Testi per la vita monastica                                   Cultura Monastica - sezione II


scheda bio-bibliografica

Abbate Armand Veilleux OCSO 

La formazione monastica

 

Dom Armand Veilleux è stato Assistente del Padre Generale OCSO negli anni ’90.

È attualmente Abbate del monastero trappista di Scourmont, in Belgio.

Armand Veilleux, Abbaye de Scourmont, B - 6464 Forges-Chimay, Belgique


(per la bibliografia  cfr : http://www.scourmont.be)


estratto da: Bulletin de l'A.I.M., Roma 1995, n° 59, pp. 14-30


a cura dei monaci della Abbazia Nostra Signora della Trinità - Morfasso (PC) Italia


Tutti i diritti sono riservati per il testo:  © all'Autore e all'Editore;  per la traduzione: © al traduttore

 

 

 

Abbate  Armand  Veilleux  OCSO

 

la  formazione  monastica

 

 

Monaci sulla scala del Paradiso

 

 

 

Sommario

 

  I     immagine  di  Dio

 

 II    in  un  ambiente  cenobitico

   1 – la  comunità

   2 – la  Regola

   3 – l’ Abbate

 

III –  i  principali  elementi  dell’ ascesi  monastica

   1 – imparare  la  Croce

   2 – l’ Opus  Dei

   3 – Lectio  (e  studi )

   4 – il  lavoro

 

IV –   le  tappe  della  formazione

  1 – la  fase  del  discernimento

  2 – il  postulandato

  3 – il  noviziato  e  il  monasticato

  4 – le  crisi

 

Conclusioni

 

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"Chiamati  ad  essere  trasformati a  immagine  di  Cristo" (2 Cor. 3,18)

 

I.

Immagine  di  Dio

 

Creati ad immagine e somiglianza di Dio, ma feriti dal peccato, abbiamo bisogno che questa immagine sia restaurata in noi. È questo il fine ultimo della vita cristiana e dunque anche della vita monastica. 

Il Figlio di Dio, che era in forma Dei non ha temuto di rinunciare al suo privilegio, si è abbassato (Fil 2, 6-7), facendosi uno di noi, simile a noi in tutto salvo il peccato (Ebr 4, 15). Ha accettato di perdere la sua forma, la sua bellezza. È stato sfigurato, al punto di non essere più riconosciuto (Is 53, 2). Ha sperimentato la morte. Ma il Padre lo ha risuscitato, l'ha fatto sedere alla sua destra, e lo ha costituito Kyrios (Fil 2, 9). Così ci è stato mostrato e tracciato il cammino di ritorno all'Immagine. Essendo stati deformati dal peccato, dobbiamo riformarci al fine di essere gradualmente trasformati a immagine del Cristo risorto.

Questa trasformazione ultima, attraverso un lungo processo di riforma o di conversione, è l'oggetto della formazione monastica. Tale formazione si deve intendere in primissimo luogo non nel senso di una attività esercitata da un formatore umano su di un'altra persona, ma nel senso della trasformazione graduale e costante, mai completata, di una persona che, utilizzando i mezzi offerti dalla conversatio monastica, permette allo Spirito Santo di ristabilire in lei l'immagine sfigurata e la somiglianza perduta. 

Il tema dell'Immagine di Dio è centrale nella spiritualità del monachesimo primitivo. Questa dottrina, che ha evidentemente la sua origine in Gn 1, 26, è molto cara a tutti i Padri della Chiesa, che si sono dedicati a scrutare il mistero della salvezza. Dato che ciascuno di loro l'ha trattata in modo diverso, con la libertà propria dei poeti e dei mistici, è divenuta assai complessa ed è stata presentata con molte sfumature diverse. Si può riassumerla in questo modo: l'uomo è stato creato ad immagine (imago) e somiglianza (similitudo) di Dio. Come creatura privilegiata, è chiamato a partecipare alla vita divina. Queste disposizioni sono state sconvolte dal peccato, ma l'uomo conserva la sua capacità di volgersi verso Dio (capacitas Dei). Con la grazia della Redenzione e l'imitazione di Gesù Cristo, l'uomo è capace di partecipare alla vita divina. Se la sua predisposizione verso Dio (imago) si sviluppa e si manifesta in una vita continua di virtù, egli si incammina verso la somiglianza (similitudo) e trova la propria realizzazione divenendo immagine di Dio. 

Quando si parla di formazione monastica, il più delle volte si intende con questa espressione la formazione iniziale. Tuttavia quest'ultima non può essere compresa se non come un elemento o una fase del processo globale di trasformazione di cui abbiamo appena parlato. Lo scopo della formazione monastica, in tutte le sue fasi, non può essere altro che la restaurazione, nel monaco, dell'immagine di Dio. Si tratta di una trasformazione progressiva che abbraccia tutta la vita. Per realizzare questo itinerario di trasformazione, l'uomo ha un modello, un prototipo: il Verbo, che è l'Immagine perfetta del Padre e che san Bernardo, seguendo san Leone, chiama il sacramentum salutis. 

In verità, nessuno tra i Padri del monachesimo ha scritto sulla "formazione" – almeno non nel senso in cui noi intendiamo questa parola oggi. Vediamo tuttavia dai loro scritti che essi avevano chiaramente coscienza che il loro ruolo, sia come Abbati, sia come padri spirituali, era di generare il Cristo nei loro discepoli. Sapevano che, per realizzare questa missione, dovevano condurre i loro monaci all'imitazione di Cristo. In effetti, è proprio attraverso questa imitazione di Cristo che il monaco rende gradualmente più attiva nella sua vita quella somiglianza ricevuta al momento della creazione, e che l'immagine di Dio in lui è di nuovo restaurata.

