote su una guancia, tu offrigli anche l’altra”. Gli rispondono: “Non ci riusciamo”.  L’Anziano ribatte: “Se non potete offrire l’altra, sopportate almeno che vi percuotano su una guancia” – “Neppure” – “Se anche questo è impossibile, almeno non rendete il male ricevuto”. “Neanche questo” – Allora l’Anziano disse al suo discepolo: “Prepara loro un brodo di farina perché sono malati.  Se non potete questo e non potete quello: che cosa posso fare per voi? Voi avete bisogno di preghiere”.

 

Figli  della  Chiesa  d' Egitto  e  di  Alessandria

Questo modo di concepire la Scrittura come Regola di vita, d'altronde, non era proprio dei monaci.  Non bisogna dimenticare che i Padri del deserto – che conosciamo attraverso gli Apoftegmi, la letteratura pacomiana, Palladio e Cassiano ecc. – sono prima di tutto monaci egiziani della fine del terzo e inizio del quarto secolo.  Questi monaci sono figli della Chiesa.  Essi appartengono ad una Chiesa ben concreta, quella dell'Egitto, formata nella tradizione spirituale di Alessandria.  

Il mito secondo cui la maggior parte dei primi monaci, a cominciare da Antonio, furono degli analfabeti e ignoranti, non regge più alla critica.  Numerosi studi recenti – particolarmente quelli di Samuel Rubenson sulle Lettere di Antonio – hanno dimostrato che Antonio e i primi monaci del deserto d'Egitto avevano assimilato l’insegnamento spirituale della Chiesa di Alessandria, che era ancora profondamente segnata dall’insegnamento dei grandi maestri della Scuola di Alessandria, e in particolare dall’afflato mistico che le aveva dato il suo più illustre maestro: il grande Origene.

La Chiesa di Alessandria era nata dalla prima generazione cristiana, nell’ambiente di una diaspora giudaica molto colta che, secondo Plinio, contava circa un milione di membri. Si spiega allora come questa Chiesa di Alessandria e di Egitto abbia avuto sin dall’origine un netto orientamento giudaico-cristiano.  Questo, inoltre, spiega pure la sua apertura alla tradizione scritturistica e mistica, che aveva segnato la chiesa giudaico-cristiana delle prime generazioni.

La Scuola del Deserto è, sotto molti aspetti, la replica nella solitudine della Scuola d'Alessandria, dove sappiamo che Origene ha vissuto con i suoi discepoli un’esistenza monastica ante litteram tutta incentrata sulla Parola di Dio. Secondo una bella descrizione di Gerolamo, questa esistenza era un'alternanza continua dalla preghiera alla lettura e dalla lettura alla preghiera, di notte come di giorno (Lettera a Marcella 43,1; PL 22:478: Hoc diebus egisse et noctibus, ut et lectio orationem exciperet, et oratio lectionem).  

Tutto questo, però, non era tipico solo dell’Egitto.  Più o meno nello stesso periodo Cipriano di Cartagine formulava una regola che sarebbe stata poi citata da quasi tutti i Padri latini:  Prega assiduamente, o leggi; in certi momenti parla a Dio, in altri momenti ascolta Dio che ti parla” (Lettera 1,15; PL. 4:221 B: Sit tibi vel oratio assidua vel lectio: nunc cum Deo loquere, nunc Deus tecum – che diverrà la formula classica: “quando preghi, sei tu che parli a Dio; quando leggi, è Dio che ti parla”).

Se i monaci dell'Egitto non furono tutti come Evagrio, e se pochi di loro avranno potuto leggere Origene nei suoi testi, ciò non toglie che essi furono formati alla spiritualità cristiana dall’insegnamento di Pastori che furono fortemente influenzati dall’orientamento che Origene aveva dato alla Chiesa d'Alessandria, attraverso la Scuola che qui egli aveva diretto per molti anni.

