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per la vita monasticaSan Benedetto - sezione II
scheda Monache benedettine di Santa Maria di Rosano San Benedetto Ispirandosi ai testi della madre Ildegarda Cabitza osb le monache benedettine del monastero di S. Maria di Rosano (Fiesole) tracciano per l'agezia Fides questo bel profilo di San Benedetto, in occasione della visita del Papa Benedetto XVI a Monteccassino,il 24 maggio 2009. a cura dei monaci della Abbazia Nostra Signora della Trinità - Morfasso (PC) Italia Tutti i diritti sono riservati per il testo: © all'Autore e all'Editore |
sommario
introduzione premessa giovinezza eremo Subiaco Montecassino conclusione
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Monache Benedettine di Santa Maria di Rosano
SAN BENEDETTO
“ Chiedo a san Benedetto di aiutarci a tenere ferma (Benedetto XVI, udienza generale del 27 aprile 2005) Introduzione Il 24 maggio Papa Benedetto XVI si reca a Montecassino. Questa visita non è certo solo un segno di ammirazione e devozione da parte del Papa per il grande Santo di cui porta il nome, ma anche un riconoscimento del posto che S. Benedetto ha nella storia della Chiesa e della civiltà. Lo scopo di questo Dossier dell’Agenzia Fides è di sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda, approfondendo, sia pure con un breve excursus, la figura e l’opera del Patriarca dei monaci di occidente e quello che ancora può dire ai giorni nostri. Anche oggi si può ripetere ciò che alla fine del 1980 il Padre Abate Sebastiano Bovo OSB riassumeva così: « Alla chiusura del XV centenario del nostro santo Padre, abbiamo tutti la mente e il cuore pieni del ricordo di san Benedetto. Si ha però l’impressione che, fra tante cose buone, rette e giuste, forse il filo conduttore di questo centenario sia stato un po’ falsato, o almeno un po’ spostato su aspetti del nostro Padre e della sua opera, che non erano fondamentali. L’opera sua è stata visualizzata in questa direzione: S. Benedetto, Padre dell'Europa; quindi: “ora et labora”, “croce, libro e aratro”... Giustissimo! Chi può contestare che S. Benedetto sia stato l’iniziatore di una nuova cultura da cui è nata l’anima europea? Ma S. Benedetto non è sostanzialmente lì ». Di fatto, S. Benedetto intendeva essere lui stesso, e quindi fare del suo monaco, semplicemente un cristiano perfetto, che tendesse a portare fino alle estreme conseguenze il Vangelo di Cristo, gli insegnamenti di quell’Uomo-Dio al cui amore nulla deve essere anteposto. Quindi, come scrive S. Gregorio «se alcuno vuol conoscere i costumi e la vita del santo con più accuratezza, può scoprire nell’insegnamento della regola tutti i documenti del suo magistero, perché l’uomo di Dio non ha affatto insegnato diversamente da come è vissuto». Sempre l’Abate Bovo continua: « Perenne rinnovata disponibilità allo Spirito: questa la cosa fondamentale della Regola… Ci troviamo di fronte a una spiritualità che ha riscoperto la gloria di Dio, per cui conosce e ama l’uomo perché lo vede nella gloria di Dio. Poter vedere l’uomo con la stessa bontà con cui lo vede Dio! Se questo è l’iter di san Benedetto vuol dire che questo deve essere anche il nostro iter, come è tracciato nella Regola ». Ma vediamo le tappe essenziali della vita di Benedetto, ispirandoci agli scritti di Madre M. Ildegarde Cabitza OSB, che fu una pietra miliare nella storia recente dell’Abbazia di Rosano (Fiesole).
