Scrittura,
scuola di vita
La vocazione di Antonio, così come ci viene descritta nella Vita
Antonii di Atanasio, è ben nota. Un giorno il giovane Antonio, educato in
una famiglia cristiana della Chiesa di Alessandria (o nella regione circostante),
e che quindi aveva sentito leggere le Scritture fin dall'infanzia, entra
in chiesa ed è molto colpito dal testo della Scrittura che sente
leggere: si tratta dell’episodio della vocazione del giovane ricco: “Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutto
quello che hai, dallo ai poveri e vieni, seguimi, avrai un tesoro in cielo” (Mt 19,21; Vit Ant 2).
Antonio senza
dubbio aveva già sentito molte volte questo testo in passato; ma quel giorno il
messaggio lo colpisce come una frustata, ed egli lo recepisce come una chiamata
personale. Lo mette in pratica: vende
la proprietà familiare – assai cospicua – e distribuisce ai poveri del paese il
ricavato della vendita, tenendosi giusto quanto gli occorreva per occuparsi
della giovane sorella, di cui aveva la responsabilità.
Qualche tempo
dopo, entrando di nuovo in chiesa, ascolta un altro testo dell'Evangelo, che lo
scuote quanto il primo: “Non
preoccupatevi per il domani” (Mt 6,34; Vit Ant 3). Questo testo lo colpisce in fondo al cuore,
come una chiamata personale. Affida la
sorella ad una comunità di vergini (tali comunità esistevano già da tempo), si
libera di tutto quello che gli resta e intraprende la vita ascetica vicino al
suo paese, facendosi aiutare dagli asceti del luogo.
Questo racconto indica molto bene l’importanza e il senso che la Scrittura
aveva per i Padri del deserto.
Essa era innanzi tutto scuola di vita. E dal momento che era
scuola di vita, era anche scuola di preghiera
per uomini e donne che aspiravano a rendere la loro vita una preghiera
continua, così come chiedeva loro la Scrittura.
I Padri del deserto volevano vivere fedelmente
tutti i precetti della Scrittura. E, nella Scrittura, l’unico
precetto concreto che essi trovavano circa la frequenza della preghiera, non
era che si dovesse pregare ad una tale o tal’altra ora del giorno o della
notte, ma che si dovesse pregare senza interruzione .
Riguardo ad
Antonio, Atanasio precisa (Vit. Ant 3): “Lavorava con le sue mani perché aveva
ascoltato: Chi non lavora, neppure mangi (2
Tess. 3,10). Con una parte del suo
guadagno comperava del pane, il resto lo distribuiva ai bisognosi. Pregava continuamente, avendo imparato che
bisogna pregare senza sosta. Ascoltava
la lettura con una tale attenzione, che non gli sfuggiva nulla delle Scritture
e che la memoria gli faceva le veci dei libri”.
Bisogna subito notare, in questo testo di Atanasio,
che la preghiera continua si accompagna con altre attività, in particolare con
il lavoro.
Evidentemente
non è possibile parlare della Scrittura, come scuola di preghiera presso
i Padri del deserto, senza fare riferimento alle due stupende Conferenze
che Cassiano consacra esplicitamente alla preghiera, tutte e due attribuite ad
abbà Isacco: la 9ª e la 10ª.
Il principio fondamentale è dato subito all'inizio
della Conferenza 9ª: “Tutto lo scopo del monaco e la perfezione
del cuore consistono nel perseverare ininterrottamente nella preghiera”. E Isacco spiega che tutto il resto della vita
monastica, l’ascesi e la pratica delle virtù, ha senso e ragione solo se
conduce a questo scopo.
Che
cosa
significa
“lectio
divina
” ?
Prima di
proseguire, ci tengo a precisare subito che quando parlerò, in questa
conferenza, della lectio divina presso i Padri del deserto, non userò
l’espressione lectio divina nel senso
tecnico (e riduttivo) che gli è stato dato
nella letteratura spirituale e monastica degli ultimi decenni.
Il termine latino lectio nel suo primo significato si riferisce ad un insegnamento,
una lezione. In un secondo
senso, derivato, lectio può anche
designare un testo, o un insieme di testi che trasmettono questo
insegnamento. Così si parla di lezioni (lectiones)
della Scrittura lette durante la liturgia. Infine, in un senso ancora più derivato, e più tardivo, lectio può anche voler dire lettura.
Quest’ultimo senso è evidentemente quello nel quale
si intende questo termine oggi. In
effetti ai nostri giorni si parla di lectio
divina come di un’osservanza determinata: e ci dicono che si tratta di una
forma di lettura differente da tutte le altre, e che soprattutto non bisogna
confondere l’autentica lectio divina
con altre forme di semplice ‘lettura spirituale’. Questa è una visione totalmente moderna che, come tale,
rappresenta una concezione estranea ai Padri del deserto, e sulla quale
tornerò subito.
Se si consulta l’insieme della letteratura latina
[cristiana] primitiva (cosa che oggi è facile, sia con delle buone concordanze,
sia con i CDRom di CETEDOC), si constata che ogni volta che si trova
l'espressione lectio divina negli
scrittori latini, prima del Medio Evo, questa espressione designa la stessa Sacra
Scrittura, e non una attività umana sulla Sacra Scrittura. Lectio
divina è sinonimo di sacra pagina.
Così si dice che la lectio divina ci
insegna la tale o tal’altra cosa; che noi dobbiamo leggere con attenzione la lectio divina; che il Divin Maestro, nella lectio divina, ci ricorda questa o quella esigenza, ecc.
Esempi:
Cipriano: “Sit
manibus divina lectio” (De zelo et livore, cap 16); Ambrogio: “ut divinae
lectionis exemplo utamur” (De bono mortis, cap 1, par.2); Agostino: “aliter
invenerit in lectione divina” (Enarr in psalmos, ps 36, serm. 3, par. 1).
Questo è l’unico senso che aveva l’espressione lectio divina all’epoca dei Padri del
deserto. È quindi il senso che
userò in questa conferenza, eccetto quando farò allusione all’approccio
contemporaneo. Non parlerò quindi di
un’osservanza particolare che ha come oggetto la Scrittura, ma della
stessa Scrittura come Scuola di vita e Scuola di preghiera dei primi
monaci.