Questo spiega la solida spiritualità biblica del monachesimo primitivo. Si potrà subito obiettare che le citazioni bibliche dirette tutto sommato sono poco numerose negli Apogtefmi, anche se sono più abbondanti nella letteratura pacomiana.  La riposta è che la Scrittura aveva talmente modellato il modo di vivere di quegli asceti, che era superfluo citarne dei passaggi.  Il monaco pneumatoforo era colui che, vivendo secondo le Scritture, era ricolmo dello stesso Spirito che aveva ispirato le Scritture.  (Si era ben lontani dall’abitudine moderna che esige che nessuna affermazione, nessun insegnamento sia preso sul serio se non è corredato di una nota a pie' di pagina, che indichi tutti quelli che hanno detto la stessa cosa prima di noi).

La tradizione di ciò che ora definiamo la lectio divina, cioè la cura di lasciarci interpellare e trasformare dal fuoco della Parola di Dio, non sarebbe comprensibile senza il suo legame –  al di là del monachesimo primitivo – alla tradizione dell’ascesi cristiana dei primi tre secoli e al suo radicamento nella tradizione di Israele.

Dalla catechesi ricevuta nella sua Chiesa locale, il monaco ha imparato che egli è stato creato a immagine di Dio, che questa immagine è stata deformata dal peccato e che essa deve essere restaurata.  Ne deriva la necessità di lasciarsi trasformare e ri-configurare a immagine di Cristo.  Con l’azione dello Spirito Santo e la vita secondo l'Evangelo, la sua somiglianza con Dio è gradualmente restaurata ed egli così può conoscere Dio.

Lo scopo della vita del monaco, così come è espresso da Cassiano, è la preghiera continua, che egli descrive come una costante attenzione alla Presenza di Dio, che si realizza attraverso la purezza del cuore.  Vi si arriva non attraverso questa o quella osservanza, e neanche attraverso la lettura o la meditazione della Scrittura, ma lasciandosi trasformare dalla Scrittura.

Il contatto con la Parola di Dio – non importa se questo contatto avviene attraverso la lettura liturgica della Parola, o l’insegnamento di un padre spirituale, o la lettura privata del testo, o la semplice ruminatio di un versetto o di qualche parola imparati a memoria – questo contatto è il punto di partenza di un dialogo con Dio.  Questo dialogo si stabilisce e prosegue nella misura in cui il monaco ha raggiunto una certa purezza di cuore, una semplicità di cuore e di intenzione, e anche nella misura in cui ha adoperato i mezzi per arrivare a questa purezza di cuore e per conservarla.  Questo dialogo – nel corso del quale la Parola spinge continuamente il monaco alla conversione – mantiene quella attenzione continua a Dio, che i Padri considerano come una preghiera continua e che è lo scopo della loro vita.  Per i monaci del deserto la lettura della Parola di Dio non è semplicemente un esercizio religioso di lectio che prepara gradualmente lo Spirito e il cuore alla meditatio e poi all’oratio, nella speranza di poter arrivare alla contemplatio (… se possibile prima che la mezz'ora o l'ora di lectio sia conclusa).  Per i monaci del deserto il contatto con la Parola è contatto con il fuoco che brucia, sconvolge, chiama violentemente alla conversione.  Il contatto con la Scrittura non è per loro un metodo di preghiera: è un incontro mistico.  E questo incontro spesso fa loro paura, tanto sono consapevoli delle sue esigenze.

 

Cerchio  ermeneutico

La Scrittura acquista costantemente un senso nuovo, ogni volta che la si legge.  Anche qui l’ermeneutica moderna raggiunge le intuizioni dei Padri del deserto.  Essi si ritroverebbero molto bene nell'affermazione di Agostino:  Ieri tu hai capito un po’; oggi capisci di più; domani capirai ancora di più: la luce stessa di Dio diventa più forte in te” (In Ioh. tract 14,5 CCL 36, p144, linee 34-36).

Per i monaci del deserto le parole della Scrittura (come d'altronde anche quelle degli Anziani) trascendono la dimensione limitata dell’ “evento” in cui sono state incontrate all'inizio e dove essi ne hanno percepito il senso.  Queste ‘parole’ proiettavano un ‘insieme di significati’ in cui essi cercavano di entrare.  La chiamata a vendere tutto, a donarne il ricavato ai poveri, a seguire l'Evangelo (Mt 19,21), l’esortazione a non lasciare mai che il sole tramonti sulla propria collera (Ef 4,25), il comandamento di amare: tutti questi testi hanno formato la vita dei Padri del deserto in un modo speciale e hanno creato un ‘insieme di significati’ in cui si sono sforzati di entrare, che si sono sforzati di far proprio.  La santità, nel deserto, consisteva nel dare una forma concreta a questo ‘insieme’ di possibilità che scaturivano dai testi sacri, interpretandoli e facendoli propri nella vita concreta.