Premessa Benedetto è visto da S. Gregorio, che ne narra la vita nel suo Secondo Libro dei Dialoghi, come il « vir Dei, l’uomo di Dio » che fin dalla prima giovinezza non esita a fare una scelta coraggiosa e radicale tra le offerte di una agiata e promettente vita terrena e le supreme esigenze di Dio. Ma Benedetto è soprattutto il Padre. È l’«Abba» che genera a Dio dei figli, che li forma, che li accompagna con il suo esempio e con la sua parola, ma ancor più con la sua donazione e la sua fede. È il legislatore che traccia le norme di un cammino audace e che le fissa per sempre nelle parole di quella Regola che egli trae dal tesoro del suo cuore per i figli che gli vivevano accanto e ancor più per quelli che Dio gli avrebbe donato nei secoli avvenire. E tutto questo in vista di un fine soprannaturale che deve essere e rimane sempre la molla ardita di ogni esistenza e di ogni Comunità: Benedetto vuole formare delle anime che credano fino in fondo al Vangelo, che ne realizzino le parole di salvezza con assoluta coerenza di sentimenti e di vita. Cerca creature che vogliano e sappiano approfondire il mistero della vita spirituale, di quel miracolo della grazia che fa di poveri e miseri essere umani dei figli di Dio, chiamati a una eternità di gloria. È da questa sequela di Cristo che il monaco diventa l’uomo della semplicità, la creatura della preghiera e del lavoro, colui che può forse fare tante cose ma che in realtà non ne compie che una sola, perché nel suo intimo si è creata l’unità e tutto in lui si trasforma in preghiera ininterrotta, in un inno incessante di adorazione, di offerta, di impetrazione. Che egli sia in Coro a cantare le lodi del suo Creatore, che egli sia curvo sul lavoro faticoso che la sua essenziale povertà gli chiede, che egli offra se stesso nell’obbedienza amata e desiderata a colui che sulla terra « tiene le veci di Cristo », che si doni con casto amore ai fratelli che camminano con lui verso il cielo, il monaco non si divide, non si fraziona, non si scinde. Egli è l’uomo dell’unità perché è «l’uomo di Dio», è colui in cui Cristo è divenuto il tutto, in cui l’amore è diventato respiro, in cui Dio si è fatto l’unico centro e l’unica realtà vitale, per il tempo e per l’eternità.
Giovinezza S. Gregorio, dopo averci comunicato in modo telegrafico che Benedetto era «nato da nobile famiglia nella regione di Norcia» ce lo presenta subito giovane studente a Roma, in un ambiente che forse, in tanti aspetti, era simile a quello delle moderne scuole. Niente ci lascia supporre che egli abbia anche per poco ceduto all’incanto di quella festa perpetua che narcotizzava l’agonia morale di un popolo che aveva conosciuto la vera grandezza; siamo piuttosto indotti a pensare che il contrasto si manifestasse stridente, tra la sua anima raccolta e meditativa e quel violento esteriorizzarsi di sentimenti che si esauriva in un tumulto irrequieto e senza fine. A Roma le scuole, sugli inizi del secolo VI, non erano più quelle dell’età aurea dell’Impero, non perché ne fosse ridotto il numero o sminuita la dignità, ché anzi Teodorico si adoperava in ogni modo alla diffusione della cultura, ma perché erano venute meno alla loro funzione essenziale di plasmare degli uomini ai grandi e forti ideali di vita civica e morale. Il loro compito sembrava esaurirsi nella trasmissione meccanica dell’eredità letteraria ricevuta dai secoli precedenti e questo amore geloso dei classici voleva forse stabilire un compenso al vuoto desolante del presente. Inoltre in una città come Roma, dove San Girolamo trova anche tra il clero degli elementi tutt’altro che edificanti e di una mondanità che oggi stentiamo a concepire, e