Testi per la vita monastica Monachesimo - sezione III scheda bio-bibliografica Abbate Gabriel M. Brasò O.S.B. Cosa deve essere un Oblato È stato Abbate Presidente della Congregazione benedettina Sublacense. È un testo luminoso e completo sulla spiritualità benedettina e sulla sua applicabilità agli amici che vivono nel mondo dalla rivista San Benedetto 22 (1978)
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Abbate Gabriel M. Brasò O.S.B. Cosa deve essere un oblato
Potrei cominciare col dire ciò che non deve essere un oblato benedettino. Gli oblati non devono essere cappellina nella Chiesa, né delle persone devote che giocano a far il monaco dalla propria casa o dalla strada, né dei romantici della liturgia o delle forme medievali, né dei bigotti che si compiacciono di frequentare una comunità monastica per conoscere le intimità e trovarvi la compensazione di una certa familiarità. L' oblato e la Regola di S. Benedetto L'oblato è un cristiano desideroso di vivere con convinzione e profondità il Vangelo e che ha scoperto nella Regola di S. Benedetto un cammino di luce, che gli facilita la sequela di Cristo e lo stimola a servire Dio e i fratelli con un amore più puro e generoso nel proprio stato di vita, che non è precisamente quello della professione monastica. L'oblazione presuppone, dunque, un cristiano convinto e conseguente, che sa molto bene che il miglior modo di essere fedele a Cristo e al Vangelo lo troverà precisamente nel luogo e nella situazione concreta nella quale Dio l'ha posto. Non è necessario evadere dalle realtà della vita per essere un buon cristiano. Al contrario: occorre assumerle pienamente, infondendo loro, però, un nuovo spirito, guardandole con una nuova visione, orientandole a un fine superiore. È la novità che viene dal Vangelo. Questo è facile e, al medesimo tempo, risulta difficile. È facile, perché questa nuova visione nasce spontaneamente dal dono della fede che ci è stato comunicato nel battesimo. Risulta però difficile, perché la fede esige una educazione e un allenamento che stimolino l'esercizio di questa visione e insegnino a muoversi in conformità ad essa. Qui vengono a proposito le diverse scuole di spiritualità com'è - nel nostro caso - quella di S. Benedetto. Come egli stesso ha scritto, con un linguaggio proprio del suo tempo, egli si rivolge a « chiunque sia che, rinunciando alle proprie voglie, prende le validissime e lucenti anni dell'obbedienza, per militare sotto il vero Re, il Cristo Signore » (RB Prol 3). Con un linguaggio più moderno, noi potremmo dire che egli si indirizza a tutti quei cristiani che, lasciando di muoversi per ragioni e reazioni puramente naturali, vogliono farsi guidare dalla luce della fede per mettersi alla sequela di Cristo. Per questo, S. Benedetto si propone di costituire « una scuola del servizio divino », dove possano apprendere a progredire « nella fede e nell'osservanza delle buone opere, seguendo la guida del Vangelo », per poter fare lo stesso « cammino di Colui che ci ha chiamati al suo Regno » (RB Prol 21). La Regola, dove S. Benedetto spiega tutte queste cose, non è dunque un altro Vangelo. È semplicemente un insegnamento, teorico e pratico, che può facilitare una comprensione più profonda del Vangelo di Gesù Cristo e un compimento più fedele e generoso delle sue esigenze. La scuola evangelica di S. Benedetto non è affatto l'unica. Ve ne sono molte nella Chiesa. Quello che è unico è il Vangelo. La diversità di scuole si fa necessaria a causa della diversità di temperamenti e di condizioni degli uomini nel mondo, che sono tutti chiamati a seguire Cristo. Ogni scuola ha i suoi metodi e le sue caratteristiche, che converranno a una classe di persone più che ad altre. L'oblato benedettino ha scoperto