Abbà Nestore (nella 14ª Conferenza di Cassiano) ci dice che “dobbiamo avere lo zelo di imparare a memoria i brani delle Scritture, e di ripassarli senza tregua nella nostra memoria. Questa meditazione continua – egli dice – ci procurerà un duplice frutto”.  Innanzitutto ci preserverà dai cattivi pensieri. E poi, questa recitazione o meditazione continua ci porterà ad una comprensione continuamente rinnovata.  E Nestore dice questa frase stupenda: “ A misura che, attraverso questo studio, il nostro spirito si rinnova, le Scritture cominciano a cambiare di aspetto (scripturarum facies incipiet innovari).  Ce ne è donata una comprensione più misteriosa, la cui bellezza cresce con i nostri progressi”.  (Ancora una volta incontriamo questo legame indissolubile tra la pratica delle Scritture e la capacità di comprenderle ad un livello più profondo).

(Si potrà ancora una volta confrontare questa visione con l’approccio moderno, per esempio di Ricoeur, che dice che un testo, una volta uscito dalle mani del suo autore, acquista un'esistenza autonoma e assume un nuovo significato ogni volta che viene letto: infatti ogni lettura è una interpretazione, che a sua volta è la rivelazione di una delle possibilità pressoché infinite contenute nel testo).

Secondo il metodo moderno di lectio divina, si deve leggere lentamente e ci si deve fermare su un versetto fintanto che esso nutre il cuore, o lo spirito, o le emozioni, e si deve passare a quello successivo quando i sentimenti si sono raffreddati e l’attenzione si è dissipata. Invece i primi monaci  rimanevano su un versetto fino a quando non l’avessero messo in pratica.

Un tale andò a trovare abbà Pambo e gli domandò di insegnargli un salmo.  Pambo si mise ad insegnargli il salmo 38: ma aveva appena pronunziato il primo versetto: “Ho detto: ‘Custodirò la mia strada, senza permettere che la mia lingua sgarri’ il fratello non volle ascoltarne di più.  Disse a Pambo: questo versetto mi basta; piaccia a Dio che io abbia la forza di impararlo e di metterlo in pratica.  Diciannove anni più tardi era sempre lì a sforzarsi... (Arm 19,23 Aa: IV 163).

Allo stesso modo, ad abbà Abramo, che era un eccellente scriba oltre ad essere un uomo di preghiera, uno chiese di copiargli il salmo 33.  Egli si limitò a copiare il versetto 15: “Allontànati dal male e fa' il bene; cerca la pace e persèguila”, dicendo al fratello: “Intanto metti in pratica questo, e poi te ne scriverò ancora…” (Arm 10,67; III, 41).

   La Scrittura per i Padri non era qualcosa che si conosce con l’intelligenza, e neanche con il cuore, come si usa dire ai nostri giorni (confondendo peraltro di frequente il concetto biblico di cuore con una nozione di ‘cuore’ più recente e un po’ sentimentale).  Secondo i Padri si conosce la Scrittura assimilandola a tal punto da tradurla nella propria vita.  Ogni altra conoscenza che non conduce a questo è vana.

 

Comprensione  della  Scrittura

Tutto questo, però, non vuol significare che non si debba accostare la Scrittura con l’intelligenza.  I monaci si curano di conoscere il senso letterale della Scrittura, prima di applicarla a sé.  Nei monasteri pacomiani, per esempio, ogni settimana c’erano tre catechesi durante le quali sia il superiore del monastero, sia il superiore della casa, interpretava la Scrittura durante la Sinassi, dopodiche i fratelli si scambiavano tra di loro quanto avevano percepito, per accertarsi se tutti avessero ben compreso.

