Testi per la vita monastica                                          San Benedetto - sezione II


scheda bio-bibliografica

Abbate  Bernard  Ducruet  OSB

La Regola dei monaci di san Benedetto


Dom Bernard è monaco di Fleury, in Francia, ed è stato Abbate dello stesso Monastero. 


I suoi scritti sono brevi e non numerosi, ma di una straordinaria intensità.  

Tra di essi: La scala dell'umiltà; Il combattimento spirituale.

Lo scritto che presentiamo è la trascrizione di una meditazione, che egli diede  nel 1979, quando era ancora Abbate, come introduzione alla  Regola dei monacidi san Benedetto.


A motivo della stringatezza del suo discorso, oltre al solo testo integrale della meditazione (tradotto con grande cura da un testo francese stupendo e scorrevole), osiamo riproporre lo stesso testo con titoli e sottotitoli, da noi inseriti nella speranza di favorire l'approfondi- mento di uno scritto così pregnante.    


da: Lettre de Ligugé n° 198 (nov. 1979) Francia

traduzione a cura dei monaci della Abbazia Nostra Signora della Trinità - Morfasso  (PC)  Italia

Tutti i diritti sono riservati, per il testo© all'Autore e all'Editore;  per la traduzione: © ai traduttori

 

edizione  del  solo  testo

 

Abbate  Bernard  Ducruet  OSB

 

 

introduzione  alla

Regola  dei  monaci

di  san  Benedetto

 

 

     Questo libretto della Regola dei monaci ad un primo contatto può risultare difficile: non meravigliatevi. Se infatti l'atteggiamento con cui l'affrontate è quello del curioso, del dilettante, dell'esegeta o del  giurista, non troverete molto interesse per questo documento del  passato. 

     Soltanto uomini o donne, che hanno deciso di mettersi alla scuola della “Sapienza” e di diventarne “discepoli”, troveranno la chiave per questa lettura.

     La Regola dei monaci  è uno di quegli scritti che vanno meditati ogni giorno,  per poterne strappare il  segreto;  che occorre amare come la lingua materna, poiché solo l'amore dà alla conoscenza la sua vera profondità;  e che poi devono essere messi in pratica, poiché solo l'azione realizza e rende possibile la comprensione di questa parola, dandole la  capacità di diventare viva.

     Di ogni Regola di vita  possiamo dire ciò che il salmista dice della Legge di Dio:  “Amo la tua Legge, Signore;  tutto il giorno io la medito.  Fammi comprendere e io vivrò. I   tuoi comandamenti, io li amo;  i tuoi voleri, io li medito.  Io ho progredito nel mio cammino, perché ho cercato i tuoi precetti”.  

    Lo scopo di questa Regola, meditata, osservata, amata, è di mettere a proprio agio, di far correre e di allargare il sentiero della vita.

     Quando S. Benedetto termina la Regola (c.73), ci dice semplicemente: La santità non è tutta contenuta  in questa Regola; il discepolo, divenuto capace di ascolto, troverà una parola di vita in ogni brano della Sacra Scrittura o in ogni commentario fatto dai Padri; ma tu, che ti affretti verso la Patria celeste, con l'aiuto del Cristo metti in pratica perfettamente questa piccola Regola per principianti e allora, con la Grazia di Dio, tu arriverai”.

     Su queste parole termina il nostro itinerario.  Esso mostra bene ciò che una Regola è per un monaco:  è  la freccia che indica la direzione.  Essa non pretende di dir tutto, non fa lunghi discorsi: vuole soltanto metterci sulla strada.  Non ci rinchiude in un sistema o in un codice di virtù: ci indica una via.

     È la rampa di lancio di un missile.  È il canale che impedisce alla sorgente di perdersi nelle sabbie. Non pretende di essere la sorgente, né di indicare in quale mare essa deve gettarsi:  pretende soltanto di liberare il rigagnolo d'acqua dalla melma che riempie la sorgente affinché l'acqua possa scorrere abbondante. E quando l'acqua, liberata, e poi canalizzata nella regione sabbiosa del suo percorso, avrà fatto il suo letto, san Benedetto ci dice semplicemente: “tu arriverai”.

     Così la  Regola  ci fa divenire via con il Cristo.  Essa ci mette in cammino.