Lettura
?
Parlare di
“lettura” della Scrittura nei Padri può d'altra parte indurre a
confusione. La lettura propriamente
detta, così come la si intende oggi, doveva essere tutto sommato un fatto molto
raro. I monaci pacomiani, per esempio, che venivano per lo più dal paganesimo,
dovevano, dal loro arrivo al monastero, imparare a leggere se ancora non
sapevano farlo, per poter imparare la Scrittura. Un testo della loro Regola dice che non ci
deve essere nessuno, in monastero, che non conosca a memoria almeno il Nuovo
Testamento e i Salmi. Ma una
volta memorizzati, questi testi diventavano l’oggetto di una ‘meletè’, di una meditatio o ruminatio continua lungo tutto il
giorno e gran parte della notte, sia in privato che nella sinassi. Questa ruminatio
della Scrittura non è concepita come una preghiera vocale, ma piuttosto
come un contatto costante con Dio, attraverso la sua Parola. Un’attenzione costante, che diventa una
preghiera costante.
Un detto degli apoftegmi esprime bene questa
importanza relativa della lettura in rapporto all’importanza assoluta del
contenuto della Scrittura.
In un giorno
di grande freddo, Serapione incontra ad Alessandria un povero completamente
nudo. Dice a se stesso: ‘È il Cristo,
ed io sono un omicida se egli muore prima che io abbia cercato di aiutarlo’. Serapione si toglie tutti i vestiti e li
dona al povero e resta nudo per strada, conservando
solo una cosa: un Evangelo sotto il braccio… Un passante, che lo
conosceva, gli domanda: ‘Abba Serapione, chi ti ha tolto i tuoi vestiti?’. E Serapione, mostrando il suo Evangelo,
risponde: ‘Ecco chi mi ha tolto i miei vestiti’. Serapione se ne va poi in un altro luogo e vede un tale condotto
in prigione, perché impossibilitato a saldare un debito. Serapione, preso da pietà, gli dona il suo
Evangelo affinché, vendendolo, possa rimborsare il suo debito. Quando, senz'altro tutto tremante, Serapione
rientra alla sua cella, il suo discepolo gli domanda dove è la tunica e
Serapione risponde che l'ha mandata là dove era più necessaria che non sul suo
corpo. Alla successiva domanda del discepolo: ‘E dov'è il tuo Evangelo?’
Serapione risponde: ‘Ho venduto colui che mi diceva continuamente: ‘Vendete i
vostri beni e donateli ai poveri’ (Lc 12,33); l’ho donato ai poveri, per avere una fiducia più grande
nel giorno del
giudizio’ (Pat Arm. 13,8 R:III, 189).
Come abbiamo detto all’inizio, Antonio, cristiano
dalla nascita, è stato convertito alla vita ascetica dalla lectio divina, o sacra pagina,
proclamata nella comunità ecclesiale locale, nel corso della celebrazione
liturgica.
Pacomio, che proveniva da una famiglia pagana
dell’Alto Egitto, fu convertito anche lui dalla Scrittura, ma dalla Scrittura
interpretata e incarnata nella vita concreta di una comunità cristiana che
viveva l'Evangelo, quella di Latopoli.
Conoscete la storia: il giovane Pacomio è destinato all’esercito romano
ed è messo su una nave che lo conduce con gli altri coscritti verso
Alessandria. Una sera la nave si ferma
a Latopoli e i coscritti sono messi in prigione; i Cristiani del posto portano
loro dei viveri e delle bevande. È il
primo incontro di Pacomio con il cristianesimo.
Per Antonio, rappresentante per eccellenza dell’anacoretismo,
come per Pacomio, rappresentante del cenobitismo, la Scrittura è
prima di tutto Regola di vita.
Essa è anche la sola vera Regola del monaco. Né Antonio né Pacomio hanno scritto Regole nel senso inteso dalla
tradizione monastica dopo di loro, anche se un certo numero di regolamenti
pratici di Pacomio e dei suoi successori sono stati riuniti sotto il nome di
“Regola di Pacomio”.
Scrittura
come unica “Regola” del
monaco
A un gruppo di fratelli che volevano una ‘parola’ di
Antonio, egli rispose: “Avente ascoltato
la Scrittura? va proprio bene per voi” (notare il termine: ‘ascoltato’
– èkousate) (Ant. 19).
Un altro domandò ad Antonio: “Che cosa devo fare per piacere a Dio?”. L’anziano rispose: “Fa' ciò che ti dico: dovunque tu vada, abbi
sempre Dio davanti ai tuoi occhi; qualunque cosa tu faccia, agisci secondo le
testimonianze delle Scritture” (Ant. 3).
Sottolineiamo subito tre cose in questo breve
apoftegma. Prima di tutto: il monaco
che interroga Antonio non cerca un insegnamento teorico e astratto. La sua domanda, come quella del giovane ricco
dell'Evangelo, è molto concreta: “Che cosa devo fare?” – “Che cosa devo fare per
piacere a Dio?” (È d'altronde un atteggiamento che si ritrova costantemente
negli apoftegmi). La risposta di
Antonio è duplice: si piace a Dio se si ha sempre Dio davanti agli occhi, ossia
se si vive costantemente alla presenza di Dio (che è la concezione che hanno i Padri
del deserto a proposito della preghiera continua); e questo è possibile se
ci si lascia guidare dalle Scritture.
Antonio non parla qui di lettura o di meditazione delle Scritture,
ma di compiere ogni cosa secondo la testimonianza delle Scritture.
Un giorno Teodoro, il discepolo prediletto di
Pacomio, gli domanda, con l’ardore tipico del neofita, quanti giorni si debba
restare senza mangiare durante la Pasqua, ossia durante la Settimana
Santa. (La regola della Chiesa e l’uso
comune era di fare un digiuno totale durante il venerdì santo e il sabato
santo; ma alcuni stavano tre o quattro
giorni senza mangiar nulla). Pacomio
gli raccomanda di attenersi alla Regola della Chiesa, che prescrive il digiuno
totale solo per i due ultimi giorni, per poter così avere la forza di compiere
senza svenire le cose che ci sono comandate
nelle Scritture: la preghiera incessante, le veglie, le recitazioni della legge di Dio e il lavoro manuale.