che gli insegnamenti di S. Benedetto si adattano bene con la sua maniera dì essere, con la sua formazione, con il suo modo dì formulare l'ideale evangelico. Per questo prende come « maestra di vita » la Regola di S. Benedetto. Nel menzionare più sopra la Regola di S. Benedetto, ho detto che contiene un insegnamento teorico e pratico. Dovremmo fermarci un momento a spiegare questa distinzione tra la teoria - più esattamente la chiamerei dottrina spirituale - e la pratica, cioè l'ordinamento concreto della vita del monaco, che si ispira a quella dottrina e la traduce in opere nel suo vivere quotidiano. Questa distinzione mi sembra molto importante, perché la dottrina spirituale è qualcosa tanto profonda, che sorpassa i limiti stretti di un genere di vita, come è ora quello di un monastero, e può essere norma di condotta evangelica per ogni cristiano generoso, come sarebbe il caso degli oblati. È qualcosa tanto collegato con lo spirito del Vangelo, che non invecchia con il tempo, ma che in ogni momento e in ogni circostanza conserva il suo vigore e la sua attualità. Se leggete con attenzione il magnifico prologo della Regola, vedrete che S. Benedetto, esponendo la sua spiritualità, non s'indirizza esclusivamente ai monaci. Soltanto nell'ultimo paragrafo menziona « la vita monastica » e « il monastero ». Potremmo dire che la dottrina di S. Benedetto è più cristiana che monastica; o se volete, è monastica perché la applica a dei cristiani che, per poterla mettere in pratica fino alle ultime conseguenze, si son fatti monaci. Vi possono però essere cristiani che, senza farsi monaci, vogliono vivere con pienezza le esigenze del Vangelo. Per questo, la dottrina spirituale, che S. Benedetto espone nella Regola, può essere norma di vita cristiana per ognuno, qualunque sia la sua condizione umana e sociale. Invece, l'ordinamento pratico della vita di un monastero non è altro che una conseguenza di quella dottrina. È redatto pensando a degli uomini di un tempo determinato, che avevano la propria cultura e la propria civilizzazione, che si sentivano chiamati a vivere come monaci. Questi uomini, S. Benedetto tenta di organizzarli, in modo che tutti i fatti della loro convivenza nel monastero siano ispirati da quella dottrina e servano loro come di incessante esercizio di allenamento. È chiaro dunque che molti elementi della Regola, che contengono nome di organizzazione del monastero, non possono essere presi alla lettera da un oblato, come pure non lo possono essere completamente per i monaci d'oggi. Tuttavia, uno studio approfondito della Regola dà molta luce per cogliere la parte di spirito che vi è in ciascuna disposizione, finanche nelle più minuziose e che risultano le più lontane dal nostro tempo Chi si lascia penetrare ben bene dalla dottrina spirituale della Regola acquista una specie di sensibilità, che gli fa indovinare quali maniere di fare e di vivere possono sostituire, nel nostro tempo e nella propria condizione di vita, quelle che S. Benedetto ha stabilito per i monaci del suo tempo, al fine di attuare in ogni momento quello spinto. Perciò l'oblato sente la necessità di trovare in un monastero qualche maestro che, come fa l'Abbate rispetto ai monaci, sia capace di comprendere le sue aspirazioni cristiane; qualcuno che, radicato nella medesima terra, respirante la stessa aria, partecipe delle stesse preoccupazioni religiose, politiche e sociali, possa farsi carico della situazione concreta nella quale l'oblato deve muoversi; qualcuno soprattutto che, vivendo intensamente dello Spirito della Regola come monaco, possa comunicargli questa spiritualità e insegnargli come possa tradurla in opere di vita cristiana attraverso le realtà umane che costituiscono il suo vivere di ogni giorno.