 

* * *

     Vediamo ora qual' è il fine di san Benedetto, quando inizia questa Regola. La prima parola lo indica: “Ascolta”.  San Benedetto vuole formare in noi degli uomini e delle donne capaci di diventare discepoli, discepoli del Cristo e servitori dell'Evangelo.  Il discepolo è colui che è capace di ascoltare il suo Maestro, poi di mettere in pratica i suoi insegnamenti.  Voi pensate che è facile ascoltare. Quando rimproverate ai bambini di essere distratti e di non saper ascoltare, voi pensate che voi, almeno voi, siete capaci di farlo.  Ebbene, no!  San Benedetto ci dice che è molto difficile ascoltare. Bisogna esservi educati con tutta una ascesi.  Spontaneamente noi non siamo capaci di farlo e il nostro ascolto resta selettivo. Noi ascoltiamo quello che ci piace ascoltare. Di solito siamo schiavi dei nostri desideri.  Per cui è necessaria tutta una ascesi per purificare il nostro cuore.  Infatti, divenuti discepoli, noi dobbiamo imparare ad ascoltare con tutto il nostro essere, ad accettare di capire tutto quello che ci viene detto, a vincere tutte le nostre resistenze e tutte le nostre paure, ad amare ciò che ci viene richiesto.

     Come possiamo pretendere di essere discepoli del Signore se non abbiamo imparato ad ascoltare con tutto il nostro essere, a volere con tutta la nostra mente, con tutta la nostra volontà, con tutto lo slancio vitale che abbiamo, la sua Volontà che, di solito, si presenta sotto la forma della Croce?  Tutta la pedagogia della Regola, allora, si concentra a far di noi degli uomini e delle donne capaci di ascoltare:  ascoltare Dio e ascoltare i nostri fratelli e le nostre sorelle.  Quando saremo diventati discepoli del Cristo con la nostra docilità di ascolto, noi saremo anche, secondo la bella espressione di san Benedetto, degli “operai di Dio”, capaci di compiere la sua opera, o meglio, capaci di lasciare che la sua opera si compia in noi.

 

     Conosciamo ora quello che si propone la Regola dei monaci,  che ci viene indicato nel Prologo.  Procediamo nella lettura.  Tornerò più avanti sui primi tre importantissimi capitoli.

     Nel capitolo 4 san Benedetto ci descrive i mille particolari quotidiani nei quali il monaco ha l'occasione di realizzare l'opera di Dio in sé.

     Poi, nei tre capitoli successivi, san Benedetto ci indica le tre componenti di quell'ascesi monastica che svilupperà in noi il senso dell'ascolto e la qualità di discepolo.  Questi tre elementi della nostra ascesi sono:  il silenzio di ascolto, l'obbedienza di ascolto  e l'umiltà.

     Il SILENZIO,  innanzitutto, non è il mutismo di chi non ha niente da dire, ma è l'involucro della parola.  Affinché questa raggiunga tutta la sua densità di senso e tutta la sua efficacia, è necessario che essa sia pronunziata ed ascoltata in un clima di silenzio.  È la legge di ogni dialogo.  Quando uno degli interlocutori parla, occorre che gli altri tacciano.  Il monaco che impara ad ascoltare si applica in ogni istante al silenzio.  All'inizio sarà per lui una dura ascesi;  ma un po' alla volta questo silenzio gli diventerà sempre più familiare quanto più maturerà il suo dialogo con Dio nella preghiera: un silenzio, che apparirà allora come una dimensione del suo ascolto.  Nel nostro occidente frastornato dal rumore delle macchine, invaso dal flusso delle immagini e costretto ad una solitudine negativa dalle chiacchiere delle ideologie, è buona cosa ritrovare questo silenzio nutriente di cui abbiamo sete e che ridà alla Parola di Dio tutta la sua forza d'incarnazione.

     La seconda dimensione di questa ascesi, che ci restituisce alla capacità di ascolto, è quella dell' OBBEDIENZA.   

Essa ci protegge dall'illusione.  L'obbedienza è la qualità dell'ascolto che rende il discepolo capace di realizzare la parola ascoltata. Realizzare, ossia renderla reale, viva e operante. L'obbedienza del discepolo non conosce tutte le problematiche moderne, che si attardano ad analizzare se l'ordine è legittimo, se l'autorità ha cura di associare alla corresponsabilità e se rispetta la libertà. Il discepolo obbedisce anche nelle cose difficili o impossibili, perché è proprio qui che supera quella soglia dove impara a lasciare che l'Opera di Dio si realizzi in lui, poiché le sue forze non gli bastano più.  Così, questa disciplina d'obbedienza si rivolge a uomini e a donne umanamente maturi, che non mirano più ad acquisire una responsabilità umana che già hanno avuto, ma a ritrovare lo spirito d'infanzia dell'Evangelo, che consiste nell'accogliere la Parola del Cristo tale quale ci è trasmessa e nel metterla sùbito in pratica.