Ciò che importa prima di tutto ai Padri del
deserto, non è leggere la Bibbia , ma viverla. Evidentemente, per viverla, bisogna
conoscerla. E come ogni cristiano, il
monaco imparava la Scrittura anzitutto ascoltandola proclamata
nell’assemblea liturgica. Imparava poi
a memoria dei lunghi brani della Scrittura, allo scopo di poterla
ruminare lungo tutta la giornata. Da
ultimo, alcuni avevano accesso a manoscritti della Scrittura e potevano
farne una lettura privata. Questa
lettura privata non era che una forma tra altre, e non necessariamente la più
importante, di lasciarsi costantemente interpellare dalla Parola di Dio.
L’ermeneutica
del
deserto
I racconti
che ho ricordato ci lasciano intravedere le linee di forza di quella che si
potrebbe chiamare l’ermeneutica dei Padri del deserto: un'ermeneutica certamente mai
formulata sotto forma di
principi astratti, ma tuttavia vera ermeneutica. I grandi maestri dell’ermeneutica moderna, che considerano
ogni interpretazione come un dialogo tra il testo e il lettore o l’ascoltatore,
e per i quali ogni interpretazione deve normalmente condurre a una
trasformazione o a una conversione, non hanno inventato nulla. Essi hanno
formulato una realtà che i Padri del deserto hanno vissuto, certo senza
formularla o comunque senza preoccuparsi di formularla.
Nel deserto la Scrittura è costantemente
interpretata. Questa interpretazione
non si esprime sotto forma di commentari e di omelie, ma di azioni e di gesti,
in una vita di santità trasformata dal dialogo costante del monaco con la Scrittura. I testi non cessano di rivelare sempre
ulteriori significati, non solo per coloro che li leggono o li ascoltano, ma
anche per coloro che incontrano questi monaci che hanno incarnato tali testi
nella loro vita. L’uomo di Dio che ha
assimilato la Parola di Dio è divenuto un nuovo ‘testo’, e un nuovo
oggetto di interpretazione. Ed è in
questo contesto che occorre comprendere il fatto
che, nel deserto, alla parola dell’Anziano viene attribuita la stessa forza
della parola della Scrittura.
Ho ricordato più sopra l’apoftegma di Antonio che
risponde ai fratelli: “Avete ascoltato la
Scrittura? Va proprio bene per voi”.
Di fatto i fratelli non furono soddisfatti di questa risposta e gli
dissero: “Padre, noi vogliamo anche una
parola da te”. Allora Antonio disse
loro: “L'Evangelo dice: se
qualcuno ti percuote su una guancia, tu offrigli anche l’altra”. Gli
rispondono: “Non ci riusciamo”. L’Anziano ribatte: “Se non potete offrire l’altra, sopportate almeno che vi percuotano su
una guancia” – “Neppure” – “Se anche questo è impossibile, almeno non
rendete il male ricevuto”. “Neanche
questo” – Allora l’Anziano disse al suo discepolo: “Prepara loro un brodo di farina perché sono malati. Se non potete questo e non potete quello:
che cosa posso fare per voi? Voi avete bisogno di preghiere”.
Figli della
Chiesa d' Egitto e di Alessandria
Questo
modo di concepire la Scrittura come Regola di vita, d'altronde, non
era proprio dei monaci. Non bisogna
dimenticare che i Padri del deserto – che conosciamo attraverso gli
Apoftegmi, la letteratura pacomiana, Palladio e Cassiano ecc. – sono prima di
tutto monaci egiziani della fine del terzo e inizio del quarto secolo. Questi monaci sono figli della Chiesa. Essi appartengono ad una Chiesa ben
concreta, quella dell'Egitto, formata nella tradizione spirituale di
Alessandria.
Il mito secondo cui la maggior parte dei primi
monaci, a cominciare da Antonio, furono degli analfabeti e ignoranti, non regge
più alla critica. Numerosi studi
recenti – particolarmente quelli di Samuel Rubenson sulle Lettere di Antonio –
hanno dimostrato che Antonio e i primi monaci del deserto d'Egitto avevano
assimilato l’insegnamento spirituale della Chiesa di Alessandria, che era
ancora profondamente segnata dall’insegnamento dei grandi maestri della Scuola
di Alessandria, e in particolare dall’afflato mistico che le aveva dato il suo
più illustre maestro: il grande Origene.
La Chiesa di Alessandria era nata dalla prima
generazione cristiana, nell’ambiente di una diaspora giudaica molto colta che,
secondo Plinio, contava circa un milione di membri. Si spiega allora come
questa Chiesa di Alessandria e di Egitto abbia avuto sin dall’origine un netto
orientamento giudaico-cristiano.
Questo, inoltre, spiega pure la sua apertura alla tradizione
scritturistica e mistica, che aveva segnato la chiesa giudaico-cristiana delle
prime generazioni.
La Scuola del Deserto è, sotto molti aspetti, la
replica nella solitudine della Scuola d'Alessandria, dove sappiamo che Origene
ha vissuto con i suoi discepoli un’esistenza monastica ante litteram tutta
incentrata sulla Parola di Dio. Secondo una bella descrizione di
Gerolamo, questa esistenza era un'alternanza continua dalla preghiera alla
lettura e dalla lettura alla preghiera, di notte come di giorno (Lettera a
Marcella 43,1; PL 22:478: Hoc diebus egisse
et noctibus, ut et lectio orationem exciperet, et oratio lectionem).
Tutto questo, però, non era tipico solo
dell’Egitto. Più o meno nello stesso
periodo Cipriano di Cartagine formulava una regola che sarebbe stata poi citata
da quasi tutti i Padri latini: “Prega assiduamente, o leggi; in certi momenti
parla a Dio, in altri momenti ascolta Dio che ti
parla” (Lettera 1,15; PL. 4:221 B: Sit
tibi vel oratio assidua vel lectio: nunc cum Deo loquere, nunc Deus tecum –
che diverrà la formula classica: “quando
preghi, sei tu che parli a Dio; quando leggi, è Dio che ti parla”).