Punti più notevoli della spiritualità benedettina
Ogni spiritualità autentica dev'essere centrata in Gesù Cristo, giacché Egli è il centro della Buona Novella che ci proclama il Vangelo. Ogni scuola di spiritualità deve insegnare ai suoi seguaci a muoversi e a reagire davanti ai diversi fatti della vita, in modo che tutto converga in Cristo e trovi in Lui la sua spiegazione e il suo termine. Così S. Benedetto pretende che il suo discepolo diventi un innamorato dì Gesù Cristo. Lo prende per il cuore; non sottopone alla sua considerazione grandi ragionamenti teologici. Solo nel Prologo sembra voler convincerlo con alcuni testi della Sacra Scrittura. In fondo, però, si vede che tutto il suo sforzo consiste nel disporre il discepolo, perché sia attento alla voce del Signore, che lo chiama. Avendolo subito messo in contatto con questa voce emozionante e irresistibile, S. Benedetto si allontana dai ragiona menti e s'indirizza al cuore che si è già lasciato attrarre: « Che cosa più dolce per noi di questa voce del Signore che c'invita, fratelli carissimi? Ecco che nella sua bontà il Signore ci mostra la via della vita » (RB Prol 19-20). Una via che, quantunque stretta e scoscesa, « si corre con cuore dilatato, nell'indicibile soavità dell'amore» (RB Prol 49). È l'atteggiamento dell'innamorato, di quello che « nulla antepone all'amore di Cristo » (RB capitoli 4 e 72), che è capace di compiere le cose più dure e difficili « senza alcuno sforzo, come naturalmente, per amore del Cristo » (Cfr. RB 7, 68-69), mosso da un'obbedienza (cioè da un desiderio di compiacergli in tutto), « la quale è propria di coloro che niente hanno di più caro che Cristo » (RB 5,2). Per questo, come succede agli innamorati, tutto parla loro di Lui: lo sanno scoprire subito; tutto suscita il suo ricordo e la sua immagine: quelli con i quali convivono, quelli con i quali s'incontrano per via, i compagni di lavoro, i bisognosi o i tribolati, gli amici e i nemici, quelli che sono contenti e quelli che piangono; gli avvenimenti della vita, le vicissitudini della storia, la bellezza della natura; tutti gli uomini e tutte le cose sono illuminate da un riflesso del suo volto, portano un'eco del suo messaggio. E l'innamorato ha una sensibilità molto fine per captarlo, per lasciarsi prendere dalla gioia e dall'esigenza della presenza viva di Lui e per comportarsi in una maniera nuova che alle volte può sembrare poco ragionevole, ma che è il comportamento degli innamorati (cfr. RB ai capitoli 2, 36, 53, 63, 72). Di qui nasce quella nota caratteristica della spiritualità benedettina: l'atteggiamento umile e obbediente del discepolo. Quando si ama davvero non si desidera altra cosa che dar gusto alla persona amata. Non è un atteggiamento depressivo o costrittivo; al contrario, è l'espressione più libera e spontanea di un amore tutto proteso a compiacere l'amato. Leggete in questa prospettiva il capitolo quinto della Regola: quella prontezza di azione, quel dimenticare se stessi e ogni interesse personale, quell'atteggiamento deciso che non ammette tentennamenti né ritardi né svogliatezze, donde può scaturire se non da un cuore ardente e appassionato? (cfr. anche RB capitoli 68 e 71). Così pure, l'innamorato cerca spontaneamente di farsi simile a Colui che ama. A questo proposito, S. Benedetto mostra al suo discepolo un'immagine del Cristo, che egli considera la più perfetta e sublime: quella del Figlio che per amore del Padre e dei fratelli non è venuto a fare la propria volontà, ma quella di Colui che lo ha mandato » (cfr. RB 5, 13) e così « si è fatto obbediente fino alla morte » (RB 7, 34). È l'immagine del Cristo innamorato del Padre e dei fratelli. Perché anche il Padre è Amore e « ha tanto amato il mondo, che ha donato il suo Figlio unigenito » (Gv 3,16). S. Benedetto vuole condurre il suo discepolo per questa via che Cristo ha seguito - « imitando il Signore » (RB 7, 34) - in modo che l'innamoramento per Cristo lo porti spontaneamente ad amare il Padre e i fratelli fino al dono totale di se stesso. Come fece Gesù, l'amore al Padre si manifesta nel compimento perfetto della sua volontà, che è volontà d'amore (RB cap. 68); l'amore ai fratelli si esprime nel dono totale della propria persona al loro bene, secondo la volontà del Padre (RB cap. 71). Questo dà origine