      Questo spirito d'infanzia è quello del discepolo e lo si acquisisce in una terza dimensione che è l' UMILTÁ.   L'umiltà, per il monaco, non è quell'atteggiamento abbrutito dell'uomo schiacciato sotto i suoi complessi.  

     L'umiltà è l'humus, la terra fertile dove la Parola di Dio può germinare e portare frutto.  San Benedetto descrive l'acquisizione di questa disposizione di cuore sotto forma di una via ascendente, il cui primo gradino è la vigilanza.   Il monaco è essenzialmente una sentinella, un vigilante sotto lo sguardo di Dio.

 

     Questo atteggiamento di vigilanza,  con quello del silenzio e dell'obbedienza,  definisce tutto il fine della vita monastica, tanto nella religione musulmana e nella religione buddista, quanto negli Esseni ebrei.  Il monaco cristiano trova una ricerca identica alla sua nell'ascesi proposta da ogni monachesimo precristiano o non-cristiano. 

     Ma, mentre il bonzo o lo yogi sviluppano fino all'estremo questo atteggiamento di vigilanza con ogni tecnica basata su una approfonditissima conoscenza del corpo e della natura umana, il monaco cristiano, invece, divenuto discepolo del Cristo è invitato a seguire Lui nella sua via di incarnazione e di abbassamento, che lo conduce alla Croce.

     Su questa via, il monaco, alla sequela del Cristo, scopre una vita nuova che scorre in lui come una sorgente; canta in lui “vieni verso il Padre”, secondo l'espressione del martire sant'Ignazio.  Sarebbe troppo lungo descrivere questa via in cui la Vita in noi fa la sua Opera nel medesimo tempo in cui la Croce sembra condurci alla morte.

     San Benedetto così termina questo capitolo: “Una volta saliti questi gradini d'umiltà, il monaco raggiungerà PRESTO quella Carità di Dio che, perfetta, allontana la paura.  È quindi alla CARITÀ PERFETTA che ci conduce questa ascesi di ascolto.  Qui, in poche parole, san Benedetto rivela  qualcosa  della sua esperienza della TRINITÁ. Infatti san Benedetto, non ne abbiamo alcun dubbio, è un grande mistico.

    Ma san Benedetto è al tempo stesso troppo realista per fermarsi a lungo a parlarci della sua esperienza di Dio.  Partendo dai capitoli seguenti san Benedetto convoca il monaco - divenuto docile, silenzioso, umile - alla Lode come all' Opera essenziale della sua vita.  Il monaco, giunto al sommo dell'umiltà, è ormai “l'Operaio di Dio” e la sua Opera è la LODE.

     Sette volte al giorno, ossia senza sosta, va a lodare il Signore per i “giudizi della sua giustizia” e di notte si alzerà ancora per il suo officio di lode.  Questa ormai è nel mondo la grande opera del monaco, purificato - mediante una lunga ascesi - dai suoi vizi e dai suoi peccati.

     San Benedetto ci descrive in molti capitoli i particolari di questa opera di lode.  Egli attinge la materia di questa preghiera continua nella Bibbia e soprattutto nel Salterio.  

     Tutti insieme, in un'opera stupenda, noi celebriamo la Parola di Dio e questa celebrazione comune della Parola di Dio è un modo nuovo di ascoltarla e di farla nostra. Essa tanto più risuona nel nostro cuore, quanto più l'atmosfera di silenzio ci ha preparati ad ascoltarla e quanto più l'abitudine ad obbedire ci ha in anticipo sottomessi alla sua efficacia.  Allora la Parola può lavorare il nostro cuore umiliato e germinare in una terra profonda.  Infatti questa Opera di lode che è nostra, è anche eminentemente l'Opera di Dio in noi. È questa che, un po' alla volta, ci trasforma e ci trasfigura a immagine del Figlio Diletto.