Se i monaci dell'Egitto non furono tutti come
Evagrio, e se pochi di loro avranno potuto leggere Origene nei suoi testi, ciò non
toglie che essi furono formati alla spiritualità cristiana dall’insegnamento di
Pastori che furono fortemente influenzati dall’orientamento che Origene aveva
dato alla Chiesa d'Alessandria, attraverso la Scuola che qui egli aveva diretto
per molti anni.
Questo spiega la solida spiritualità biblica del
monachesimo primitivo. Si potrà subito obiettare che le citazioni bibliche dirette
tutto sommato sono poco numerose negli Apogtefmi, anche se sono più abbondanti
nella letteratura pacomiana. La riposta
è che la Scrittura aveva talmente modellato il modo di vivere di quegli
asceti, che era superfluo citarne dei passaggi. Il monaco pneumatoforo era colui che, vivendo secondo le Scritture,
era ricolmo dello stesso Spirito che aveva ispirato le Scritture. (Si era ben lontani
dall’abitudine moderna che esige che nessuna affermazione, nessun insegnamento
sia preso sul serio se non è corredato di
una nota a pie' di pagina, che indichi tutti quelli che hanno detto la stessa
cosa prima di noi).
La tradizione di ciò che ora definiamo la lectio divina, cioè la cura di lasciarci
interpellare e trasformare dal fuoco della Parola di Dio, non sarebbe
comprensibile senza il suo legame – al
di là del monachesimo primitivo – alla tradizione dell’ascesi cristiana dei
primi tre secoli e al suo radicamento nella tradizione di Israele.
Dalla catechesi ricevuta nella
sua Chiesa locale, il monaco ha imparato che egli è stato creato a immagine di
Dio, che questa immagine è stata deformata dal peccato e che essa deve essere
restaurata. Ne deriva la necessità di
lasciarsi trasformare e ri-configurare a immagine di Cristo. Con l’azione dello Spirito Santo e la vita
secondo l'Evangelo, la sua somiglianza con Dio è gradualmente restaurata ed
egli così può conoscere Dio.
Lo scopo della vita del monaco, così come è espresso
da Cassiano, è la preghiera continua, che egli descrive come una costante
attenzione alla Presenza di Dio, che si realizza attraverso la purezza del
cuore. Vi si arriva non attraverso
questa o quella osservanza, e neanche attraverso la lettura o la meditazione
della Scrittura, ma lasciandosi trasformare dalla Scrittura.
Il contatto con la Parola di Dio – non
importa se questo contatto avviene attraverso la lettura liturgica della Parola,
o l’insegnamento di un padre spirituale, o la lettura privata del testo, o la
semplice ruminatio di un versetto o
di qualche parola imparati a memoria – questo contatto è il punto di partenza
di un dialogo con Dio. Questo dialogo
si stabilisce e prosegue nella misura in cui il monaco ha raggiunto una certa
purezza di cuore, una semplicità di cuore e di intenzione, e anche nella misura
in cui ha adoperato i mezzi per arrivare a questa purezza di cuore e per
conservarla. Questo dialogo – nel corso
del quale la Parola spinge continuamente il monaco alla conversione – mantiene
quella attenzione continua a Dio, che i Padri considerano come una
preghiera continua e che è lo scopo della loro vita. Per i monaci del deserto la lettura della Parola di Dio
non è semplicemente un esercizio religioso di lectio che prepara gradualmente lo Spirito e il cuore alla meditatio e poi all’oratio, nella speranza di poter arrivare alla contemplatio (… se possibile prima che la mezz'ora o l'ora di lectio sia conclusa). Per i monaci del deserto il contatto
con la Parola è contatto con il fuoco che brucia, sconvolge, chiama
violentemente alla conversione. Il
contatto con la Scrittura non è per loro un metodo di preghiera: è un
incontro mistico. E questo incontro
spesso fa loro paura, tanto sono consapevoli delle sue esigenze.
Cerchio
ermeneutico
La Scrittura
acquista costantemente un senso nuovo, ogni volta che la si legge. Anche qui l’ermeneutica moderna raggiunge le
intuizioni dei Padri del deserto.
Essi si ritroverebbero molto bene nell'affermazione di Agostino: “Ieri
tu hai capito un po’; oggi capisci di più; domani capirai ancora di più: la
luce stessa di Dio diventa più forte in te” (In Ioh. tract 14,5 CCL 36,
p144, linee 34-36).
Per i monaci del deserto le parole della Scrittura
(come d'altronde anche quelle degli Anziani) trascendono la dimensione limitata
dell’ “evento” in cui sono state incontrate all'inizio e dove essi ne hanno
percepito il senso. Queste ‘parole’ proiettavano
un ‘insieme di significati’ in cui essi
cercavano di entrare. La chiamata a
vendere tutto, a donarne il ricavato ai poveri, a seguire l'Evangelo (Mt
19,21), l’esortazione a non lasciare mai che il sole tramonti sulla propria
collera (Ef 4,25), il comandamento di amare: tutti questi testi hanno formato
la vita dei Padri del deserto in un modo speciale e hanno creato un ‘insieme di significati’ in cui si sono sforzati di entrare, che
si sono sforzati di far proprio. La santità,
nel deserto, consisteva nel dare una forma concreta a questo ‘insieme’ di
possibilità che scaturivano dai testi sacri, interpretandoli e facendoli propri
nella vita concreta.
Abbà Nestore (nella 14ª Conferenza di Cassiano) ci
dice che “dobbiamo avere lo zelo di imparare a memoria i brani delle Scritture, e di
ripassarli senza tregua nella nostra memoria. Questa meditazione continua –
egli dice – ci procurerà un duplice frutto”.