L'idea che si possa formare qualcuno alla vita monastica come si forma qualcuno perché diventi medico, meccanico o professore, deriva da una concezione del tutto moderna. Mai una tale idea sarebbe venuta ai Padri del monachesimo. Per loro, la vita monastica non era una realtà alla quale si potesse formare qualcuno, ma al contrario un mezzo, o piuttosto un insieme di mezzi attraverso i quali qualcuno si lasciava formare. Solo vivendo la vita monastica uno diviene sempre più monaco e si lascia gradualmente trasformare ad immagine di Cristo. 

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II.

In  un  ambiente  cenobitico

 

Quando gli anacoreti dei primi secoli andavano nel deserto, cercavano di mettersi sotto la direzione di un padre spirituale che aveva già fatto l'esperienza del deserto e che manifestava l'azione dello Spirito su di lui, essendo divenuto pneumatophoros. Questo padre spirituale carismatico del deserto trasmetteva ai suoi discepoli la propria esperienza, alla maniera di un guru. Tale relazione di padre-figlio o di maestro-discepolo normalmente era provvisoria, terminava quando il discepolo era giunto ad una maturità spirituale sufficiente per continuare il suo cammino nella solitudine. 

Il carisma dei padri del cenobitismo, di un Pacomio o di un Basilio per esempio, è stato di elaborare una forma di vita comunitaria stabile, una politeia, secondo una regola stabilita e attraverso cui l'esperienza spirituale veniva ormai trasmessa. Siamo allora in presenza di una autentica cultura monastica, la quale esprime un'identità collettiva che permette a tutti quelli che vi si inseriscono di arrivare alla loro propria identità personale. 

Per cultura, bisogna intendere qui un complesso coerente di dottrine spirituali, di tradizioni ascetiche, di abitudini, di osservanze, di organizzazione amministrativa etc., che esprimono un'esperienza spirituale, la mantengono viva e la trasmettono. Una cultura implica la coesione e la coerenza di tutti gli elementi della vita. Una tale cultura è sempre, e per eccellenza, il frutto dell'esperienza di una collettività. Un individuo non inventa la sua cultura. Il ruolo dei santi, dei mistici, e dei geni, come dei poeti e degli artisti o dei teologi, è di esprimere l'esperienza trasmessa e mantenuta viva attraverso e nella loro cultura. 

Nell'ambito cenobitico, l'esperienza monastica si trasmette essenzialmente nella e attraverso la forma stessa di vita della comunità e in essa si realizza la formazione del monaco, dal suo ingresso in monastero fino al suo passaggio all'altra sponda. San Benedetto si inserisce in questa grande tradizione cenobitica, ed è qui che i monaci della tradizione benedettina devono cercare i princìpi di base della formazione monastica, non in una spiritualità di orientamento eremitico. 

Quando Benedetto, nel primo capitolo della sua Regola descrive le diverse categorie di monaci, definisce la fortissima stirpe dei cenobiti come quella di coloro che vivono: a) in comunità, b) sotto una regola, c) sotto un Abbate.  Abbiamo qui i tre pilastri del cenobitismo e l'ordine in cui Benedetto li enuncia è di una importanza capitale. La storia ci insegna come, ogni volta che viene rotto l'equilibrio fra questi tre elementi, si assiste a un periodo di decadenza. 

Comunità, regola, Abbate. Si può dire che sono questi i tre elementi essenziali della conversatio benedettina e che dunque proprio vivendoli in ogni tappa della sua esistenza monastica, il monaco diventa gradualmente più monaco, e si realizza la sua formazione - o trasformazione - nel senso descritto più sopra. 

 

1. la  Comunità 

Nella grande tradizione benedettina e cistercense, la vocazione di una persona non è una chiamata a vivere la vita monastica in generale o anche la vocazione a una determinata congregazione. È la chiamata a una comunità concreta di fratelli, che costituisce una cellula ecclesiale. Proprio qui, dopo una probazione adeguata, egli prometterà la sua stabilità; ed è con questi fratelli, a meno che l'obbedienza non gli affidi un'altra missione, che vivrà fino alla fine dei suoi giorni il mistero della salvezza nella Chiesa. 

La modalità secondo cui ogni comunità concreta vive questa comunione, questa koinonìa, ha un'influenza molto profonda sullo sviluppo umano e spirituale del monaco lungo tutta la sua esistenza. La comunità come tale, al di là di tutti i “mezzi di formazione” che può offrire ai suoi membri, ha un ruolo formativo di prima importanza. Una comunità può adempiere bene questo ruolo, solo a condizione che abbia sviluppato una solida cultura monastica locale. Una tale cultura monastica implica una chiara visione comune della vita monastica e un orientamento spirituale che condizioni, che “informi” (in senso aristotelico) tutti gli elementi della vita quotidiana, il modo di pregare, di lavorare, di prendere delle decisioni comunitarie, di ricevere gli ospiti, etc. 

Se una tale visione comune, una tale cultura esiste, il ruolo dei “formatori” (Abbate, padre maestro, professori) consisterà essenzialmente nell'aiutare i monaci, soprattutto i nuovi venuti, a inserirvisi, a lasciarsi formare da essa, e ad assumerla in modo responsabile e creativo. Se non esiste, tutte le “tecniche” di formazione utilizzate (corsi, sessioni, counselling, etc.) non avranno in genere che scarsi risultati. 

La comunità monastica non è semplicemente un luogo in cui praticare la propria ascesi personale. È un luogo in cui cercare insieme la volontà di Dio. Benedetto chiede di convocare tutti i fratelli ogni volta che si tratta di un affare importante: convocet abbas omnem congregationem (RB 2, 2). Non si tratta di un semplice esercizio del potere della maggioranza, o di democrazia ante-litteram. Si tratta di mettersi insieme in ascolto di ciò che lo Spirito Santo dice a ciascuno per il bene di tutti. Anche se l'Abbate ha la responsabilità finale di prendere la decisione, il capitolo conventuale è l'occasione per ognuno di esercitare un atto di corresponsabilità comunitaria e quindi di crescere nel senso della sua responsabilità. 