* * *

     Affrontiamo ora un altro aspetto essenziale  della vocazione monastica.  Quest' Opera di conversione e di Lode noi non la viviamo da solitari come gli eremiti, ma da cenobiti, ossia in comunità con altri fratelli o altre sorelle.

     Fin dal primo capitolo, san Benedetto ci aveva avvertito della sua intenzione di scrivere una Regola per monaci che vivono in “comunità”. E, dopo aver parlato dell'Opera di Dio, in una nuova serie di capitoli si occupa di organizzare la comunità.  La comunità monastica è fondata su tre dimensioni, di cui ora parleremo:

      la prima è la dimensione economica della condivisione,

      la seconda è quella della accoglienza reciproca nella misericordia,

     la terza è quella dell'autorità dell'Abbate,  che è la chiave di volta della vita comunitaria e dell'ascesi personale di ogni monaco.  

     Ci soffermeremo su ognuna di queste in modo particolare.

    La comunità monastica è fondata prima di tutto sulla dimensione economica della  CONDIVISIONE.

     La regola della Condivisione è questa: tutto è comune a tutti, e si dà a ciascuno secondo i suoi bisogni.  Questa regola è presa dalla prima comunità di Gerusalemme.

     Essa si distingue dalla regola della condivisione secondo gli apporti della società moderna, o anche dalla regola della condivisione mediante un salario relativo al lavoro di ciascuno.

     Questa condivisione comunitaria si realizza a varie condizioni. La prima è il rispetto delle cose e degli oggetti che sono messi in comune.   San Benedetto stabilisce dei magazzinieri che sistemano ogni cosa e organizzano la loro utilizzazione (libri, utensili, biancheria, provviste, ecc.). La ragione è semplice: là dove le cose non hanno più valore e non sono rispettate, la condivisione non significa più niente e non mette più i fratelli in comunione.  Questo tipo di condivisione non è possibile nel nostro tipo di civiltà dell' usa-e-getta, dove il pane non ha valore, la sua condivisione non ha senso.

     Un'altra condizione di condivisione è che ogni cosa deve essere gestita con la medesima cura.   San Benedetto raccomanda al Cellerario di considerare ogni cosa come i vasi sacri dell'altare.  Anche qui la ragione è chiara.  Quando si stabilisce una gerarchia nel valore delle cose (oro, petrolio, caffè, ecc...), al tempo stesso si stabilisce una gerarchia artificiale tra coloro che gestiscono le cose.  Ora, in monastero, l'unica superiorità riconosciuta è quella della vita personale di un fratello.

     La condivisione comunitaria esige ancora un'altra condizione:  l'azione di grazie.  Si tratta, per colui che riceve, di saper ringraziare ed essere contento di ciò che riceve.  Forse è più difficile saper accettare che saper donare e c'è un orgoglio segreto che sospinge a rifiutare ciò che ci viene offerto, perché si preferisce rivendicarlo come un diritto.  La Regola lo constata:  l'umiltà consiste nell'accogliere di buon grado quanto ci viene dato.

     Infine, c'è un'ultima condizione per questo tipo di condivisione comunitaria che non è egualitaria: si tratta di saper combattere la gelosia  che può nascere nel cuore quando si è serviti meno bene.    Colui che ha bisogno di più, infatti, riceve di più perché è più debole,  e san Benedetto ci chiede di rallegrarci di aver bisogno di meno.  La condivisione comunitaria è, in definitiva, dello stesso tipo della condivisione eucaristica della manna o della moltiplicazione dei pani: “Ognuno mangiava secondo la sua fame e rendeva grazie a Dio (Es.16; Mt.14-15).

      Ma ciò che si condivide in comunità non sono soltanto gli oggetti e i beni, sono anche i servizi, i pasti e le cure mediche;  da qui i capitoli che seguono, nella Regola.

     San Benedetto ci parla anche, a proposito della condivisione comunitaria, di quella disponibilità della comunità a tenere nel suo seno fanciulli e vecchi, forti e deboli, sani e malati.  La nostra società separa le età per dare a ciascuno servizi più specializzati e soprattutto per liberare l'età produttiva da quegli incarichi che la potrebbero risucchiare.  Si separano quindi l'età scolare, la terza età, i malati negli ospedali, ecc.