Innanzitutto ci preserverà dai cattivi pensieri. E poi, questa
recitazione o meditazione continua ci porterà ad una comprensione continuamente
rinnovata. E Nestore dice questa frase
stupenda: “ A misura che, attraverso
questo studio, il nostro spirito si rinnova, le Scritture cominciano a cambiare
di aspetto (scripturarum facies incipiet innovari). Ce ne è donata una comprensione più misteriosa, la cui bellezza
cresce con i nostri progressi”. (Ancora
una volta incontriamo questo legame indissolubile tra la pratica delle Scritture
e la capacità di comprenderle ad un livello più profondo).
(Si potrà ancora una volta confrontare questa
visione con l’approccio moderno, per esempio di Ricoeur, che dice che un testo,
una volta uscito dalle mani del suo autore, acquista un'esistenza autonoma e
assume un nuovo significato ogni volta che viene letto: infatti ogni lettura è
una interpretazione, che a sua volta è la rivelazione di una delle possibilità
pressoché infinite contenute nel testo).
Secondo il metodo moderno di lectio divina, si deve leggere lentamente e ci si deve fermare su
un versetto fintanto che esso nutre il cuore, o lo spirito, o le emozioni, e si
deve passare a quello successivo quando i sentimenti si sono raffreddati e
l’attenzione si è dissipata. Invece i primi monaci rimanevano su un versetto fino a quando non l’avessero messo in
pratica.
Un tale andò a trovare abbà Pambo e gli domandò di
insegnargli un salmo. Pambo si mise ad
insegnargli il salmo 38: ma aveva appena pronunziato il primo versetto: “Ho detto: ‘Custodirò la mia strada, senza permettere che la mia lingua
sgarri’…” il fratello non volle ascoltarne di più. Disse a Pambo: questo versetto mi basta;
piaccia a Dio che io abbia la forza di impararlo e di metterlo in pratica. Diciannove anni più tardi era sempre lì a
sforzarsi... (Arm 19,23 Aa: IV 163).
Allo stesso modo, ad abbà Abramo, che era un
eccellente scriba oltre ad essere un uomo di preghiera, uno chiese di copiargli
il salmo 33. Egli si limitò a copiare
il versetto 15: “Allontànati dal male e
fa' il bene; cerca la pace e persèguila”, dicendo al fratello:
“Intanto metti in pratica questo, e poi te ne scriverò ancora…” (Arm 10,67;
III, 41).
La Scrittura
per i Padri non era qualcosa che si conosce con l’intelligenza, e
neanche con il cuore, come si usa dire ai nostri giorni (confondendo peraltro
di frequente il concetto biblico di cuore con una nozione di ‘cuore’ più
recente e un po’ sentimentale). Secondo
i Padri si conosce la Scrittura assimilandola a tal punto da
tradurla nella propria vita. Ogni altra
conoscenza che non conduce a questo è vana.
Comprensione
della Scrittura
Tutto
questo, però, non vuol significare che non si debba accostare la Scrittura
con l’intelligenza. I monaci si curano di
conoscere il senso letterale della Scrittura, prima di applicarla a
sé. Nei monasteri pacomiani, per
esempio, ogni settimana c’erano tre catechesi durante le quali sia il superiore
del monastero, sia il superiore della casa, interpretava la Scrittura
durante la Sinassi, dopodiche i fratelli si scambiavano
tra di loro quanto avevano percepito, per
accertarsi se tutti avessero ben compreso.
L’interpretazione di un testo difficile richiede uno
sforzo dell'intelligenza; ma questo sforzo sarebbe inutile senza la luce
divina, che occorre domandare nella preghiera.
In questo senso la preghiera deve precedere la lectio al punto che questa può esserne il frutto. A due monaci che interrogavano Antonio sul
senso di un testo difficile del Libro del Levitico, Antonio chiese di aspettare
un po’ di tempo, durante il quale andava a mettersi in preghiera, per chiedere
a Dio di inviargli Mosè che gli insegnasse il senso di quella parola (Arm 12,
1B; III, 148). Prima di lui Origene
faceva lo stesso, chiedendo ai suoi discepoli di pregare con lui per ottenere
la comprensione di un testo sacro particolarmente difficile, allo scopo –
diceva – di trovare l' ‘edificazione spirituale’ contenuta in quel testo
(Origene, Omelie sulla Genesi, SC 7, Paris 1943, Hom 2,3, p. 96). Notiamo
l’espressione ‘contenuta nel testo’. Il
senso spirituale della Scrittura non è qualcosa che le è aggiunto
artificialmente, ma è qualcosa già contenuto nel testo, e che occorre scoprire.
Allo stesso modo, un grande monaco, Isacco di
Ninive, scriveva: “Non avvicinarti alle
parole piene di mistero della Scrittura senza pregare…Chiedi a Dio: Signore,
concedimi di percepire la forza che vi si trova” (cfr J. WENSINGK, Mystic
Treatises by Isaac of Nineve, Amsterdam 1923, par. 329, ch. XLV, p.
220). Quello che si cerca in un testo,
non è un significato astratto, atemporale, ma è una forza capace di trasformare
il lettore.
Le teorie moderne sulla lectio divina insistono di solito sul fatto che la lectio è qualcosa di totalmente diverso
dallo studio. I Padri non avrebbero
certo capito questa distinzione e questa divisione in compartimenti stagni. Il loro approccio alla Scrittura era
unificato. Ogni sforzo per imparare la Scrittura,
comprenderla, metterla in pratica era un unico sforzo di entrare in dialogo con
Dio e di lasciarsi trasformare da lui in questo dialogo che diveniva una
preghiera continua. Né loro, né Origene
– per eccellenza l’uomo della Scrittura –, né soprattutto Girolamo – per
il quale l’ignoranza delle Scritture era ignoranza di Cristo (In Esaiam,
Prol. CCL 73,2, CCL 78,66) –, non avrebbero capito uno studio della Scrittura
che non fosse un incontro personale con il Dio vivo.
Per Girolamo, la preghiera non risiede dapprima nel
cuore, ma nell’intelligenza (da dove poi essa passa nel cuore). Prima di tutto bisogna conoscerlo, Dio, per
poterlo amare. Colui che conosce
davvero, necessariamente ama. Da qui
l’importanza di studiare a fondo e di capire le Scritture con la propria
intelligenza.