all'atteggiamento fondamentale che S, Benedetto chiama umiltà, e che è dimenticanza di se stesso, esclusione di ogni forma di egoismo, disponibilità a ogni servizio, accettazione coraggiosa di ogni contraddizione e di ogni ingiuria, sicché niente possa essere di ostacolo o impedimento per seguire il Cristo nella sua via dell'obbedienza fino alla morte per amore al Padre e ai fratelli. E tutto questo senza far la faccia triste, senza perdere l'umore né il senso pasquale della vita cristiana, giacché il discepolo di S. Benedetto affronta qualunque situazione o circostanza della vita « con gaudio dello Spirito Santo » e « aspettando la Pasqua con una gioia piena di spirituale desiderio » (RB 49, 6-7). Evidentemente, questa risposta umile, obbediente e gioiosa del cristiano è più facile spiegarla che darla, in certi momenti più duri dell'esistenza. O meglio, non solamente è difficile, ma finanche impossibile e incomprensibile per chi non ama con gran fervore di carità. E questa carità è puro dono di Dio. S. Benedetto non lo ignora. Per questo, già dall'inizio del prologo avverte il suo discepolo: « Prima di ogni cosa, tutto ciò che di buono imprendi a eseguire, devi con fervorosa e assidua preghiera chiedere che sia compiuto da Lui » (RB Prol 4). Non dubita però che Dio ce la concederà, perché « si è degnato di annoverarci tra i suoi figli » (RB Prol 59). Tuttavia, si tratta sempre di un dono che dobbiamo accogliere e far lavorare in modo che « siamo sempre pronti a servirlo fedelmente con i doni che Egli ha messo in noi (RB Prol 6) ». Vi dev'essere, dunque, un'attività spirituale che, da una parte, ci mantenga in contatto con Dio o così ci permetta di conoscere la sua volontà e ci dia forza o generosità per compierla, e che, d'altra pane, si traduca in opero di amore fraterno. Sarà la doppia esigenza dell'amore, che nel discepolo di S. Benedetto si concreterà in ciò che si chiama « l'opera di Dio » (opus Dei) e « lo zelo buono ». L'opera di Dio è la parte di attività che si dirige direttamente a Dio per mezzo di Gesù Cristo: è tutto quello che mette il cristiano in relazione d'intimità personale con Dio perché possa penetrare nel suo mistero, conoscere meglio la sua volontà, conformarsi ai suoi disegni, accogliere la sua parola; è anche compimento del debito filiale di lode, di ringraziamento, di fiduciosa domanda. Con un'espressione più moderna la diremmo « vita di orazione». S. Benedetto, già lo sappiamo, le dà un'importanza primordiale, sicché « niente si deve anteporre all'opera di Dio » (RB 43, 3). Nell'ordinamento del monastero questo primato si manifesterà nel tempo che le si dedica, nell'assiduità e puntualità con cui occorre parteciparvi, nella cura e minuziosità con cui si determinano i dettagli della sua celebrazione quando l'opera dì Dio prende un carattere comunitario. Nel caso dell'oblato, date le sue condizioni e le sue possibilità, prenderà più rilievo lo studio e la meditazione della Parola di Dio. Vi dedicherà un tempo ogni giorno, con l'atteggiamento del discepolo al quale appartiene ascoltare con docilità e lasciarsi interpellare dalla Parola. Da questa attenzione amorosa nascerà una preghiera sincera e fervente, che l'introdurrà nell'intimità con Dio e che si rifletterà nella sua condotta abituale. A poco a poco, imparerà a penetrare una determinata parola o una opportuna lezione del Maestro, per illuminare ciascuna delle situazioni nelle quali verrà a trovarsi, e per dir loro la conveniente risposta dì vita cristiana. Così si abituerà a vedere i diversi avvenimenti sotto una nuova luce, quella che viene dalla fede e che lo mette in relazione con l'opera salvatrice di Cristo e con la provvidenza di Dio. Abituandosi a vivere così, l'oblato troverà il centro vitale della sua giornata nella partecipazione al sacrificio eucaristico del Signore, dove la Parola si fa Pane di vita e dove tutta la nostra esistenza è assunta da Cristo, che ne fa un'offerta di redenzione universale e di lode al Padre. Non occorre dire come i diversi misteri del Signore, rinnovati lungo l'anno liturgico, saranno per l'oblato mezzi efficacissimi per viverli e riprodurli in se stesso, attraverso le circostanze concrete nelle quali si trova. In ogni caso, ciò che è più importante è la convinzione che la vita d'orazione, il contatto assiduo con la Parola di Dio, la partecipazione alla liturgia costituiscono la fonte primaria che, venendo da Dio, alimenta la nostra vita cristiana e la fa capace di produrre ogni specie di frutti di carità evangelica. Infatti quella sorgente d'acqua viva che sgorga dal cuore di Dio e che zampilla fino alla vita eterna (cfr. Gv 4. 