Una comunità sana è anche un luogo di crescita emotiva e affettiva. Le relazioni personali che possono svilupparsi all'interno della vita comunitaria sono al tempo stesso una scuola che rende capaci di una relazione profonda con Dio e un'espressione sacramentale del mistero della Chiesa. Si tratta di qualcosa di più profondo di un vago senso comunitario. È il caso tuttavia di fare attenzione alla trappola di una unanimità di tipo “fusionale”, che finisce per privare gli individui della loro identità personale. 

La vita fraterna permette di conoscere se stessi negli incontri della vita quotidiana e di scoprire il proprio bisogno di conversione. Ci si riconosce facilmente come una comunità di peccatori che sono stati tutti perdonati. Essa dà anche la possibilità di lasciarsi trasformare, praticando la carità fraterna. 

Una sana vita di comunità è il luogo in cui possiamo imparare a leggere e a interpretare la realtà non soltanto in noi ma anche attorno a noi, a penetrare fino al centro di essa. Una vita contemplativa autentica non consiste nel ritirarsi dalla realtà per vivere in un mondo artificiale o puramente spirituale. Consiste nel ritirarsi al centro, al cuore di tutta la realtà. Una sana vita di comunità ci aiuta a valutare con serenità le varie informazioni che riceviamo, i vari avvenimenti che viviamo. Ci aiuta a superare le nostre proiezioni soggettive e i nostri desideri coscienti o inconsci. 

La rigidità delle posizioni, delle analisi personali della realtà, costituisce in molti casi un ostacolo che impedisce la crescita spirituale e umana. Un monaco che continua a crescere normalmente nella vita comune deve essere una persona sempre più capace di adattarsi, di modificare le sue opinioni, i suoi atteggiamenti. Egli sa come assumere gli inevitabili conflitti dell'esistenza umana, e vivere nella pace del cuore le tensioni inerenti a ogni vita comune. Una sana vita di comunità permette di acquisire gradualmente questo atteggiamento di comprensione, di compassione, di simpatia verso tutti; un monaco che si trasforma in “cacciatore di eresie” ha qualcosa di anormale. 

In comunità, il monaco impara a unificare la propria vita. Nel mondo una persona può facilmente vivere una serie di vite parallele, concomitanti. Vi sono, per esempio, uomini d'affari, professionisti o politici, per i quali esiste una totale separazione tra la loro vita professionale e quella familiare, o tra la loro vita professionale e la loro pratica religiosa. Per il monaco, questo dovrebbe essere impossibile. Un monaco, in effetti, può avere delle responsabilità nella sua comunità e anche all'esterno del monastero, ma tutte queste attività fanno parte della sua vita monastica; vi si deve applicare come monaco. Altrimenti, gli mancherebbe l'elemento centrale dell' « essere » del monaco: la semplicità, cioè il fatto di avere un solo scopo, una sola preoccupazione nella vita. 

 

2. la  Regola 

Cristo si è fatto obbediente, di un'obbedienza tale per cui la sua volontà si è totalmente identificata con quella del Padre. Proprio attraverso la stessa via dell'obbedienza, a imitazione di Cristo, il monaco permetterà allo Spirito di restaurare gradualmente in sé l'immagine di Dio. Si tratta evidentemente dell'obbedienza alla volontà divina, ma questa obbedienza si incarna in tutte le azioni della vita quotidiana. 

L’Evangelo è una sorgente inesauribile di “forme di vita”. Ha dato origine a numerosi modi di seguire Cristo. I fondatori del cenobitismo hanno ricevuto il carisma di una interpretazione esistenziale dell’Evangelo. Quando questo carisma è stato vissuto da un gruppo in modo coerente, si è tradotto in regola. Quando dunque si entra in una comunità cenobitica, ci si inserisce in una tradizione, in un’interpretazione vissuta dell’Evangelo. Si sceglie liberamente questa “via” tra molte altre possibili. Per Benedetto è così importante che tale scelta sia fatta liberamente e lucidamente, che fa leggere la Regola tre volte per intero al candidato durante l'anno che precede il suo impegno nella comunità. È infatti quella Regola che, se vissuta onestamente e autenticamente, formerà e trasformerà il monaco. La vita comune, e la Regola da cui è strutturata, sono mezzi per realizzare l'amore di Dio nell'amore dei fratelli, preferendo alla volontà propria il bene comune, e al bene proprio la volontà divina, espressa nella Regola e applicata dal superiore alle situazioni concrete. Allo stesso modo, l'obbedienza vicendevole di cui parla Benedetto è vissuta come un servizio, e dunque come un esercizio di unione delle volontà, che conduce alla purezza del cuore e alla visione di Dio. 

La Regola, per il monaco contemporaneo, non è soltanto il testo di san Benedetto, ma anche le Costituzioni proprie della Congregazione monastica alla quale appartiene e i regolamenti scritti od orali della sua comunità locale. Tutto questo insieme “legislativo” non è una semplice “legge”. È l'espressione oggettiva dell'identità propria di una comunità o di un gruppo di comunità. Come si acquisisce un'identità culturale propria lasciandosi formare dalla propria cultura o integrandosi in un'altra cultura, allo stesso modo, lasciandosi formare gradualmente da una cultura monastica, integrandosi in una comunità, assumendo la visione particolare di questa comunità, si arriva a sviluppare una identità monastica personale. I1 segno di una vera vocazione è la capacità di un candidato di assumere così l'identità collettiva della sua comunità divenendo allo stesso tempo sempre più se stesso. 

 

3. l' Abbate 

Nella tradizione benedettina l'Abbate, in quanto rappresentante di Cristo nella sua comunità, ne è il padre spirituale, il maestro e il medico. I1 suo ruolo è evidentemente molto diverso da quello dei superiori di comunità religiose di tradizione più recente. Se conviene che egli rimanga un fratello tra fratelli, non deve neppure dimenticare che è stato chiamato ad essere padre; non che gli altri debbano stare davanti a lui come dei bambini o degli adolescenti, ma perché egli ha la responsabilità di generare Cristo in loro. 