dove Ammiano Marcellino ci attesta che, in tempo di carestia, dovendosi allontanare da Roma quanti non fossero strettamente necessari, furono però lasciati indisturbati gli istrioni e non meno di seimila tra ballerine e cantanti, si può ben capire come la condotta morale degli studenti non dovesse offrire garanzie di serietà e di morigeratezza. L’immoralità dilagava del resto senza alcun ritegno, e penetrava nella scuola stessa, se dobbiamo credere alla testimonianza di Sant’Agostino il quale afferma che «i ragazzi sono costretti dagli anziani a leggere e a imparare, pur tra gli studi che si dicono nobili e liberali» le turpi produzioni di un teatro che non conosceva più alcun ritegno di moralità. Tale situazione doveva accentuare la fisionomia scapigliata e gaudente della popolazione studentesca, che se ovunque godeva fama di indisciplinatezza, nella Roma di allora si abbandonava sfrenata a ogni licenza. Tutto questo non equivale a dire che non si studiasse: sarebbe esagerato e ingiusto l’affermarlo, e ne dà una smentita il grado stesso di maturità intellettuale raggiunto da Benedetto, che pure abbandonò incompleti i suoi corsi di studio, ma non si può negare che la compagine scolastica fosse un qualche cosa di affatto inefficace a produrre profonde impressioni o ad eccitare un ideale superiore. Questo l’ambiente col quale venne a trovarsi a contatto, nel periodo della sua formazione culturale, lo studente umbro maturato nel silenzio della sua terra, perfettamente cosciente del vero valore dell’esistenza: una maturità precoce, un abito meditativo che faceva contrasto con la sua giovinezza, lo spingevano come per istinto a scoprire l’essenza stessa di quella vita che si fasciava d’orpello per nascondere la sua miseria. Non gli dovette essere ignota la tristezza profonda che ogni anima grande prova dinanzi alla prodigalità incosciente con la quale si fa getto, con la più sfrenata spensieratezza, degli anni più belli, più ricchi di energie: la sensualità divenuta norma e fine dell’esistenza, anziché sedurlo, creava in lui ripugnanza e disgusto, accentuando il senso di fierezza e di rettitudine morale che era la sacra eredità della sua gente. Al di là di ogni apparenza egli sentiva il bisogno di incontrarsi faccia a faccia, senza veli, con la realtà vera degli uomini e delle cose, e la realtà di quella Roma dove tutto appariva splendido, gli si scopriva ogni giorno più come una miseria senza nome, soprattutto a confronto del problema urgente di una vita ordinata a un fine supremo che trascende il tempo e la contingenza delle vicissitudini umane, e che anche nei suoi riguardi puramente terreni, ha un valore incommensurabile. Con la vigoria di una convinzione robusta che, come frutto di serena riflessione, scaturisce dal confronto dei valori, si rafforza in Benedetto il senso cristiano, divenuto ormai esperienza vissuta della vanità di tutto ciò che passa e logora l’esistenza, senza avvicinarsi individualmente e socialmente a Dio. Alla sua anima profondamente seria si imponeva con una specie di necessità la decisione della scelta tra l’accettazione di quel compromesso di vita cristiana nel quale cozzavano gli interessi più disparati, o l’eroica fedeltà a una attuazione integrale della vita evangelica, vissuta senza mezzi termini, fino alle conclusioni estreme. Non sappiamo quanto sia durato questo periodo di travaglio intimo, certo prevalsero i diritti dello spirito: Benedetto non era fatto per le accomodanti transazioni. In una società nella quale norma suprema del vivere appariva il godimento e l’ambizione, egli sarebbe stato il « Vir Dei » (l’uomo di Dio), nel senso assoluto ed esclusivo della parola.