14), quando è accolta nel cuore del cristiano, non può arrestarvisi ferma, soprattutto se vi si versa in maniera copiosa e sovrabbondante. Necessariamente deve circolare, deve seguire il suo corso, deve comunicarsi agli altri. È la spinta vitale dello « zelo buono », l'altro aspetto dell'attività spirituale del discepolo di S. Benedetto. Zelo buono, che è necessario praticare « con un amore ferventissimo », cioè che spinga a « onorarsi gli uni gli altri; a sopportarsi reciprocamente con pazienza le debolezze, tanto fisiche che morali, a obbedirsi con emulazione gli uni gli altri; a non cercare ciò che può sembrare più utile a se stessi, ma piuttosto quello che lo sia per gli altri; a praticare castamente la carità fraterna ». Questo è « lo zelo buono che allontana dai vizi e porta a Dio e alla vita eterna » (RB cap. 72). Per questo S. Benedetto, benché ammiri e rispetti gli eremiti, si rivolge a quelli che vogliono vivere insieme ad altri fratelli, formando una famiglia. È infatti nella convivenza con gli altri che si pratica la vera carità e che l'amore a Dio si fa forte e vigoroso, traducendosi in amore ai fratelli. Oggi diremmo che S. Benedetto ha un profondo senso di Chiesa. Ma di una Chiesa e di una comunione niente affatto idealizzata, bensì secondo che a ciascuno tocca di viverle, di assumerle e di donarvisi. Egli sottolinea molto bene che è entro quest'ambiente fraterno ed ecclesiale « che sogliono nascere le spine delle discordie » (RB 13, 12). È qui dove si trovano le difficoltà, le contraddizioni e le ingiurie che spingono il cristiano a « essere fedele e a sopportare tutto per il Signore » (RB 7, 38). È vivendo tra gli uomini che si può sperimentare come questi pesino sulle nostre teste e ci portino a « compiere mediante la pazienza il precetto del Signore: Se vi percuotono su una guancia, porgete loro anche l'altra; se vi prendono la tunica, cedete loro anche il mantello e tutto; richiesti di un miglio, fatene due, e con l'apostolo S. Paolo si apprende a sopportare i falsi fratelli e la persecuzione e a benedire quelli che ti maledicono » (È sempre il gradino IV dell'umiltà: RB 7, 42-43). Questo non significa che la vera carità consiste semplicemente nel sopportare con pazienza le difficoltà e le ingiurie. Ma ne è la prima disposizione: quella che svelle ogni forma di egoismo e di amor proprio, tanto radicata nel cuore umano, e lo lascia libero, puro e disponibile per aprirsi al bene degli altri, alla piena disponibilità di servizio, che si manifesta lungo tutta la Regola come ambiente normale di convivenza fraterna. Quantunque si indirizzi ai monaci - uomini che sono chiamati a vivere soli con Dio - S. Benedetto non vuole che siano degli uomini isolati. Costantemente e in molte maniere ricorda loro che formano una famiglia e che, quanto più si sentono incorporati a questa famiglia, tanto più vi troveranno l'intimità con Cristo e col Padre. Ciascuno dei fratelli, qualunque sia la stia fisionomia, è per gli altri fratelli come un sacramento del Cristo: che rappresenta e comunica la sua presenza e permette di fare a Lui quel che facciamo a ciascuno dei suoi fratelli (cfr. Mt 25, 40); o meglio, dicendolo in un altro modo, stimola a trattare ogni fratello come si tratterebbe, in quella medesima circostanza, il Cristo che vi si fa presente (della RB vedi i capitoli 2, 36, 53, 63, 72). È chiaro che l'oblato deve vivere e praticare tutto questo entro la sua famiglia naturale, nel suo luogo di lavoro, nelle relazioni ordinarie che la sua vita comporta. Ma, in più, per il fatto di appartenere a un gruppo di oblati che, come lui, cercano di assimilare lo spirito di S. Benedetto in modo da vivere più fedelmente il Vangelo, troverà in questo gruppo una nuova dimensione familiare: quella di una famiglia spirituale strettamente vincolata a una famiglia monastica. Questa famiglia monastica, attraverso la famiglia spirituale degli oblati, gli procurerà normalmente quegli stimoli di comprensione, di