L’interpretazione di un testo difficile richiede uno sforzo dell'intelligenza; ma questo sforzo sarebbe inutile senza la luce divina, che occorre domandare nella preghiera.  In questo senso la preghiera deve precedere la lectio al punto che questa può esserne il frutto.  A due monaci che interrogavano Antonio sul senso di un testo difficile del Libro del Levitico, Antonio chiese di aspettare un po’ di tempo, durante il quale andava a mettersi in preghiera, per chiedere a Dio di inviargli Mosè che gli insegnasse il senso di quella parola (Arm 12, 1B; III, 148).  Prima di lui Origene faceva lo stesso, chiedendo ai suoi discepoli di pregare con lui per ottenere la comprensione di un testo sacro particolarmente difficile, allo scopo – diceva – di trovare l' ‘edificazione spirituale’ contenuta in quel testo (Origene, Omelie sulla Genesi, SC 7, Paris 1943, Hom 2,3, p. 96). Notiamo l’espressione ‘contenuta nel testo’.  Il senso spirituale della Scrittura non è qualcosa che le è aggiunto artificialmente, ma è qualcosa già contenuto nel testo, e che occorre scoprire. 

Allo stesso modo, un grande monaco, Isacco di Ninive, scriveva: “Non avvicinarti alle parole piene di mistero della Scrittura senza pregare…Chiedi a Dio: Signore, concedimi di percepire la forza che vi si trova”  (cfr J. WENSINGK, Mystic Treatises by Isaac of Nineve, Amsterdam 1923, par. 329, ch. XLV, p. 220).  Quello che si cerca in un testo, non è un significato astratto, atemporale, ma è una forza capace di trasformare il lettore.

Le teorie moderne sulla lectio divina insistono di solito sul fatto che la lectio è qualcosa di totalmente diverso dallo studio.  I Padri non avrebbero certo capito questa distinzione e questa divisione in compartimenti stagni.  Il loro approccio alla Scrittura era unificato.  Ogni sforzo per imparare la Scrittura, comprenderla, metterla in pratica era un unico sforzo di entrare in dialogo con Dio e di lasciarsi trasformare da lui in questo dialogo che diveniva una preghiera continua.  Né loro, né Origene – per eccellenza l’uomo della Scrittura –, né soprattutto Girolamo – per il quale l’ignoranza delle Scritture era ignoranza di Cristo (In Esaiam, Prol. CCL 73,2, CCL 78,66) –, non avrebbero capito uno studio della Scrittura che non fosse un incontro personale con il Dio vivo.

Per Girolamo, la preghiera non risiede dapprima nel cuore, ma nell’intelligenza (da dove poi essa passa nel cuore).  Prima di tutto bisogna conoscerlo, Dio, per poterlo amare.  Colui che conosce davvero, necessariamente ama.  Da qui l’importanza di studiare a fondo e di capire le Scritture con la propria intelligenza.

A proposito di Marcella, che più di tutti gli altri discepoli di Girolamo aveva studiato a fondo le Scritture e le leggeva assiduamente, Girolamo diceva: “Lei capiva che la meditazione non consiste nel ripetere i testi della Scrittura… perché sapeva che non avrebbe meritato la comprensione delle Scritture se non  dopo averne tradotto nella vita i comandamenti.” (Ep. 127,4, CSEL 56,148). 

Nella sua 14ª Conferenza, Cassiano, da buon portavoce della spiritualità del deserto egiziano dove era vissuto per vari anni, come Evagrio distingue due forme di scienza: la practikè e la theoretikè, quest’ultima considerata la contemplazione delle cose divine e la conoscenza dei significati più sacri.  Questa theoretikè, o contemplazione delle cose divine, la chiama anche “vera scienza delle Scritture”, che egli divide in due parti: l’interpretazione storica e l’intellezione spirituale. L’una e l’altra appartengono alla contemplazione.

Cassiano aggiunge: “se vuoi arrivare alla vera scienza delle Scritture, affrèttati prima di tutto ad acquistare una indistruttibile umiltà di cuore.  Sarà essa a guidarti, non alla scienza che sgonfia, ma a quella che illumina, mediante la consumazione della carità”.  Quindi, ciò che fa sì che lo studio della Scrittura sia o no una attività contemplativa, non è il metodo utilizzato per la lettura o per l’interpretazione, ma l’atteggiamento del cuore.