L’eremo Lo studente riflessivo e puro che si è allontanato da Roma per rispondere a una vocazione della quale non abbraccia per ora tutta l’estensione, ma che è deciso di seguire sino in fondo, è ancora su un piano ordinario di vita. Prese dimora ad Affile, piccolo paese a circa ottanta chilometri dalla capitale, ma anche da qui, per motivi diversi, decise di allontanarsi. In quel momento la sua vitalità soprannaturale ha raggiunto un grado così intenso, la sua anima è entrata in una così profonda intimità con Dio da darci già la sensazione di trovarci di fronte a un Santo autentico. Lasciato Affile, Benedetto si spinse fino ad una grotta, quasi irraggiungibile, nei pressi di Subiaco e lì, per tre anni interi, vide i giorni succedersi ai giorni, nel solleone estivo o nei gelidi inverni che assideravano la terra, senza che mai nessun contatto umano venisse a rompere la sua solitudine. Eppure non furono tre anni di abbrutimento o di deplorevole inerzia morale: li dobbiamo anzi pensare come gli anni più intimamente fecondi di tutta la sua vita, quelli nei quali fermentava nell’anima, travagliata dalla grazia, il lievito di un rinnovamento interiore che avrebbe un giorno investito il mondo. Lui non sapeva. Che importa, del resto, all’uomo, scoprire in antecedenza i disegni di Dio? Ciò che vale e lasciarsi forgiare dallo Spirito, in generosità di fede, con la duttilità dell’amore che vince ogni resistenza della natura. Benché non abbiamo che scarsissime notizie, per non dire quasi nulla, su questo periodo della sua vita, pure non è difficile pensare come l’eremita ventenne, nascosto « nel cavo della roccia » abbia vissuto quei tre anni; segregandosi nello speco egli sapeva bene quale vasto programma si proponesse di attuare. Bisognava risarcire le ferite aperte nell’anima dal peccato originale: sensualità, amore eccessivo dei beni terreni, orgoglio; stabilire un robusto dominio sulle passioni, mediante l’atto volontario illuminato e diretto dall’intelletto; addestrarsi nella lotta contro lo spirito del male per giungere a smascherarne le insidie e a vincerle; divincolarsi dal mondo rifacendosi, attraverso il contatto diretto con la Verità, una coscienza cristiana schietta, senza imposture e senza incoerenze. E tutto questo già complesso lavoro interiore non era ancora se non l’aspetto negativo, condizione preliminare che doveva permettere al monaco di elevarsi fino a quello stato di «ininterrotta orazione» che nel nostro linguaggio moderno chiameremmo lo « stato d’unione » con le sue intraducibili esperienze di Dio presente e operante in noi.
Subiaco Come si sa, trascorsi tre anni, nel giorno di Pasqua un angelo rivela ad un prete dei dintorni il luogo dove Benedetto dimora. Da quel momento finisce la sua solitudine. I monaci di un Monastero vicino, nonostante le sue resistenze, lo eleggono loro Abate ma, in seguito, non volendo convertirsi dai loro pessimi costumi, tentano di avvelenarlo. Salvato da un miracolo, Benedetto ritorna allo Speco, ma la sua vita ormai sarà diversa. In questi tre anni la sua anima ha acquistato un vigore nuovo ed egli ha soprattutto raggiunto la consapevolezza piena della sua miseria e della potenza della grazia: la lunga abitudine di fissare l’occhio in Dio, di dipendere da Lui, l’assimilazione profonda dei libri Santi, della dottrina ascetica dei Padri del deserto, hanno elevato la sua vita interiore fino a quel grado nel quale è possibile effondersi senza depauperarsi. La grotta rimane rifugio di gioia dello spirito che si abbandona all’intimità cuore a cuore col suo Signore: il contatto con le anime sarà espansione di carità spontanea quasi necessaria, come la luce che illumina senza per questo esaurirsi, ma la sua vita vera, la più profonda, la più intima, è quella della sua totalitaria donazione a Dio, per la quale ogni forma di servizio compiuto in spirito di adorazione segna un arricchimento di vita spirituale. Il monachesimo orientale