     Ma la comunità non è una cellula di produzione né un'impresa, essa è una cellula di vita.  Vi si condividono non solo le ricchezze, ma anche le debolezze e le povertà;  ecco perché si vive insieme, senza specializzare i servizi e le funzioni.  Per poter vivere così, occorre sapersi far bastare l'essenziale e accontentarsi di poco.

      San Benedetto stabilisce come maestro di condivisione il cellerario,  ossia “colui che custodisce le cantine”.  Quest'uomo non è uno esperto di computer per calcolare la ripartizione dei benefici secondo i contributi di ognuno, ma è un uomo saggio, capace di discernere i veri bisogni e, quando occorra, di dire una buona parola per rispondere agli invidiosi, poiché san Benedetto dice: “una buona parola vale più di un dono eccellente”.   Così il Cellerario è il regolatore della condivisione comunitaria e colui che frena l'inflazione dei bisogni. Quest'uomo non viene scelto come un gestore moderno in funzione delle cose da gestire;  il suo profilo è quello di un saggio e di un uomo umile, capace di relazioni cordiali e pacifiche con i suoi fratelli e c'è qui tutto uno spirito che è  tipico della nostra Regola: quello di far passare l'uomo prima delle cose.

 

    Così, la comunità monastica è fondata su questa dimensione economica della condivisione e, con ciò, essa è già fortemente caratterizzata e molto differente da tutte le altre forme di associazioni che ci presenta la società moderna.  Ma c'è un'altra dimensione sulla quale la comunità monastica è fondata, ed è la MISERICORDIA.

     Prima dei capitoli che sviluppano i principi e le qualità della condivisione comune, la Regola  riserva molti capitoli per parlarci della misericordia e del modo di accogliere i fratelli che sono usciti per loro colpa dalla comunione fraterna.  I monaci, infatti, non sono dei santi, ma dei peccatori, e la misericordia è il fondamento più solido della comunità.  Bisogna imparare ad accogliere i fratelli colpevoli senza mai approvare il peccato, né nostro né quello dei fratelli.

     Le mancanze che turbano la pace della comunità sono talvolta molto piccole e dovute a semplice negligenza: oggetti perduti, utensili rotti, cibi bruciati, ecc.;  se esse sono subito riparate, non compromettono la comunione.  Ma ci sono delle colpe più gravi, che dissolvono lo spirito comunitario.  Spesso esse hanno origine da profondi difetti di carattere: un fratello si lascia dominare da un temperamento dominatore, un altro da una affettività eccessiva.  Perché la comunità possa maturare e progredire, tutto deve venir riparato e, al tempo stesso, accolto nella misericordia.

     La misericordia è quello sguardo che noi abbiamo sui difetti e che è talmente lo sguardo del Buon Pastore, da aver la forza di rialzare e di guarire.  La maturità di una comunità la si riconosce da questa autenticità di rapporti, tali che le mancanze sono accusate e riparate mentre i fratelli o le sorelle sono accolti così come ci sono dati e con un tale affetto che escono cresciuti dalle loro debolezze.  Sovente questo umile riconoscimento delle difficoltà comuni sfocia nell'ammirazione dei nostri fratelli o delle nostre sorelle, nella riconoscenza e nella lode.

 

    Fondata così sulla condivisione e sulla misericordia, la comunità lo è ancor più sull' ABBATE. Tocchiamo qui al mistero più fondamentale della comunità benedettina. 

    San Benedetto parla dell'Abbate fin dal capitolo 2 della Regola e vi torna di nuovo alla fine.

    L'abbaziato ha due poli: uno in relazione ad ogni monaco e l'altro in relazione alla comunità.

   L'Abbate, infatti, è per il monaco il sacramento del Cristo che ci conduce al Padre.  Se l'obbedienza reciproca, raccomandata ai monaci alla fine della Regola, ci rivela il Cristo gli uni agli altri, la relazione privilegiata con l'Abbate ci conduce al Padre.  Il Cristo, in effetti, rivela il Padre nella misura in cui è Egli stesso Padre nel suo rapporto con i discepoli, ricevendosi Egli stesso totalmente dal Padre.

     Cosi l'Abbate non potrà nulla insegnare, comandare o costituire al di fuori degli insegnamenti ed esempi del Signore.  Anche tutto il secondo capitolo sull'Abbate è una meditazione sul modo in cui il Cristo esercita la sua autorità sui suoi discepoli, li istruisce, li educa.  È qui che si trova il modello dell'autorità abbaziale. L'Abbate è Padre non nel modo in cui i genitori generano i propri figli, ma nel modo in cui il Cristo forma i suoi discepoli: dando loro il suo Spirito e rivelando loro la Paternità di Dio;  in questo Egli raggiunge l'ispirazione profonda del loro cuore abitato dallo Spirito del Cristo che grida in loro: “Abbà-Padre”.