Come padre, l'Abbate deve, dal canto suo, manifestare ai suoi monaci la dolcezza e la bontà di Cristo, cercando di essere amato più che temuto, adattandosi al carattere di ciascuno ed esortando i fratelli a percorrere con cuore pronto e gioioso il cammino a cui sono stati chiamati da Dio. Quanto al monaco, deve saper mantenere durante tutta la sua esistenza una relazione filiale adulta nei riguardi del suo Abbate, qualunque sia la loro rispettiva età. Se un monaco, dopo la professione, non vede più nell'Abbate se non la persona a cui obbedire solo nelle cose veramente importanti, è probabile che non crescerà più come monaco (anche se può avere grandi attitudini umane e utilizzarle per il bene della Chiesa e della comunità). 

Non è raro, al giorno d'oggi, che il novizio cerchi di ricostituire in monastero la famiglia che ha appena lasciato o che, in molti casi, non ha avuto, tenendo a identificare la figura del padre con l'autorità e la figura della madre con la comunità. Un tale atteggiamento impedisce una vera crescita, perché consiste nel riprodurre semplicemente il modello familiare. 

Se il rapporto tra il monaco e l'Abbate non è vissuto in una maniera adulta e libera, si creerà un atteggiamento di passività, di insicurezza, di paura.  La vita monastica implica una separazione dai legami della famiglia. Non bisogna ristabilire in monastero altri legami dello stesso tipo. Una comunità dev'essere un luogo dove vivono delle persone con un forte desiderio di camminare insieme verso la vita eterna; non un seno materno protettivo. La società di oggi purtroppo non ci prepara a questa sana relazione con l'autorità, e la legge. O si rifiuta ogni autorità, con una seria mancanza di ogni forma di rispetto, oppure si cerca la sicurezza in un'autorità forte che decide tutto. 

L'Abbate, come maestro nella scuola di Cristo, è il custode della fedeltà dei discepoli nei confronti della tradizione monastica. Affinché la regola e la tradizione non siano lettera morta, deve interpretarle continuamente, in modo dinamico. Egli nutre i suoi monaci con la parola e con l'esempio, distribuisce il pane della Parola di Dio, interpretata per la comunità ad ogni nuovo momento della sua evoluzione. 

Come medico, deve curare le piaghe e guarire nel nome di Cristo i fratelli feriti dal peccato. Deve essere anche un padre a cui ci si possa rivolgere nei momenti di crisi personale. 

L'Abbate è il padre, il maestro e il medico di tutti i membri della sua comunità. Anche se c'è un maestro dei novizi e un maestro dei giovani professi, l'Abbate non può rinunciare al suo ruolo di padre nei riguardi dei novizi e dei giovani professi. Nelle comunità attive moderne, dove c'è un noviziato unico per una provincia o anche per tutta la congregazione, il novizio non ha altri superiori immediati se non il suo padre maestro; dopo la sua professione sarà assegnato a una casa della congregazione. Nella vita benedettina, dove non si entra in una congregazione ma in un monastero ben preciso, l'Abbate è il padre di tutti, compresi i novizi. Egli non può rinunciare alla sua responsabilità anche se ne delega una buona parte al padre maestro. 

È dunque essenziale che esista, tra il padre maestro e l'Abbate, una grande comunione di vedute. Gli sforzi di un padre maestro per formare una nuova comunità, differente dal resto della comunità, o con un orientamento monastico diverso da quello dell'Abbate, sarebbero votati al fallimento quasi certo. L'Abbate è il responsabile ultimo della formazione dei novizi come di tutti gli altri membri della comunità. Il padre maestro, suo delegato, ha semplicemente l'incarico di accompagnare più da vicino i novizi nel loro cammino monastico e di trasmettere loro gli insegnamenti necessari agli inizi della vita monastica. 

La maturità di un monaco (novizio o professo) dipenderà in gran parte dalla sua capacità di stabilire un rapporto sano con la comunità, la regola e l'Abbate.

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III. 

I  principali  elementi   dell' ascesi  monastica

 

Tra i numerosi elementi che costituiscono la conversatio monastica vissuta in comunità, sotto una regola e un Abbate, ve ne sono tre a cui san Benedetto annette un'importanza particolare e che hanno uno speciale valore formativo: l'Opus Dei, la lectio divina e il lavoro. Ma ancora più fondamentale è il posto della Croce nella vita del monaco. 

 

1. imparare  la  croce 

Il monaco entra in monastero per mettersi al seguito del Cristo e per ritornare, attraverso la via dell'obbedienza, al Padre, da cui si era allontanato con la disobbedienza (Prologo della Regola). Ora, proprio attraverso la sofferenza il Figlio di Dio ha imparato l'obbedienza (Ebr 5, 8). Non c'è altra via per il cristiano che vuol mettersi al seguito di Cristo. Del resto, Cristo è molto esplicito nell’Evangelo riguardo alle esigenze di una tale sequela: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. 

È questo il primo atteggiamento che bisogna verificare in chi viene in monastero. Il candidato è disposto ad accettare la Croce? Bisognerà in seguito, durante i primi anni di vita monastica, guidarlo e aiutarlo ad accettare questo duro cammino. Benedetto vuole che si preavvisi molto chiaramente il nuovo venuto, fin dall'inizio, delle cose dure e difficili attraverso cui si va a Dio (RB 58, 8). 

Non è raro che si faccia nelle nostre comunità la triste esperienza di veder partire, poco tempo dopo la professione solenne, un monaco che sembrava tuttavia eccellente. In quasi tutti i casi ciò che è mancato è stata questa formazione alla Croce. Il monaco era felice nella vita monastica finché trovava un ambiente gradevole in cui espandersi, ove i suoi talenti erano apprezzati, ove sviluppava le sue capacità, etc. Ma non appena è arrivata una prova seria, quando è arrivata la Croce, tutto è crollato. 