era stato un movimento di proporzioni gigantesche, e a decine di migliaia i monaci avevano popolato i deserti dell’Egitto, addestrandosi nella solitudine ad un’ascesi di rigore inaudito; il mondo ne fu colpito di ammirazione entusiastica, e Roma stessa se ne lasciò affascinare, offrendo all’ideale monastico delle reclute che, per splendore di santità e di rinuncia potevano gareggiare con gli asceti dell’Oriente. A Benedetto però non poteva sfuggire il fatto che l’eroismo non è mai per le masse, difatti la rapida diffusione della vita monastica anche nell’Occidente dove penetrò tutti gli ambienti sociali, non tornò certo a vantaggio della sua vigoria interiore; l’adattamento necessario dei principi che la reggevano, lasciato alla prudenza dei singoli, non fu sempre molto felice, e ai primi fervori ben presto era venuta a succedere una inevitabile e quasi generale condizione di rilassamento. Il problema fondamentale si riduceva quindi a inserire in maniera vitale e feconda i canoni tradizionali dell’ascesi monastica nel temperamento, nella mentalità, nelle abitudini di vita, negli stessi postulati naturali del mondo occidentale. Fra tutti quei discepoli di buona volontà che venivano a lui desiderosi di una robusta disciplina di vita interiore, forse nessuno avrebbe potuto affrontare l’asprezza dell’eremo, soprattutto sotto l’aspetto di un reale ed efficace mezzo di sviluppo dello spirito in una ascensione sostenuta dalla grazia divina, certo, ma pure con l’indispensabile concorso della volontà senza una conveniente preparazione, che li allenasse alla lotta nella solitudine, la più ardua, la più dura fra tutte. Sembrava da preferirsi, quindi, una forma di vita associata, una « scuola » per le anime desiderose – ed erano già molte – di dare a Dio un servizio perfetto, in spirito e verità. Questo ideale esigeva però tutta una organizzazione materiale ed economica non indifferente, in proporzione allo sviluppo che il monastero avrebbe avuto. Da tale necessità non si poteva prescindere a garantire il normale sviluppo del monastero stesso. La colonia monastica organizzata da Benedetto a Subiaco, nucleo operoso di intensa attività spirituale, non tardò a manifestare un singolare potere di attrazione. Anche i più lontani, i distratti, i superficiali forse senza ancora approfondirne il senso vero, erano indotti a riflettere sul fenomeno che era lì, aperto allo sguardo di tutti, e che assumeva proporzioni sempre più vaste. Non si poteva sfuggire alla certezza che esisteva una forza soprannaturale, capace di strappare violentemente al mondo e di trasformare quegli uomini che, fino a ieri, erano stati come tutti, che con gli altri avevano diviso la stessa meschina vita ingombra di interessi terreni, e che ora, venissero dal patriziato o dalla più umile plebe, accomunati nell’ideale e resi fratelli dalla carità, erano impegnati nella rude battaglia per la liberazione totale della creatura nuova, nata dalla grazia, dalle pastoie del vecchio uomo di peccato, impigliato nelle sue passioni. Per i frequentatori dei monasteri sublacensi il Vangelo non suonava più come qualche cosa di astratto, irrimediabilmente lontano dalla vita, ma appariva attuato in tutta la sua santità dai monaci di Benedetto che, come lui, «avevano creduto all’Amore» e si erano impegnati a riprodurre in sé, nella maniera più perfetta, l’immagine del Cristo povero, umile, obbediente, fatto uomo per offrirsi a noi Via per la Vita. Molti, sotto l’influsso di quella parola, allo spettacolo di un lavoro che non era più incentivo a maledire chi ne imponesse il peso opprimente ma mezzo di redenzione, di elevazione, compiuto in spirito di penitenza e di adorazione, avevano l’intuizione che solo sottoponendosi a quella disciplina la vita avrebbe acquistato il suo senso pieno, e chiedevano, sempre più numerosi, di abbracciarla integralmente, mentre altri tentavano di trasfonderne lo spirito nelle loro quotidiane occupazioni.