 

Pre - comprensione

L’ermeneutica di Ricouer ci insegna che quando si legge un autore antico non si entra tanto in rapporto con il pensiero dell'autore, quanto con la realtà stessa di cui parla l’autore.  Per questo non è possibile una comprensione di un testo senza una pre-comprensione, che consiste in un certo rapporto già esistente tra il lettore e la realtà di cui parla il testo.  Ora, si trova già una intuizione simile in Cassiano, alla fine della 10° Conferenza.  Isacco, dopo aver spiegato i mezzi per arrivare alla preghiera pura, aggiunge: il monaco,“vivificato da questo cibo (quello delle Scritture) di cui non smette di nutrirsi, si compenerta a tal punto di tutti i sentimenti espressi nei salmi, da recitarli ormai non come fossero stati composti dal profeta, bensì come se ne fosse lui stesso l’autore, e come una preghiera personale…”. E aggiunge: “Avviene infatti che le Scritture divine si manifestano a noi con maggiore chiarezza – e in un certo qual senso è il loro cuore ed il loro midollo che ci viene manifestato – quando la nostra esperienza non solo ci permette di prenderne conoscenza, ma fa in modo che noi preveniamo questa stessa conoscenza, e che il senso delle parole non ci è rivelato mediante qualche spiegazione, ma per averlo sperimentato noi stessi" (Conf X, 11). "Ammaestrati da ciò che noi stessi proviamo, non sono per noi delle cose che propriamente parlando impariamo per sentito dire, ma noi in qualche modo ne palpiamo la realtà per averle percepite fino in fondo; esse non ci fanno l'effetto di cose affidate alla nostra memoria, quanto piuttosto di cose generate dal profondo del nostro cuore, come sentimenti naturali e che fanno parte del nostro essere; non è la lettura che ci fa penetrare il senso delle parole,  ma l' esperienza fatta" (ibid.)

Non esiste comprensione e interpretazione senza una pre-comprensione.  Sotto questo aspetto è chiaro che la vita che i monaci conducono nel deserto, fatta tutta di silenzio, solitudine e ascesi, costituiva una pre-comprensione che condizionava moltissimo la loro comprensione della Scrittura.  Silenzio e purezza di cuore erano visti come delle pre-condizioni per capire e interpretare la Scrittura nel suo senso più completo.

Non si può capire se non quello che si vive già, almeno in una certa misura.  Ecco perché Girolamo indica un ordine con il quale imparare la Scrittura: dapprima il Salterio, poi i Proverbi di Salomone e il Qohelet, poi il Nuovo Testamento.  E, soltanto dopo che l'anima si è preparata attraverso un lungo rapporto di intimità amorosa con Cristo, essa potrà accostare con frutto il Cantico dei cantici.

 

Parole  degli  Anziani

Talvolta i Padri del deserto rispondevano alla domanda che veniva fatta loro, con una parola delle Scritture; ma essi rispondevano anche con altre parole, alle quali si dava praticamente la stessa importanza.  Si era convinti che la forza di queste parole veniva dalla grande purezza di vita del santo anziano che le diceva, perché era stato egli stesso trasformato dalla Scrittura.

 

La  concezione  moderna  di  lectio  divina

Alla luce degli insegnamenti dei Padri del deserto che vi ho appena presentato, vorrei fare ora qualche riflessione sulla concezione che oggi noi abbiamo di lectio divina,

Ciò che oggi viene chiamato lectio divina è presentato come un metodo di lettura della Scrittura e dei Padri del monachesimo.  Consiste in una lettura lenta e meditata del testo, una lettura fatta più con il cuore che con l’intelligenza, si dice, non con uno scopo pratico, ma semplicemente per lasciarsi impregnare dalla Parola di Dio.  Questo metodo, in quanto metodo, ha origine nel 12° secolo, e non è senza relazione con quella che è stata chiamata ‘teologia monastica’.  A quei tempi la pre-scolastica aveva sviluppato il proprio metodo, che passava dalla lectio alla quaestio, poi alla disputatio.  La reazione dei monaci fu allora di sviluppare un loro proprio metodo: la lectio che conduce alla meditatio, poi all’oratio… e un po’ più tardi si aggiungerà la contemplatio, che verrà distinta dall’oratio

Mentre l’approccio alle Scritture, che ho descritto come proprio dei Padri del deserto, in realtà era un approccio che essi avevano in comune con l’insieme del popolo di Dio, il nuovo approccio – o nuovo ‘metodo’, poiché si tratta ora di un esercizio, di un osservanza importante della vita monastica – si rifugiò nei monasteri.  