Questo deve essere messo in relazione con il tema dell'inculturazione. La vera inculturazione non consiste nell'integrare nel cristianesimo o nella vita monastica tutte le attitudini proprie di una cultura, consiste nel cristianizzare ogni cultura.         Il mistero della croce salvifica è propriamente cristiano; interpella tutte le culture.   Noi tutti dobbiamo impararlo e re-impararlo ogni giorno. 

Senza l'accettazione della Croce, nessuno degli elementi dell'ascesi monastica ha senso. Ma se il monaco l'accetta gioiosamente, essa lo formerà lungo tutta la vita. 

 

2. l' Opus Dei 

La preghiera propriamente monastica è la preghiera continua. Essa è preparata dalla lettura, dallo studio e dalla meditazione della Parola di Dio; si esprime comunitariamente nell'Opus Dei, e si espande in una attenzione a Dio il più continua possibile. L'Opus Dei, oltre ad essere una espressione comunitaria della preghiera, è anche una scuola di preghiera. In essa il monaco apprende senza sosta, lungo tutto il corso della sua esistenza, a lodare Dio, a piangere i suoi peccati, a intercedere presso Dio per se stesso e per tutta l'umanità, a contemplare tutti gli aspetti del mistero della salvezza.  Tuttavia l' Opus Dei non si comprende al di fuori dell'universo sacramentale nel suo insieme, ove il monaco è conformato a immagine di Cristo nella celebrazione eucaristica, guarito dalle sue ferite nella penitenza, fortificato da diverse benedizioni per compiere le sue responsabilità, e infine è preparato ad attraversare positivamente le crisi della vita e soprattutto la crisi dell'ultimo passaggio col sacramento degli infermi. 

 

3. Lectio ( e  studi ) 

È interessante notare che nella letteratura cristiana primitiva, almeno fino all'epoca di san Benedetto, l'espressione “Lectio divina” designa sempre la stessa Sacra Scrittura e non un'attività umana fatta con la Scrittura. Se si volesse tradurre questa espressione, si dovrebbe tradurre con “lezione divina” e non con “lettura divina”. La Sacra Scrittura non solo istruisce il monaco, ma lo trasforma attraverso un contatto quotidiano. La sua intera vita deve radicarsi in questa lectio divina, questa “lezione divina”, che egli legge, scruta, studia, interpreta e medita incessantemente, senza fare alcuna separazione netta tra queste diverse attività. Se il monaco si lascia gradualmente impregnare dalla Scrittura, questa lo forma, ne fa gradualmente un vero contemplativo; cioè, non una persona che ha necessariamente delle esperienze chiamate “mistiche”, ma una persona che vede Dio in tutto e guarda tutto alla luce di Dio. Bisognerà sapersi staccare dalle teorie contemporanee che hanno fatto della lectio divina una forma speciale di “lettura” e, per il fatto stesso, l'hanno trasformata in un'osservanza tra tante altre, anche se viene considerata la più importante. Se si fa della “lectio divina” una speciale attività che si deve compiere in un momento preciso della giornata e durante un tempo determinato, la si fa diventare una semplice osservanza, che perde per ciò stesso la caratteristica della gratuità. Si rischia anche di svuotare il resto della giornata e le altre attività del monaco di quella dimensione di amorosa attenzione a Dio, che si vuole invece concentrare in questa osservanza privilegiata. 

Il monaco si deve abituare, fin dagli inizi della vita monastica, a tenersi il più costantemente possibile in ascolto di Dio. Deve senza sosta lasciarsi penetrare, interpellare, trasformare dalla Parola di Dio, che gli arriva attraverso la sua lettura lenta e sapida della Scrittura, attraverso lo studio scientifico di essa, attraverso la lettura o lo studio dei Padri, attraverso il suo lavoro e i suoi incontri fraterni. Se il monaco sviluppa questa attitudine, ogni distinzione troppo assoluta tra lectio divina e studio della Scrittura o dei Padri o altra lettura, apparirà artificiale. Questa distinzione può anche essere dannosa, se conduce a un inaridimento dello studio. 

Lo studio infatti ha il suo posto nella vita del monaco. Perché un monaco viva bene la propria vita monastica, bisogna che impari una certa quantità di cose. Poiché la Scrittura è la regola fondamentale della vita monastica, come si è detto, ed è la sorgente principale della liturgia, il monaco dovrà ricevere fin dall'inizio della sua vita monastica una buona iniziazione alla Bibbia. Dovrà iniziarsi a una lettura contemplativa della Scrittura, ma avrà anche bisogno di una iniziazione ai principali Libri Sacri, ai diversi livelli di interpretazione, ecc. Dovrà anche essere iniziato alla tradizione monastica, alla sua storia e alla sua spiritualità. Dovrà avere una buona formazione dottrinale cristiana e una iniziazione alla patristica. Questa formazione è necessaria per tutti, anche se può rivestire forme molto differenti. In certi monasteri in cui c'è un gruppo di novizi che hanno tutti una buona formazione di base, questa formazione si potrà fare con un ciclo di corsi ben organizzati. In altri casi, il sistema del “tutoring” sarà ritenuto più opportuno. Alcune persone trarranno profitto da un approccio più semplice. Non tutti hanno gli stessi bisogni né le stesse capacità intellettuali. Bisognerebbe tuttavia sapere discernere le motivazioni dei candidati, che oggi, abbastanza di frequente, vogliono una vita molto semplice, “senza studi”. La sete delle “apparizioni” e delle cose straordinarie, che si trova in certe comunità, deriva spesso da una insufficiente conoscenza del messaggio cristiano essenziale. 