Montecassino Ma non era Subiaco, con i suoi dodici piccoli Monasteri, la missione ultima di Benedetto. Un contrasto, legato alla gelosia di un prete delle vicinanze, fu l’occasione per lui di comprendere la nuova chiamata di Dio ed egli, senza esitare, certo della sua via, si dette con impegno all’attuazione di questo suo definitivo progetto di fondazione monastica. Compiute le formalità legali alla Corte di Ravenna per entrare in possesso della rocca di Montecassino, e presi a Roma, dove non era ormai uno sconosciuto, gli opportuni accordi con le autorità ecclesiastiche, non dovette durare fatica a ottenere pieni poteri spirituali e temporali per la nuova missione alla quale si sapeva destinato dalla Provvidenza. Riordinati i dodici monasteri sublacensi sotto la direzione di superiori che ne garantissero la continuazione del tranquillo ritmo di vita, sul finire dell’inverno del 529, senza rumore, prese con sé pochi monaci e lasciò il paese che aveva visto fiorire la sua santità e dove le anime avevano così generosamente risposto all’invito della grazia. Attraverso la lunga esperienza sublacense, Benedetto aveva costruito idealmente il progetto di un unico Monastero, di tale vastità da poter accogliere tutti i monaci senza imporre frazionamenti in tante piccole comunità autonome e capace di contenere quanto sia richiesto dalla necessità della vita, acqua, mulino, orto, forno e altre eventuali dipendenze indispensabili a garantire una piena efficienza alla famiglia monastica, eliminando così l’inconveniente, grave per i monaci, di doversene allontanare con frequenza per provvedere ai bisogni più elementari. Nella nuova concezione l’edificio materiale dovrà piegarsi a garantire una delle esigenze fondamentali perché il monaco possa raggiungere il fine della sua vocazione: la separazione dal mondo, mediante l’eliminazione dei più legittimi pretesti a contatti col di fuori che inevitabilmente sarebbero a danno dell’anima. I lavori compiuti, soprattutto in contrasto allo stato di desolata incuria che presentavano le campagne circostanti, di dove, per un senso di sfiducia in un avvenire sempre incerto a motivo delle continue devastazioni barbariche, si cercava di ricavare appena il necessario a una miserabile esistenza, dovettero colpire profondamente i contemporanei. Erano un canto di speranza, un atto di fede nella vita, mentre intorno gravava l’incubo della desolazione. A Montecassino la concezione monastica di Benedetto raggiunge la sua pienezza. Quegli uomini che, piegandosi alla inflessibile e squisitamente paterna disciplina di Benedetto, sul monte di Cassino, protetti dalla clausura che ne fa dei segregati dal mondo, lavorano e pregano, racchiudono nel loro silenzio un potente dinamismo di vita interiore, che li tiene protési con tutto l’essere a una mèta soprannaturale, nella quale trovano il principio e il termine della loro esistenza, in apparenza incomprensibile, assurda, se ci lasciamo prendere dalla tentazione di valutarla con le nostre meschine unità di misura, fatte per le cose della terra. Essi sono, in realtà, degli appassionati cercatori di Dio che fanno faticosamente la via, in una virile ascesa di liberazione e di purificazione, per ricongiungersi al Principio della loro vita, a Dio, che aveva creato il primo uomo in una purezza perfetta, così da renderlo capace di intimità « come di amico ad amico ». A sanare questa miseria senza nome, nella quale si assommano tutte le miserie umane, e che noi chiamiamo « peccato », è intervenuta la Redenzione, operata attraverso il mistero dell’Incarnazione, Passione e Morte del Figlio di Dio, il Cristo. Ma quest’opera redentrice, di una potenza e di un’efficacia infinita in sé, è, per una provvidenziale disposizione divina, limitata nei suoi effetti dal grado della nostra cooperazione ad essa, perché, secondo la bella espressione di Sant’Agostino, il Dio che ci ha creato senza di noi non ci vuol