     Tocchiamo qui un tratto dominante della spiritualità benedettina.  Il monaco non cerca soltanto di divenire discepolo del Cristo e servitore dell'Evangelo, ma anche Figlio Diletto del Padre nel Cristo.

     Non ho voluto parlarvi subito all'inizio di ciò, perché questo aspetto della nostra vita spirituale può essere interpretato molto male alla nostra epoca in cui la critica freudiana ha preso tanta importanza.

     In una seconda direzione  l'Abbate ha un ruolo più facile da comprendere: a livello di comunità.  Egli è il segno e il responsabile della sua unità. In modo analogo, su di lui è fondata la comunità come la Chiesa è fondata su Pietro.  San Benedetto ricorda molte volte le parole di Gesù ai suoi Apostoli: “Chi ascolta voi, ascolta Me”.

     L'unità della comunità, per essere vissuta concretamente e durare nel tempo, richiede che vi sia un capo e l'obbedienza all'Abbate verifica l'autenticità della carità fraterna.  Non ci si stupirà se il capitolo 64, che torna più esplicitamente su questo aspetto dell'abbaziato,  sia così esigente.   Ci si pone talvolta la domanda se questo ideale sia possibile. Ma noi rimaniamo ben consapevoli che l'autorità nella comunità monastica, come d'altra parte nella Chiesa, resta un Dono di Dio. E il Dono resta offerto, anche se l'ideale non è raggiunto.

 

* * *

     Procediamo ancora nello studio della Regola.  I capitoli che seguono ci parleranno della organizzazione della vita di questa comunità e delle sue attività.  Fondata sull'Abbate, sulla Condivisione e sulla Misericordia, la comunità monastica organizza la propria vita fra quattro attività, che la campana ritma nel corso della giornata. Queste scorrono regolari e pacifiche all'interno di una clausura, dato che è necessaria una certa riservatezza nei confronti dell'ambiente circostante, che non vive degli stessi valori né allo stesso ritmo.

     La prima delle occupazioni è quella dell' OFFICIO DIVINO, che torna ad intervalli regolari.  Abbiamo già visto come qui ci sia l'essenza dell'Opera di lode del monaco.

     Poi, la seconda attività del monaco è quella del LAVORO, necessario perché la comunità mantenga la sua autonomia economica.  Mediante questo lavoro, nuovi legami  di carità si intessono tra i fratelli con i servizi resi nei diversi impieghi (cucina, lavanderia, guardaroba...), o nei diversi lavori di manutenzione. Poi vi sono i laboratori, dove si producono gli oggetti da vendere, e talvolta i campi, che vengono coltivati. 

     Una terza parte di tempo dei monaci è riservata alla LECTIO DIVINA, ossia a uno studio cordiale della Scrittura, dove l'intelligenza impara a riscaldarsi nel cuore.  Il monaco si ricrea nella solitudine, al contatto con la Parola di Dio. Questa parte dell'orario, che serba per ogni monaco un certo spazio della ricreazione personale, è essenziale. In questo, la comunità si distingue da una collettività:  essa è una comunione di persone, le cui risorse comuni sono molto in profondità. 

      L'ultima attività che prende posto nella giornata del monaco è quella dell' ACCOGLIENZA.  È una dimensione della comunità benedettina.  Il monastero ha una foresteria per accogliere coloro che vengono a condividere la vita e la preghiera della comunità per un certo tempo.  Gli ospiti sono ricevuti come il Cristo.  San Benedetto parla a lungo di questa accoglienza degli ospiti.  Il  simbolo più espressivo dell'accoglienza del monastero è la porta.  La porta è ciò che si apre e che si chiude.  Essa protegge l'intimità della comunità, essa la apre sulla comunione. Si chiude sulla vanità e la distrazione del mondo; si apre ad ogni persona che desideri condividere lo spirito di lode e d'infanzia proprio  dei monaci. Così la prima parola di accoglienza, che l'ospite sentirà arrivando, sarà: “Dio sia lodato”.