buon esempio, di carità e di aiuto fraterno, che gli faciliteranno l'approfondimento e la pratica della spiritualità benedettina. S. Benedetto mette in risalto questo senso di famiglia e di chiesa quando legifera sull'opera di Dio fatta in comune. Allora, tutta la famiglia si presenta davanti al Padre del cielo per ascoltare la sua Parola e lodarlo. Ciascuno vi apporta la sua ricchezza spirituale in modo da formare tutti uniti la ricchezza spirituale della famiglia. Per questa ragione, chi si fa colpevole di assenza, di ritardo o di negligenza toglie qualcosa al tesoro comune della famiglia, che così si presenta più povera e difettosa davanti al Padre. Per questo si deve far penitenza davanti a Dio e ai fratelli. In una certa misura, questo si può dire anche dell'oblato in relazione alla sua famiglia spirituale. Un fatto importante della vita degli uomini, che li mette in intima comunione con gli altri fratelli, è il lavoro. Il lavoro mette in comune le qualità e le energie di ciascuno per poter collaborare con gli altri al bene di tutti. Delle negligenze nel lavoro si può dire la stessa cosa che S. Benedetto ha rimarcato più dettagliatamente per le negligenze nella partecipazione all'opera di Dio. « Vivere del lavoro delle proprie mani, come i nostri Padri e gli apostoli » (RB 48,9) è una condizione del buon discepolo di S. Benedetto. Si tratta di un lavoro fatto con tutto l'interesse, ma con tutta umiltà, che assicuri la vita di ogni giorno, senza lasciar infiltrare il male dell'avarizia (cfr RB cap. 57). Alcuni altri principi delta Regola benedettina, « che tutto sia comune a tutti » (cfr RB cap. 33) e che « soprattutto bisogna che sia estirpato il vizio della proprietà », danno molta luce per comprender l'atteggiamento che il discepolo di S. Benedetto deve avere davanti ai problemi sociali del mondo d'oggi. Sono dei principi molto radicali che occorre combinare con altre norme pratiche della Regola. Come quando, dopo aver citato il testo degli Atti degli Apostoli « si distribuiva a ciascuno secondo il proprio bisogno » (At 4. 35), aggiunge « che si tenga conto delle debolezze, sicché chi ha meno necessità ringrazi Dio e non stia di malumore; chi invece è più bisognoso, si umili per la sua infermità, e non s'insuperbisca per le attenzioni di cui è oggetto (RB 34, 2-4). Io penso che qui bisogna rilevare una missione particolare del discepolo di S. Benedetto nel nostro mondo d'oggi: mi riferisco alla discrezione e all' austerità, che devono caratterizzarla. In un mondo angosciato per il grande squilibrio nella distribuzione della ricchezza, reso schiavo dalla propaganda commerciale e dalla scalata della produzione e del consumo, bramoso di una testimonianza evangelica di povertà, il discepolo di S. Benedetto deve dar prova di come servirsi delle cose di questo mondo: con sobrietà, con libertà di spirito e con riconoscenza. È quello che insegnava S. Paolo, quando scriveva: « coloro che comprano vivano come se non possedessero; coloro che usano del mondo come so non ne fruissero; passa infatti la figura di questo mondo » (1 Cor 7, 30-31); in più, dice S. Paolo, « ringraziando sempre di tutto Colui che è Dio e Padre nel nome del nostro Signore Gesù Cristo » (Ef 5,20). Questo atteggiamento di sobrietà nell'uso delle cose permette di aprirsi alle necessità dei fratelli e di collaborare, ciascuno dal proprio posto, al bene degli altri, come si suggerisce o si stabilisce in tanti luoghi della Regola; d'altra parte, la riconoscenza a Dio insegna a essere riconoscenti verso gli uomini, che sono gli strumenti abituali della sua provvidenza. Mi sembra di aver indicato gli aspetti principali della spiritualità benedettina, che un oblato può praticare a fondo senza farsi estraneo al mondo in cui vive; al contrario, diffondendo attorno a sé quella bontà e quella pace che egli porta nei cuore e che gli vengono da Dio. Ben sicuro che, se fa servire notte e giorno questi strumenti del lavoro spirituale, il Signore lo ricompenserà con quel premio che Egli stesso ha promesso, « che occhio non ha visto, né orecchio ha mai udito, né cuore di uomo ha mai presentito ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano » (la citazione di 1 Cor 2, 9 è in RB 4,77; cfr inoltre Is 64, 3).
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