Molto più tardi, all’epoca della devotio moderna, si generalizzò la ‘lettura spirituale’, curandosi di distinguerla nettamente dalla lectio divina monastica.  Ormai secondo la corrente generale la vita spirituale si specializza, o si divide in compartimenti stagni.  

Sarebbe fuori dal tema della nostra conferenza analizzare questa lunga evoluzione.  Tuttavia mi permetto alcune osservazioni.  La prima è che ci si può chiedere come si sarebbe sviluppata la teologia se i monaci non avessero respinto il metodo nascente.  In effetti, quella che è stata chiamata teologia monastica non ebbe, fino al XII secolo, nulla di specificamente monastico. Era il modo con cui si faceva la teologia in tutto l'insieme del popolo di Dio, senz'altro con un gran pluralismo sia nei monasteri sia al di fuori di essi. Questo modo sapienziale e contemplativo di fare la teologia era riuscito, fino ad allora, ad assumere e a trasformare (inculturare, si direbbe oggi) i contributi dei diversi metodi e delle diverse correnti di pensiero.  È legittimo chiedersi come si sarebbe sviluppata la teologia dei secoli successivi se i monaci non avessero respinto il metodo nascente e non avessero saputo assimilarlo come ne avevano assimilati molti altri in passato. Resta il fatto che, bene o male, una maniera detta monastica di fare la teologia venne conservata nei monasteri, mentre la teologia scolastica si sviluppò nelle scuole al di fuori dei monasteri.  In Tommaso d’Aquino il nuovo metodo è ancora utilizzato in una prospettiva profondamente contemplativa. Nei commentatori, e nei commentatori dei commentatori, esso si inaridirà sempre di più.

La stessa cosa avvenne per lo studio della Scrittura.  I monaci avevano svolto, fino a quel momento, un ruolo preponderante nell’interpretazione e nell’uso della Scrittura, benché il loro approccio non fosse sostanzialmente diverso da quello dell’insieme del popolo di Dio.  Ma dal momento in cui – subendo, pur senza rendersene conto, l’influsso della nuova mentalità – essi elaborarono un loro proprio metodo di lettura, parallelo a quello della scolastica, nella Chiesa esistono due modi nettamente distinti di accostare la Scrittura: uno che si autodefinisce come una lettura del cuore (e che in certe epoche dimenticherà spesso di far seguire l’intelligenza) e uno di orientamento scientifico, che si inaridirà sempre di più.  

D’altra parte bisogna riconoscere che, precisando il loro proprio metodo di lectio, i monaci erano già dipendenti dalla nuova mentalità, pre-scolastica, che aveva creato un bisogno di metodo.           I primi monaci non avevano un metodo: avevano un atteggiamento di lettura.  

Spesso, nel corso degli ultimi secoli, i monaci dimenticarono la loro propria maniera di leggere la Scrittura e i Padri e di fare la teologia, e adottarono quella comune.  Era quindi necessario per i monaci, alla nostra epoca, ritornare a un modo di fare la  teologia diverso da quello della teologia dei manuali scolastici, e di ritornare ad un modo di leggere la Scrittura e i Padri diverso da quello dell’esegesi scientifica moderna.  Dobbiamo avere, nei confronti di dom Jean Leclercq, una grandissima riconoscenza per aver orientato il monachesimo contemporaneo in questa direzione.  D'altra parte si potrebbe dire, con un po' di humor, che i concetti di teologia monastica e di lectio divina, così come vengono intense oggi queste due realtà, sono le due più belle invenzioni di dom Leclercq.