salvare senza di noi, elevandoci, conforme la nostra dignità di creature intelligenti, al grado di suoi cooperatori nell’opera di ricostruzione interiore che, dalle rovine create dalla colpa, può condurci fino agli splendori della santità. Ogni vita cristiana racchiude in sé in potenza, questa capacità di ascesa fino alla restaurazione dei più intimi rapporti con Dio, attraverso i gradi e le forme diverse della santità, che tutte implicano però rinunzia al male e adesione al bene, in un cammino senza soste che ha per termine Dio stesso. In atto, pochi uomini, nella massa immensa, si impegnano per questa via, e quelli che consentono ad attuare in sé con pienezza la Redenzione, secondando le esigenze dello spirito in perpetuo contrasto con la carne, rimangono solitari su una via poco battuta, guardati dagli altri con una specie di stupore misto a pietà. Se un’anima ha questa disposizione iniziale, si può tentare la prova, altrimenti sarebbe inutile. La vita monastica non offre un clima adatto per gli ideali attenuati, per le mezze volontà disposte a trovarsi soddisfatte di molti beni raggiungibili con minor sforzo e con una più immediata soddisfazione: esige dei forti. A questi verrà proposto un modello: il Cristo. Tutto il metodo ascetico nel quale dovranno esercitarsi potrà ridursi a questo: guardare il Cristo e riprodurne in sé i tratti fino ad essere configurati perfettamente a Lui, fino a rendere conformi ai suoi i loro pensieri, e amare ciò che Egli ha amato, a parlare, ad agire come ha insegnato. San Benedetto concepisce la vita del monaco come un’attività somma, lotta, corsa, ascesa faticosa. Non è infatti senza sforzo rude che si compie nell’anima questo lavoro che implica operazioni varie di eliminazione del male e di assimilazione del bene, lavoro che dura quanto la vita, e che deve proseguire senza interruzione pur negli inverni gelidi dell’anima quando tutto vi sembra morto, attraverso la violenza di suggestioni contrarie, nella deprimente constatazione di una miseria della quale non giungiamo mai a toccare il fondo. Il Monastero sul monte di Cassino non potrà essere un comodo rifugio per anime fiacche che sognano una pace idilliaca nella quale poter vivere al riparo dalle molestie della vita. Benedetto lo ha concepito come una palestra dove, in schiere compatte ci si addestra alla lotta; una fucina dell’arte spirituale dove si impara a forgiare la vita secondo le esigenze di un ideale supremo, consentendo a essere battuti sotto il maglio, attuando in sé una morte quotidiana nella gioiosa consapevolezza di dar così alla vita il suo valore più alto. Si impongono, come è logico, delle condizioni preliminari, e prima fra tutte la rinuncia radicale e definitiva a qualunque bene inferiore che potrebbe essere di impedimento alla esclusiva ricerca di Dio, o anche solo ritardarne l’impulso. Rinunzia progressiva che investe i beni materiali, le ricchezze, i beni del corpo con le soddisfazioni anche legittime che vi sono connesse, i beni stessi dello spirito, compendiati nella volontà, ciò che è più nostro, più intimo, che Dio stesso rispetta. L’atto della rinuncia introduce però in uno stato nel quale bisogna custodirsi contro gli elementi che vorrebbero ritrarne il monaco, elementi esteriori ed elementi intimi i quali impongono un doppio ordine di barriere, quella esterna della clausura monastica, quella tutta interiore dell’esercizio generoso delle virtù. Esse mirano a neutralizzare l’azione della triplice concupiscenza inerente alla nostra condizione di natura decaduta, sempre in agguato per riassoggettare a sé l’uomo che le sfugge attraverso questo poderoso superamento di sé per il quale lo spirito, sorretto dalla grazia, si impone su tutti i valori della carne. Della separazione materiale dal mondo, Benedetto è geloso, con un rigore che potrebbe, a prima vista, apparire eccessivo: il monaco non appartiene più al mondo, deve con ogni cura