Una comunità deve sapersi dare un programma di studi che faccia parte del suo programma generale di formazione. Una parte di questo programma viene svolto durante il noviziato e il monasticato. Il rimanente è studiato lungo tutto il corso della vita. Se al giorno d'oggi vi è un certo anti-intellettualismo in più di un monastero, è forse in parte per reazione, perché molti “formatori” hanno la tendenza a far consistere tutta la formazione monastica in una serie di corsi. Da qualche decennio, negli Ordini monastici, si studiano molto i Padri del monachesimo. Noi li insegnammo ai novizi e ai giovani professi. Non sono sicuro che questo abbia avuto sempre i risultati che ci si aspettava. Perché? Forse perché si mettono troppo presto i giovani monaci a contatto con questa letteratura, prima che abbiano acquisito l'identità monastica, la quale permetterebbe loro di assimilarla personalmente e di lasciarsi formare da essa, piuttosto che di studiarla. 

Il padre maestro ideale è quello che, avendo perfettamente assimilato la tradizione monastica, può trasmettere fedelmente il contenuto senza mai dover citare nessuno dei padri del monachesimo. Facciamo un esempio. I Padri di Citeaux nel XII secolo, che conoscevano bene i Padri greci e latini e si erano lasciati formare da loro, non sembra che li abbiano mai “insegnati”. Si può anche dire che non abbiano mai insegnato la Scrittura, anche se la conoscevano a memoria, la citavano costantemente, e talvolta usavano l'artificio letterario che consisteva nel commentare un Libro della Scrittura come mezzo per trasmettere il loro insegnamento spirituale. Ciò che essi hanno trasmesso era ciò che vivevano. 

I Padri, come la Scrittura, rivelano il loro segreto unicamente se sono letti in seno a una cultura monastica che incarna i medesimi valori. Di qui, ancora una volta, l'importanza di sviluppare una cultura monastica che inglobi tutti gli elementi della vita. E uno di questi elementi è il lavoro. 

 

4. il  lavoro 

Per san Benedetto il lavoro è un elemento essenziale della vita monastica. “Saranno veri monaci se vivranno del lavoro delle loro mani” (RB 48, 8). Il lavoro, sia esso manuale, intellettuale o, in certi casi, pastorale, è il luogo in cui si manifesta la capacità creatrice o la capacità di collaborare con altri e con Dio. Un monaco deve dunque imparare a compiere lavori seri a servizio della sua comunità o, a nome della comunità, a servizio della Chiesa e della società. 

Il lavoro non svolgerà questo ruolo formativo se ha un carattere di dilettantismo o se diventa, come può facilmente diventare, un luogo in cui si manifesta la sete di potere e l'espressione della volontà propria. In una comunità monastica il lavoro ha un tale impatto sull'atmosfera generale della comunità e ne influenza l'equilibrio al punto che l'Abbate non può lasciare al cellerario la cura di organizzare da solo la vita materiale della comunità. È sua responsabilità vigilare affinché il lavoro sia organizzato in modo tale da concorrere alla crescita monastica dei monaci, giovani o anziani. 

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IV.

Le  tappe  della  formazione

 

Anche se la formazione è un processo che dura tutta la vita, come si è detto con insistenza nelle pagine precedenti, rimane da dire che questo processo comprende delle fasi molto diverse l'una dall'altra, ognuna con le proprie sfide, le proprie grazie e i propri problemi. Non è il caso di analizzare in particolare ciascuna di tali fasi in questo breve articolo, ma vorremmo almeno enumerarle e sottolineare gli aspetti più significativi di ognuna. Vi sono le tappe iniziali, in cui il postulante o il novizio hanno maggior bisogno di direzione e di aiuto, o quando il giovane professo ha molte cose da imparare. Vi è il periodo centrale della vita, durante il quale si cresce attraverso le responsabilità che si devono assumere nella comunità. Vi sono anche, ad ogni tappa, le crisi, e infine l'ultima crisi, quella della vecchiaia e della morte. Ma in primissimo luogo vi è la fase del discernimento della vocazione, prima dell'entrata in monastero. 

 

1. la  fase  del  discernimento  

Non si entra in monastero per provare, per vedere se ci piace o se si sarà in grado di rispondere alle sue esigenze. Si entra per vivere la vita monastica. Certo, sulla base di un'esperienza secolare, la legislazione ecclesiastica ha introdotto diverse fasi successive nell'impegno monastico prima di giungere a un impegno definitivo. Ciò non toglie che se il candidato viene solo per “vedere” e non con una ferma decisione di darsi totalmente alla vita monastica sin dall'inizio, ha ben poche probabilità di rimanere. 

Ecco perché il discernimento che precede l'entrata in monastero è di un'importanza capitale. Accettare candidati senza aver fatto questo discernimento non è un servizio da rendere né a loro, né alla Chiesa, né alla comunità. Un serio discernimento è, al contrario, un lavoro ecclesiale. 

Quando qualcuno si presenta al monastero, bisogna anzitutto discernere i motivi per cui è venuto. E siccome, in molti casi, i candidati non sono completamente consci delle loro reali motivazioni, occorre spesso aiutarli a discernere queste motivazioni con un accompagnamento abbastanza lungo. Non è raro che qualcuno venga con una sorta di vocazione “generica” alla vita religiosa o anche alla vita cristiana. Oppure ha avuto una conversione improvvisa e vuole donarsi totalmente a Dio; o ha ricevuto una grazia profonda di preghiera e vuole consacrarsi a una vita di preghiera; oppure si tratta di un sacerdote o di un religioso di vita attiva, profondamente impegnato in un ministero che gli lascia poco tempo libero e che aspira alla preghiera contemplativa. In tutti questi casi, bisogna aiutarli a discernere se Dio li chiama davvero alla vita monastica, o se li chiama piuttosto ad approfondire, nello stato in cui si trovano già, i valori cristiani di cui sentono così fortemente il bisogno. 