Era importante, come dicevo, che il monachesimo riscoprisse questo modo di leggere la Scrittura e questo modo di fare la teologia.  Ma occorre andare ancora oltre: occorre riconoscere che questo modo di leggere la Scrittura e di fare la teologia non ha nulla di specificamente monastico. È tutto il popolo di Dio che deve riscoprirlo, perché questo era – una volta – il modo con cui tutto il popolo di Dio leggeva la Scrittura e faceva la teologia.

Tuttavia bisogna fare ancora un ulteriore passo.  Bisogna superare la frammentazione della vita del monaco e degli altri cristiani.  Bisogna riscoprire l'unità primitiva, perduta lungo la strada.

In effetti, se è vero che ci si deve rallegrare per il posto che da circa una quarantina d’anni la lectio divina ha preso nella vita dei monaci, e anche nella vita di molti cristiani al di fuori dei monasteri, è altrettanto vero che l’attuale atteggiamento verso questa realtà non è privo di pericolo.

Il pericolo è che, molto spesso, benché sovente in un modo impercettibile, si è trasformata la lectio in un esercizio, un esercizio tra altri, anche se lo si considera il più importante di tutti. Il monaco fedele fa una mezz’ora o un’ora e anche più di lectio al giorno, e poi passa alla sua lettura spirituale, ai suoi studi e alle altre sue attività.  Adotta un atteggiamento gratuito di ascolto di Dio durante questa mezz’ora, e poi si dedica alle altre attività nel resto della giornata con una frenesia, uno spirito di competizione, una distrazione come se non avesse fatto la scelta di una vita di preghiera continua e di una ricerca costante della presenza di Dio.

Non solo tutto ciò è completamente estraneo allo spirito dei monaci del deserto, ma questo atteggiamento è in contraddizione con la natura stessa della lectio divina.  Ciò che costituisce la sua essenza, così come è descritta dai suoi migliori teorici, è l’atteggiamento interiore.  Ora, questo atteggiamento non è qualcosa di cui sia possibile rivestirsi soltanto durante una mezz’ora o un'ora della giornata. O lo si ha in permanenza o non lo si ha. Esso impregna tutta la nostra giornata, oppure l’esercizio che chiamiamo ‘lectio’ non è che un gioco vuoto.

Lasciarsi interrogare da Dio, lasciarsi interpellare, formare, attraverso tutti gli elementi della giornata, attraverso il lavoro come attraverso gli incontri fraterni, attraverso la rude ascesi di un lavoro intellettuale serio come attraverso la celebrazione liturgica e le tensioni normali di una vita comunitaria: tutto questo è terribilmente esigente. Relegare questo atteggiamento di totale apertura ad un esercizio privilegiato, a sua volta ritenuto capace di impregnare tutto il resto della nostra giornata, è forse un modo troppo facile di risolvere questa esigenza.  

Per i Padri del deserto, leggere, meditare, pregare, analizzare, interpretare, scrutare, tradurre la Scrittura: tutto questo formava un'unità indissolubile.  Sarebbe risultato impensabile, per esempio, a un san Girolamo considerare che la sua analisi approfondita del testo ebraico della Scrittura, per coglierne tutte le sfumature, fosse una attività non degna del nome lectio divina.

È certamente felice la riscoperta dell'importanza di leggere la Parola di Dio con il proprio cuore, di leggerla per lasciarsi trasformare.  Ma credo che è un errore farne un esercizio, piuttosto di impregnare di questo atteggiamento i molteplici aspetti dell'accostamento della Scrittura.

Di più, credo che il testo della Scrittura può raggiungermi nella mia vita profonda, interpellarmi e trasformarmi solo quando io mi metto completamente nudo davanti al testo, senza ricorrere a tutti gli strumenti che possono permettermi di raggiungere il suo significato primario, c'è il grosso rischio di condurre ad un atteggiamento fondamentalista – per nulla raro ai giorni nostri – o anche a un falso misticismo, anch'esso molto frequente.

Poiché è generalmente ammesso, ai giorni nostri, che la lectio divina possa avere come oggetto non solamente la Scrittura, ma anche i Padri della Chiesa e, per i monaci e le monache, particolarmente i Padri del monachesimo, mi permetto di fare una riflessione anche su questo.