A proposito di Marcella, che più di tutti gli altri
discepoli di Girolamo aveva studiato a fondo le Scritture e le leggeva
assiduamente, Girolamo diceva: “Lei
capiva che la
meditazione
non consiste nel
ripetere i testi
della Scrittura… perché sapeva che non avrebbe meritato la
comprensione delle Scritture se non dopo averne tradotto nella vita i
comandamenti.” (Ep. 127,4, CSEL 56,148).
Nella sua 14ª Conferenza, Cassiano, da buon
portavoce della spiritualità del deserto egiziano dove era vissuto per vari
anni, come Evagrio distingue due forme di scienza: la practikè e la theoretikè,
quest’ultima considerata la contemplazione delle cose divine e la conoscenza
dei significati più sacri. Questa theoretikè, o contemplazione delle cose
divine, la chiama anche “vera scienza delle Scritture”, che egli divide
in due parti: l’interpretazione storica e l’intellezione spirituale. L’una e
l’altra appartengono alla contemplazione.
Cassiano
aggiunge: “se vuoi arrivare
alla vera
scienza delle Scritture,
affrèttati prima di tutto ad acquistare una indistruttibile umiltà di
cuore. Sarà essa a guidarti, non alla
scienza che sgonfia, ma a quella che illumina, mediante la consumazione della
carità”. Quindi, ciò che fa sì che
lo studio della Scrittura sia o no una attività contemplativa, non è il
metodo utilizzato per la lettura o per l’interpretazione, ma l’atteggiamento
del cuore.
Pre
- comprensione
L’ermeneutica di Ricouer ci insegna che quando si legge un autore antico
non si entra tanto in rapporto con il pensiero dell'autore, quanto con la
realtà stessa di cui parla l’autore.
Per questo non è possibile una comprensione di un testo senza una
pre-comprensione, che consiste in un certo rapporto già esistente tra il
lettore e la realtà di cui parla il testo.
Ora, si trova già una intuizione simile in Cassiano, alla fine della
10° Conferenza. Isacco, dopo aver spiegato
i mezzi per arrivare alla preghiera pura, aggiunge: il monaco,“vivificato da questo cibo (quello delle
Scritture) di cui non smette di nutrirsi, si compenerta a tal punto di tutti i
sentimenti espressi nei salmi, da recitarli ormai non come fossero stati
composti dal profeta, bensì come se ne fosse lui stesso l’autore, e come una
preghiera personale…”. E aggiunge: “Avviene
infatti che le Scritture divine si manifestano a noi con maggiore chiarezza – e
in un certo qual senso è il loro cuore ed il loro
midollo che ci viene manifestato – quando la nostra esperienza non solo ci
permette di prenderne conoscenza, ma fa in modo che noi preveniamo questa
stessa conoscenza, e che il senso delle parole non ci è rivelato
mediante qualche spiegazione, ma per averlo sperimentato noi stessi" (Conf X,
11). "Ammaestrati da ciò che noi
stessi proviamo, non sono per noi delle cose che propriamente parlando
impariamo per sentito dire, ma noi in qualche modo ne palpiamo la realtà per
averle percepite fino in fondo; esse non ci
fanno l'effetto di cose affidate alla nostra memoria, quanto piuttosto di cose
generate dal profondo del nostro cuore, come sentimenti naturali e che fanno
parte del nostro essere; non è la lettura che ci fa penetrare il senso delle
parole, ma l' esperienza fatta"
(ibid.)
Non esiste comprensione e interpretazione senza una
pre-comprensione. Sotto questo aspetto
è chiaro che la vita che i monaci conducono nel deserto, fatta tutta di
silenzio, solitudine e ascesi, costituiva una pre-comprensione che condizionava
moltissimo la loro comprensione della Scrittura. Silenzio e purezza di cuore erano visti come
delle pre-condizioni per capire e interpretare la Scrittura nel suo
senso più completo.
Non si può capire se non quello che si vive già,
almeno in una certa misura. Ecco perché
Girolamo indica un ordine con il quale imparare
la Scrittura: dapprima il Salterio, poi i Proverbi di Salomone e
il Qohelet, poi il Nuovo Testamento. E, soltanto dopo che l'anima si è preparata attraverso un lungo
rapporto di intimità amorosa con Cristo, essa potrà accostare con frutto il Cantico
dei cantici.
Parole
degli Anziani
Talvolta i Padri del deserto rispondevano
alla domanda che veniva fatta loro, con una parola delle Scritture; ma
essi rispondevano anche con altre parole, alle quali si dava praticamente la
stessa importanza. Si era convinti che
la forza di queste parole veniva dalla grande purezza di vita del santo anziano
che le diceva, perché era stato egli stesso trasformato dalla Scrittura.
La
concezione moderna
di
lectio divina
Alla luce degli insegnamenti dei Padri del deserto che vi
ho appena presentato, vorrei fare ora qualche riflessione sulla concezione che
oggi noi abbiamo di lectio divina,
Ciò che oggi viene chiamato lectio divina è presentato come un metodo di lettura della Scrittura e dei Padri del
monachesimo. Consiste in una
lettura lenta e meditata del testo, una lettura fatta più con il cuore che con
l’intelligenza, si dice, non con uno scopo pratico, ma semplicemente per
lasciarsi impregnare dalla Parola di Dio. Questo metodo, in quanto metodo, ha origine nel 12° secolo, e non
è senza relazione con quella che è stata
chiamata ‘teologia monastica’. A quei
tempi la pre-scolastica aveva sviluppato il proprio metodo, che passava dalla lectio alla quaestio, poi alla disputatio. La reazione dei monaci fu allora di
sviluppare un loro proprio metodo: la lectio
che conduce alla meditatio, poi all’oratio… e un po’ più tardi si aggiungerà
la contemplatio, che verrà distinta
dall’oratio.
Mentre l’approccio alle Scritture, che ho
descritto come proprio dei Padri del deserto, in realtà era un approccio
che essi avevano in comune con l’insieme del popolo di Dio, il nuovo approccio –
o nuovo ‘metodo’, poiché si tratta ora di un esercizio, di un osservanza
importante della vita monastica – si rifugiò nei monasteri.