Un altro aspetto del discernimento consiste nel vedere se il candidato possiede quanto occorre per vivere in maniera costante ciò a cui desidera impegnarsi: salute fisica e psichica sufficiente, disciplina di vita o capacità di acquisirla, costanza, ecc. Quanto a tutti coloro che sono stati feriti in una maniera particolare dalla vita: infanzia infelice, esperienze sessuali premature e negative, fallimento di un matrimonio, ecc., hanno bisogno di una attenzione speciale. Se non hanno ancora assunto in modo positivo queste prove, un buon discernimento potrà consistere nell'aiutarli a guarire sufficientemente le loro ferite prima di entrare in monastero. Anche se la comunità monastica può legittimamente essere considerata come una comunità terapeutica – nel senso che siamo tutti dei feriti dalla vita, non foss'altro che dai nostri stessi peccati, e che la comunità è un luogo normale di crescita umana, sia psicologica che spirituale – tuttavia un equilibrio e una salute sufficienti sono necessari per poterne trarre vantaggio. Una persona le cui ferite richiedono l'aiuto di uno psicologo di professione dovrebbe ricevere questa terapia prima di entrare in noviziato. Una simile terapia richiede tutta l'energia psichica di una persona, proprio come la formazione del noviziato. Le due cose non possono essere svolte nello stesso tempo. 

Una comunità solida, con una lunga tradizione monastica, può permettersi più facilmente di ricevere candidati la cui vocazione monastica sia ancora incerta. Il discernimento finale si attua allora facilmente attraverso la vita concreta. Ma questo non è possibile in una comunità recente e piccola. In tal caso, l'identità della comunità non è ancora stabilita con tale solidità che un candidato possa scoprire rapidamente, confrontandosi con essa, se egli è al suo posto oppure no. E, d'altra parte, la presenza di uno o più candidati che non hanno una vera vocazione monastica obbligherà il padre maestro a consacrare un tempo prezioso nell'occuparsi con loro di problemi che non hanno di fatto niente a che vedere con la vita monastica, mentre le vere vocazioni saranno intanto trascurate. 

Tra le false motivazioni per cui si può entrare in monastero, vi è anzitutto la ricerca di sicurezza materiale. Dopo tutto, si è quasi sicuri, in monastero, di avere tre pasti al giorno e un tetto sulla testa, come pure l'assistenza medica necessaria in caso di malattia. Questa motivazione probabilmente non influisce più nei paesi del primo e secondo Mondo, ma può continuare ad influire nelle giovani Chiese. La stessa cosa si può dire della ricerca di una promozione sociale. 

In un'epoca di grande insicurezza, a tutti i livelli, come la nostra, non è raro che si venga in monastero spinti da una ricerca di sicurezza psicologica e spirituale. Nulla di male in questo, pur che non sia la motivazione principale. Soprattutto, bisogna sollecitamente aiutare questi giovani a trovare la loro sicurezza in una relazione di fiducia in Dio e non nel sostegno artificiale di strutture rigide e di osservanze desuete. Non bisogna trasformare i nostri monasteri in campi di rifugiati culturali. 

Una grande parte della letteratura detta “spirituale” fa una confusione dannosa tra “lasciare il mondo” nel senso giovanneo e voltare le spalle alla cultura di oggi. Se qualcuno si presenta al monastero perché pensa che il mondo è malato e cattivo, e vuole lasciarlo per salvarsi nel chiostro, conviene rimandarlo nel mondo e aiutarlo ad amare questo mondo malato come Dio l'ha amato. Solo allora potrà fuggire nel deserto, come i Padri del deserto, non per paura della lotta, ma precisamente per lottare contro le forze del male, che sono attive non solo nel mondo in generale, ma anche e innanzitutto nel proprio cuore. 

Alcuni entrano in monastero dopo aver fatto esperienze particolari carismatiche o altro – in una comunità cristiana con una spiritualità particolare e un senso molto forte della fraternità. Questo può essere un'eccellente preparazione alla vita comunitaria; ma non è raro che crei dei problemi, se si identifica la “vita comunitaria” con quella forma particolare. Queste persone trovano allora che non c'è “vita comunitaria” nella comunità in cui sono entrati, perché non ritrovano la stessa intensità di fusione collettiva che avevano sperimentato precedentemente. Vi è una intensità di rapporti fraterni che si può vivere nelle riunioni di fine settimana, ma che non ci si può permettere in modo costante senza farne indigestione. 

Lo stesso principio può essere applicato a diverse forme di preghiera che qualcuno può aver conosciuto prima della sua entrata in monastero. C'è talvolta il pericolo di identificare la “preghiera”, con l'una o l'altra di queste forme. Un segno di vocazione sarà la capacità di entrare in uno stile di preghiera tipicamente monastico, cioè l' ”Opus Dei” da una parte e la preghiera personale nutrita dalla lectio divina dall'altra. 

 

2. il  postulandato 

Anche se non è più esplicitamente previsto dal Diritto Canonico (il Can. 597 par.2 parla tuttavia di preparazione adeguata prima dell'entrata in noviziato), la maggior parte delle comunità hanno un postulandato, la cui durata può variare molto, secondo i casi. È un peccato, tuttavia, che questo postulandato sia spesso utilizzato per insegnare gli elementi della dottrina cristiana (che avrebbero dovuto essere insegnati prima dell'entrata) o per cominciare l'insegnamento del noviziato. Ciò toglie al postulandato il suo carattere proprio di momento importante di transizione. 

L'entrata in monastero è infatti un momento importante nella vita di una persona. Si tratta del passaggio da uno stile di vita ad un altro. Questo passaggio comincia con una separazione fisica e affettiva dalle attività e dalle relazioni personali da cui, fino a quel momento, dipendeva l'identità personale del candidato. Se egli ha avuto la grazia di una vita di famiglia felice e di numerosi amici, questa separazione è ancor più sentita. 