Poiché la tradizione monastica è una interpretazione vissuta della Parola di Dio, essa ha una importanza simile a questa, benché secondaria rispetto ad essa.  Abbiamo visto d'altra parte come i Padri del deserto tendessero ad accordare la stessa potenza sia alla parola o all'esempio di un Anziano trasformato dallo Spirito, e sia alla Parola di Dio o ad un esempio biblico.  Ma questa parola vissuta che è la tradizione monastica ha bisogno anch'essa di essere interpretata e continuamente re-interpretata.

Ai nostri giorni, nelle comunità monastiche si sono riscoperti i Padri.  E bisogna rallegrarsi per questa riscoperta.  Ma il loro messaggio, ancor più di quello delle Scritture, è avvolto in un contesto culturale che non è, come troppo spesso si pensa, la cultura monastica – come se non ce ne fosse che una sola – ma piuttosto il contesto culturale di tale o tal'altra epoca particolare, in cui gli antichi monaci hanno vissuto la loro vocazione.  Il lettore moderno deve esporsi senza alcun spirito critico alla forza trasformante della grazia che loro hanno vissuto e che loro veicolano; ma non può farlo che se non dopo aver raschiato, con un senso critico affinato, l’involucro culturale sotto il quale si nasconde questo nutrimento prezioso.

Come non esiste una cultura cristiana, parallela a tutte le culture profane, ma piuttosto delle culture locali cristianizzate, per altro in gradi diversi; così non esiste una cultura monastica, ma piuttosto varie culture trasformate dal loro incontro con il carisma monastico.  L’utilizzazione dei Padri come materia di lectio divina richiede un serio lavoro di esegesi e di studio, per raggiungere la realtà che essi hanno vissuto al di là dell’involucro culturale.  Altrimenti si legge se stessi nei testi che si ammirano; e, naturalmente, più vi si ritrova se stessi, più li si ammira.

Il monaco oggi sarà interpellato, chiamato alla conversione, trasformato dalla lettura dei Padri del monachesimo unicamente alla condizione che egli si lasci toccare da loro in tutti gli aspetti della sua esperienza monastica.  E ciò non si produrrà se non nella misura in cui egli li raggiungerà nell’insieme della loro esperienza: il che  presuppone una analisi approfondita della loro lingua e del loro linguaggio, del loro pensiero filosofico e teologico, del contesto culturale in cui sono vissuti. Mi sembra artificiale, e anche pericoloso, distinguere questo studio dalla lectio propriamente detta, come se esso non fosse altro che un preliminare…

Il monaco di oggi appartiene necessariamente ad una determinata cultura, e ad una chiesa locale, quindi ad una determinata cultura cristiana.  È questa cultura che, in lui, incontra la tradizione monastica e deve lasciarsi interpellare e trasformare da essa.  Temo che troppo spesso, nel nostro accostamento ai Padri, noi spingiamo i giovani ad assumere come un vestito la cultura monastica di un epoca passata, con il rischio di trasformare i nostri monasteri in campi di rifugiati culturali.

 

Conclusione

I Padri del deserto ci ricordano l’importanza primordiale della Scrittura nella vita del cristiano e la necessità di lasciarsi trasformare costantemente nel crogiuolo della Parola di Dio.

Inoltre, uno studio anche rapido, come quello che abbiamo fatto, sul modo con cui essi accostavano la Scrittura, è tale da  spingerci a rivedere certi aspetti della concezione moderna di lectio divina, o più esattamente ci chiama a oltrepassarli per raggiungere un più profondo senso dell'unità di vita.  Il monaco, ancor meno di altri, non può permettersi di essere diviso.  Il suo stesso nome, monachos, gli ricorda incessantemente l’unità di preoccupazione, di aspirazione e di atteggiamento che compete a colui o colei che ha scelto di vivere un solo amore con cuore indiviso.

 


Note  

Molte delle citazioni di testi monastici antichi sono tolte da uno studio di Louis Leloir: "Lectio Divina and the Desert Fathers", Liturgy, Vol. 23, nº 2, 1969, pp. 3-38.

Una versione ridotta del medesimo studio è apparsa in francese in: "L’Écriture et les Pères", Revue d’Ascétique et de Mystique 47 (1971), pp. 183-199. 

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