Molto più tardi, all’epoca della devotio moderna, si generalizzò la ‘lettura
spirituale’, curandosi di distinguerla nettamente dalla lectio divina monastica. Ormai
secondo la corrente generale la vita spirituale si specializza, o si divide in
compartimenti stagni.
Sarebbe fuori dal tema della nostra conferenza
analizzare questa lunga evoluzione.
Tuttavia mi permetto alcune osservazioni. La prima è che ci si può chiedere come si sarebbe sviluppata la
teologia se i monaci non avessero respinto il
metodo nascente. In effetti, quella che è stata chiamata teologia
monastica non ebbe, fino al XII secolo, nulla di specificamente monastico.
Era il modo con cui si faceva la teologia in tutto l'insieme del popolo di Dio,
senz'altro con un gran pluralismo sia nei monasteri sia al di fuori di essi.
Questo modo sapienziale e contemplativo di fare la teologia era riuscito, fino
ad allora, ad assumere e a trasformare (inculturare, si direbbe oggi) i
contributi dei diversi metodi e delle diverse correnti di pensiero. È legittimo chiedersi come si sarebbe sviluppata
la teologia dei secoli successivi se i monaci non avessero respinto il metodo nascente e non avessero saputo
assimilarlo come ne avevano assimilati molti altri in passato. Resta il fatto
che, bene o male, una maniera detta monastica di fare la teologia venne
conservata nei monasteri, mentre la teologia scolastica si sviluppò nelle
scuole al di fuori dei monasteri. In
Tommaso d’Aquino il nuovo metodo è ancora utilizzato in una prospettiva
profondamente contemplativa. Nei commentatori, e nei commentatori dei
commentatori, esso si inaridirà sempre di più.
La stessa cosa avvenne per lo studio della Scrittura. I monaci avevano svolto, fino a quel
momento, un ruolo preponderante nell’interpretazione e nell’uso della Scrittura,
benché il loro approccio non fosse sostanzialmente diverso da quello
dell’insieme del popolo di Dio. Ma dal
momento in cui – subendo, pur senza rendersene conto, l’influsso della nuova
mentalità – essi elaborarono un loro proprio metodo di lettura, parallelo a
quello della scolastica, nella Chiesa esistono due modi nettamente distinti di accostare
la Scrittura: uno che si autodefinisce come una lettura del cuore (e che
in certe epoche dimenticherà spesso di far seguire l’intelligenza) e uno di
orientamento scientifico, che si inaridirà sempre di più.
D’altra parte bisogna riconoscere che, precisando il
loro proprio metodo di lectio, i
monaci erano già dipendenti dalla nuova mentalità, pre-scolastica, che aveva
creato un bisogno di metodo.
I primi
monaci non avevano un metodo: avevano un atteggiamento di lettura.
Spesso, nel corso degli ultimi secoli, i monaci
dimenticarono la loro propria maniera di
leggere la Scrittura e i Padri e di fare la teologia, e
adottarono quella comune. Era quindi
necessario per i monaci, alla nostra epoca, ritornare a un modo di fare la teologia diverso da quello della teologia
dei manuali scolastici, e di ritornare ad un modo di leggere la Scrittura
e i Padri diverso da quello dell’esegesi scientifica moderna. Dobbiamo avere, nei confronti di dom Jean
Leclercq, una grandissima riconoscenza per aver orientato il monachesimo
contemporaneo in questa direzione.
D'altra parte si potrebbe dire, con un po' di humor, che i concetti di teologia
monastica e di lectio divina,
così come vengono intense oggi queste due realtà, sono le due più belle invenzioni di dom Leclercq.
Era importante, come dicevo, che il monachesimo
riscoprisse questo modo di leggere la Scrittura e questo modo di fare la
teologia. Ma occorre andare ancora oltre:
occorre riconoscere che questo modo di leggere la Scrittura e di fare la
teologia non ha nulla di specificamente monastico. È tutto il popolo di Dio che
deve riscoprirlo, perché questo era – una volta – il modo con cui tutto il
popolo di Dio leggeva la Scrittura e faceva la teologia.
Tuttavia bisogna fare ancora un ulteriore
passo. Bisogna superare la
frammentazione della vita del monaco e degli altri cristiani. Bisogna riscoprire l'unità primitiva, perduta
lungo la strada.
In effetti, se è vero che ci si deve rallegrare per
il posto che da circa una quarantina d’anni la lectio divina ha
preso nella vita dei monaci, e anche nella vita di molti cristiani al di fuori
dei monasteri, è altrettanto vero che l’attuale atteggiamento verso questa
realtà non è privo di pericolo.
Il pericolo è che, molto spesso, benché sovente in
un modo impercettibile, si è trasformata la lectio
in un esercizio, un esercizio tra altri, anche se lo si considera il più
importante di tutti. Il monaco fedele fa una mezz’ora o un’ora e anche più di lectio al giorno, e poi passa alla sua
lettura spirituale, ai suoi studi e alle altre sue attività. Adotta un atteggiamento gratuito di ascolto
di Dio durante questa mezz’ora, e poi si dedica alle
altre attività nel resto della giornata con una frenesia, uno spirito di
competizione, una distrazione come se non avesse fatto la scelta di una vita di
preghiera continua e di una ricerca costante della presenza di Dio.
Non solo tutto ciò è completamente estraneo allo
spirito dei monaci del deserto, ma questo atteggiamento è in
contraddizione con la natura stessa della lectio
divina. Ciò che costituisce la sua
essenza, così come è descritta dai suoi migliori teorici, è l’atteggiamento
interiore. Ora, questo atteggiamento non
è qualcosa di cui sia possibile rivestirsi soltanto durante una mezz’ora o
un'ora della giornata. O lo si ha in permanenza o non lo si ha. Esso impregna
tutta la nostra giornata, oppure l’esercizio che chiamiamo ‘lectio’ non è che un gioco vuoto.