eliminare i contatti che potrebbero mantenere o far rinascere in lui una mentalità alla quale ha rinunziato per stabilire la sua vita su un piano superiore, e regolarla esclusivamente in vista del possesso pieno del regno di Dio. Egli deve impegnarsi a superare la molteplicità che ne disperde le energie spirituali, tendendo all’unità, all’adesione totale all’« unum necessarium ». Un giorno fu riferito a San Benedetto che l’eremita Martino, celebre nei dintorni per la singolare santità della sua vita, per costringersi a non uscire dalla spelonca che aveva scelto per sua dimora, dopo essersi legato un piede con una catena ne aveva fissata l’altra estremità alla roccia, costituendosi così in una rude per quanto volontaria prigionia. Tra i santi, qualche volta, ci sono delle intimità ardite e l’abate di Montecassino mandò un suo discepolo all’eremita di Monte Marsico con una singolare raccomandazione: « Se sei servo di Dio, o Martino, non ti trattenga una catena di ferro, ma la catena di Cristo ». Il motivo ultimo dell’obbedienza più assoluta, persino nelle cose che potrebbero apparire impossibili, è uno solo: l’amore di Dio. In questa luce non stupisce il modo con cui Benedetto è morto: giunto il momento – da lui stesso previsto – della sua morte volle essere trasportato nell’oratorio dove, circondato dalla corona dei figli, che sostenevano in piedi il suo corpo sfinito dalla febbre, si munì del viatico di vita, di misericordia, di carità per il passo estremo, cioè del Corpo e del Sangue di Cristo, poi, tese le mani al Cielo in una preghiera di ringraziamento nella quale vibrava intensa l’ansia della comunione eterna, sempre in piedi, buon soldato di Cristo, dopo aver combattuto la buona battaglia, rispondendo pronto all’invito, entrò nel gaudio del suo Signore. In quello stesso giorno, due monaci lontani da Montecassino ebbero, l’uno nella propria cella, l’altro molto lontano da lui, una identica visione. Apparve loro infatti una via trionfalmente ornata di drappi e scintillante per la luce di lampade innumerevoli che congiungeva la cella del loro Santo Padre col cielo. Su di essa, un uomo dall’aspetto nobile e venerando chiese loro che via fosse quella, e avendo essi risposto che non lo sapevano, spiegò: « Questa è la via attraverso la quale Benedetto, il diletto di Dio, ascese al cielo ».
Conclusione E possiamo terminare con le notissime espressioni di un altro grande Papa, Paolo VI, che proprio a Montecassino il 24 ottobre 1964 in occasione della consacrazione della chiesa dell’Archicenobio disse: «… sì, la Chiesa ed il mondo, per differenti ma convergenti ragioni, hanno bisogno che San Benedetto esca dalla comunità ecclesiale e sociale, e si circondi del suo recinto di solitudine e di silenzio, e di lì ci faccia ascoltare l’incantevole accento della sua pacata ed assorta preghiera, di lì quasi ci lusinghi e ci chiami alle sue soglie claustrali, per offrirci il quadro di un’officina del «divino servizio», d’una piccola società ideale, dove finalmente regna l’amore, l’obbedienza, l’innocenza, la libertà dalle cose e l’arte di bene usarle, la prevalenza dello spirito, la pace in una parola, il Vangelo. San Benedetto ritorni per aiutarci a ricuperare la vita personale; quella vita personale, di cui oggi abbiamo brama ed affanno, e che lo sviluppo della vita moderna, a cui si deve il desiderio esasperato dell’essere noi stessi, soffoca mentre lo risveglia, delude mentre lo fa cosciente. Ed è questa sete di ve ra vita personale, che conserva all’ideale monastico la sua attualità. (Al tempo di S. Benedetto il ritirarsi dal mondo era motivato) dalla decadenza della società, dalla depressione morale e culturale d’un mondo, che non offriva più allo spirito possibilità di coscienza, di sviluppo, di conversione; occorreva un rifugio per ritrovare sicurezza, calma, studio, preghiera, lavoro, amicizia, fiducia.
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