È normale che il postulante, dato che lascia una forma di vita senza essere ancora pienamente integrato nell'altra, faccia l'esperienza di una certa alienazione, cioè di non-appartenenza, e che risenta un vuoto profondo e talvolta una specie di frustrazione. È un periodo di morte e risurrezione, durante il quale egli è messo a confronto col significato di tutto ciò che ha vissuto precedentemente, di tutto ciò per cui è diventato la persona che è attualmente, di tutto ciò che ha lasciato e che continua ad amare (famiglia, amici). 

Il padre maestro deve essere attento a tutto ciò che i postulanti vivono in questo momento. Ma sarebbe un grave errore privarli di questo momento di “lutto”. Vivere bene questo “lutto”, e viverlo coscientemente, è di una importanza capitale per tutto il resto della vita monastica. Sarebbe un grave errore riempire questi primi giorni – e anche tutto il postulandato – di numerose attività, riunioni, conferenze, per “occupare” i postulanti. Sarebbe privarli della possibilità di compiere coscientemente questo passaggio nel deserto. 

Il postulandato non dovrebbe dunque essere un tempo in cui si danno corsi e conferenze, salvo ciò che è strettamente richiesto per l'integrazione nel cammino della comunità. È un tempo dato per abituarsi gradualmente a vivere la vita monastica.   Il postulante deve fare la scoperta del nuovo “luogo” in cui vive, della comunità, della Regola e dell'Abbate. 

 

3. il  noviziato e  il  monasticato 

Benché il discernimento della vocazione prosegua durante il noviziato, quest'ultimo non è anzitutto un tempo di discernimento, poiché non si devono accettare in noviziato se non coloro nei quali si crede di avere già riconosciuto una vocazione monastica. È un tempo di crescita e di maturazione, sotto la direzione di un maestro: crescita nella conoscenza e nell'accettazione di se stessi, crescita nei rapporti comunitari, crescita soprattutto nella relazione personale con Dio. 

Per questo si dovrà aiutare il novizio ad approfondire la sua vita di preghiera e a nutrirsi della Parola di Dio.  Lo si metterà gradualmente in contatto con la grande tradizione monastica e con l'insegnamento dei grandi maestri dello spirito, per aiutarlo a definire la propria identità spirituale. 

Il monasticato, concepito troppo spesso unicamente come un tempo di studi, dato che questi occupano necessariamente la maggior parte del tempo, è anzitutto il periodo in cui il giovane monaco si radica nella propria comunità cominciando ad assumersi delle responsabilità, e in cui si prepara all'impegno definitivo. 

Non ci attarderemo su questi due periodi importanti della formazione iniziale, il noviziato e il monasticato, poiché sono l'oggetto di moltissimi studi specializzati. 

 

4. le  crisi 

All'inizio della vita monastica, il novizio sperimenta normalmente un senso di benessere personale. Non è raro sentire una persona che durante il noviziato dice di non essersi mai sentita così bene in vita sua. Ma non è neppure raro che, già durante il noviziato o qualche anno dopo, nasca una sofferenza derivante dalla consapevolezza di problemi personali che si credevano risolti da molto tempo e che invece si manifestano con una nuova intensità. Se, durante i primi anni si è stati costantemente immersi negli studi o in altre attività che ci piacevano, questa "crisi" può venire molto più tardi. Non è raro che si manifesti poco tempo dopo la professione solenne o, nel caso di monaci sacerdoti, poco tempo dopo l'ordinazione. Questi problemi personali possono essere di natura diversa. Può trattarsi di una sessualità insufficientemente integrata o disorientata. Possono essere ferite psicologiche provenienti da un contesto familiare caratterizzato dall'alcolismo. Può trattarsi di un carattere difficile o di cambiamenti imprevedibili e bruschi di umore, ecc. Il silenzio e la solitudine del deserto monastico, la mancanza di supporti umani e la grande difficoltà di conservare indefinitamente le proprie maschere in una vita comunitaria, permettono a questi problemi di manifestarsi. 

Evidentemente, non si tratta qui di problemi propri della vita monastica. Nel mondo, non si sarebbero probabilmente manifestati tutti in una volta, e avrebbero forse trovato la loro soluzione in una carriera ben riuscita, in un aiuto psicologico o nella terapia di un buon matrimonio. È il momento di verificare se la casa è costruita sulla roccia o sulla sabbia (Mt 7, 25). 

Se la vita comune favorisce l'esplodere di una simile crisi, un contesto di vita comunitaria sana offre anche il mezzo per viverla positivamente, con la grazia di Dio, il discernimento di un padre spirituale e il supporto dei fratelli. Ogni passaggio a una nuova tappa di crescita implica una sorta di disintegrazione positiva della personalità, che deve ricostituirsi su nuove basi. Molte situazioni considerate oggi come depressioni nervose (e trattate come tali) sono probabilmente crisi di questo genere, chiamate “notti oscure” nel linguaggio dei mistici: esse offrono la possibilità di un salto di qualità nella crescita umana e spirituale. È qui l'elemento più essenziale della formazione permanente, che troppo spesso viene identificato con riciclaggi periodici. 

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Conclusioni

 

Secondo la Regola di san Benedetto, il nuovo venuto in monastero viene formato vivendo la vita della comunità. Per questo è affidato a un monaco maturo, pieno di discernimento e di zelo per le anime, il cui ruolo è essenzialmente di discernere se egli è assiduo agli elementi della vita monastica che devono formarlo, anzitutto la preghiera della comunità, l'obbedienza e le umiliazioni. 

Questo è il cammino di formazione che la vita monastica ci offre per arrivare alla libertà di cuore, la quale ci permette di correre col cuore dilatato dall'ardore della carità sulla via dei divini comandamenti e arrivare, con la grazia di Dio, alla piena trasformazione a immagine di Cristo nel giorno dell'incontro.

 

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