Lasciarsi interrogare da Dio, lasciarsi
interpellare, formare, attraverso tutti gli elementi della giornata, attraverso
il lavoro come attraverso gli incontri fraterni, attraverso la rude ascesi di
un lavoro intellettuale serio come attraverso la celebrazione liturgica e le
tensioni normali di una vita comunitaria: tutto questo è terribilmente
esigente. Relegare questo atteggiamento di totale apertura ad un esercizio
privilegiato, a sua volta ritenuto capace di impregnare tutto il resto della
nostra giornata, è forse un modo troppo facile di risolvere questa
esigenza.
Per i Padri del deserto, leggere, meditare,
pregare, analizzare, interpretare, scrutare, tradurre la Scrittura:
tutto questo formava un'unità indissolubile.
Sarebbe risultato impensabile, per esempio, a un san Girolamo
considerare che la sua analisi approfondita del testo ebraico della Scrittura,
per coglierne tutte le sfumature, fosse una attività non degna del nome lectio divina.
È certamente felice la riscoperta dell'importanza di
leggere la Parola di Dio con il proprio cuore, di leggerla per lasciarsi
trasformare. Ma credo che è un errore
farne un esercizio, piuttosto di impregnare di questo atteggiamento i
molteplici aspetti dell'accostamento della Scrittura.
Di più, credo che il testo della Scrittura può
raggiungermi nella mia vita profonda,
interpellarmi e trasformarmi solo quando io mi metto completamente nudo davanti
al testo, senza ricorrere a tutti gli strumenti che possono permettermi di raggiungere il suo significato primario, c'è il grosso
rischio di condurre ad un atteggiamento
fondamentalista – per nulla raro ai giorni nostri – o anche a un falso
misticismo, anch'esso molto frequente.
Poiché è generalmente ammesso,
ai giorni nostri, che la lectio divina
possa avere come oggetto non solamente la Scrittura, ma anche i Padri
della Chiesa e, per i monaci e le monache, particolarmente i Padri del
monachesimo, mi permetto di fare una riflessione anche su questo.
Poiché la tradizione monastica è una interpretazione
vissuta della Parola di Dio, essa ha una importanza simile a questa,
benché secondaria rispetto ad essa.
Abbiamo visto d'altra parte come i Padri del deserto tendessero
ad accordare la stessa potenza sia alla parola o all'esempio di un Anziano
trasformato dallo Spirito, e sia alla Parola di Dio o ad un esempio
biblico. Ma questa parola vissuta che è
la tradizione monastica ha bisogno anch'essa di essere interpretata e
continuamente re-interpretata.
Ai nostri giorni, nelle comunità monastiche si sono
riscoperti i Padri. E bisogna rallegrarsi
per questa riscoperta. Ma il loro
messaggio, ancor più di quello delle Scritture, è avvolto in un contesto
culturale che non è, come troppo spesso si pensa, la cultura monastica – come se non ce ne fosse che una sola
– ma piuttosto il contesto culturale di tale o tal'altra epoca particolare, in
cui gli antichi monaci hanno vissuto la loro vocazione. Il lettore moderno deve esporsi senza alcun
spirito critico alla forza trasformante della grazia che loro hanno vissuto e
che loro veicolano; ma non può farlo che se non dopo aver raschiato, con un
senso critico affinato, l’involucro culturale sotto il quale si nasconde questo
nutrimento prezioso.
Come non esiste una
cultura cristiana, parallela a tutte le culture profane, ma piuttosto delle
culture locali cristianizzate, per altro in gradi diversi; così non esiste una cultura monastica, ma piuttosto
varie culture trasformate dal loro incontro con il carisma monastico. L’utilizzazione dei Padri come
materia di lectio divina richiede un
serio lavoro di esegesi e di studio, per raggiungere la realtà che essi hanno
vissuto al di là dell’involucro culturale.
Altrimenti si legge se stessi nei testi che si ammirano; e,
naturalmente, più vi si ritrova se stessi, più li si ammira.
Il monaco oggi sarà interpellato, chiamato alla
conversione, trasformato dalla lettura dei Padri del monachesimo
unicamente alla condizione che egli si lasci toccare da loro in tutti gli
aspetti della sua esperienza monastica.
E ciò non si produrrà se non nella misura in cui egli li raggiungerà
nell’insieme della loro esperienza: il che
presuppone una analisi approfondita della loro lingua e del loro
linguaggio, del loro pensiero filosofico e teologico, del contesto culturale in
cui sono vissuti. Mi sembra artificiale, e anche pericoloso, distinguere questo
studio dalla lectio propriamente
detta, come se esso non fosse altro che un preliminare…
Il monaco di oggi appartiene necessariamente ad una
determinata cultura, e ad una chiesa locale, quindi ad una determinata cultura
cristiana. È questa cultura che, in
lui, incontra la tradizione monastica e deve lasciarsi interpellare e
trasformare da essa. Temo che troppo
spesso, nel nostro accostamento ai Padri, noi spingiamo i giovani ad assumere
come un vestito la cultura monastica di un epoca passata, con il rischio di
trasformare i nostri monasteri in campi di rifugiati culturali.
Conclusione
I Padri del deserto ci ricordano l’importanza
primordiale della Scrittura nella vita del cristiano e la necessità di
lasciarsi trasformare costantemente nel crogiuolo della Parola di Dio.
Inoltre, uno studio anche rapido, come quello che abbiamo
fatto, sul modo con cui essi accostavano la Scrittura, è tale da spingerci a rivedere certi aspetti della
concezione moderna di lectio divina,
o più esattamente ci chiama a oltrepassarli per raggiungere un più profondo
senso dell'unità di vita. Il monaco, ancor
meno di altri, non può permettersi di essere diviso. Il suo stesso nome, monachos,
gli ricorda incessantemente l’unità di preoccupazione, di aspirazione e di
atteggiamento che compete a colui o colei che ha
scelto di vivere un solo amore con cuore indiviso.
Note
Molte delle citazioni di testi monastici antichi sono tolte
da uno studio di Louis Leloir: "Lectio Divina and the Desert
Fathers", Liturgy, Vol. 23, nº
2, 1969, pp. 3-38.
Una versione ridotta del medesimo
studio è apparsa in francese in: "L’Écriture et les Pères", Revue d’Ascétique et de Mystique 47 (1971), pp. 183-199.
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