      Così la Regola dei monaci organizza ed equilibra con saggezza la vita della comunità; e un po' alla volta con questo ordine e questa organizzazione, tra i monaci si intessono dei legami che non sono più soltanto quelli dell'educazione e nemmeno quelli dell'amicizia, ma quelli di una carità veramente teologale.

     Gli ultimi capitoli della Regola  si potrebbe intitolarli: “Dell'ordine della carità”.

     Effettivamente la comunità educata dalla Regola  non rimane una comunità puramente umana.  Già essa è “Ecclesia”, ossia una comunità ecclesiale radunata attorno al Cristo e dove il Cristo diviene un po' alla volta tutto in tutti.  È Lui che noi impariamo ad onorare nell'Abbate, in ciascuno dei nostri fratelli, soprattutto nei malati, negli ospiti, nei più poveri.

     Così, tutte le relazioni si trasfigurano per non avere altro che il Cristo come unico modello.  È Lui che ci doniamo gli uni gli altri.  Il capitolo 72 descrive meravigliosamente queste nuove relazioni in una comunità trasfigurata dalla Carità nella gioia,  nella semplicità e nella misericordia.  Si scopre allora come tutta la Regola dei monaci aveva questo scopo:  di educare alla Fede, alla Speranza,  e alla Carità perfetta che scaccia ogni paura.

 

* * *

     A  mo' di conclusione mi piacerebbe ora leggervi semplicemente qualche frase da un capitolo di questa Regola dei monaci, sulla quale abbiamo insieme meditato.  Si tratta del penultimo capitolo, quello che è intitolato:  “Del buon zelo che debbono avere i fratelli” (c.72):

     Come c'è uno zelo amaro e cattivo che allontana da Dio e conduce all'inferno, così c'è anche uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce  a Dio  e  alla Vita Eterna.   In questo zelo i monaci devono esercitarsi con ardente Amore, ossia:  si prevengano nell'onorarsi gli uni gli altri;  sopportino con grande pazienza le loro infermità fisiche e morali;  a gara si prestino obbedienza reciproca;  nessuno cerchi ciò che ritiene utile a sé, ma piuttosto ciò che è utile agli altri;  vogliano bene a tutti i fratelli con amore casto;  temano Dio con slancio d'amore;  amino il loro Abbate con una carità umile e sincera;  non antepongano assolutamente nulla al Cristo;  ed Egli ci conduca alla vita eterna.

      

* * *

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edizione  con  titoli  e  sottotitoli

 

Abbate  Bernard  Ducruet  OSB

 

 

introduzione  alla

Regola  dei  monaci

di  san  Benedetto

 

 


 

sommario

 

                      diventare VIA  con il Cristo

                                              - il sentiero della vita

I.    ALL' ASCOLTO  DEL  MAESTRO...

                      ascoltare con tutto il nostro essere

                       - il fine: formare dei discepoli

                       - le componenti dell'ascesi monastica:

                                  - un silenzio nutriente

                                             - la sana disciplina dell'obbedienza

                                             - un cuore umile

                      realizzare la parola ascoltata

                                             - la Carità perfetta

                                             - l' Opera di Lode

II.    ... NELLA  COMUNITÀ  MONASTICA

                      le dimensioni della vita comunitaria

                       - nella condivisione far passare l'uomo davanti alle cose:

                                             - le  condizioni della condivisione

                                             - quello che si condivide  

                                             - il cellerario, maestro di condivisione

                       - sopportare le mancanze altrui nella misericordia

                                             - la forza di rialzare e di guarire

                       - l' Abbate, chiave di volta

                                             - divenire figli con il Cristo

                      la Parola di Dio trasforma e trasfigura

                       - le attività monastiche:

                                             - l' Officio Divino

                                             - la Lectio Divina

                                             - l'accoglienza

                       - avere il Cristo come unico modello

                                             - una vera carità

                      Come conclusione

                                            - del buon zelo dei fratelli

 


 

Questo libretto della Regola dei monaci ad un primo contatto può risultare difficile: non meravigliatevi. Se infatti l'atteggiamento con cui l'affrontate è quello del curioso, del dilettante, dell'esegeta o del  giurista, non troverete molto interesse per questo documento del  passato. 

Soltanto uomini o donne, che hanno deciso di mettersi alla scuola della “Sapienza” e di diventarne “discepoli”, troveranno la chiave per questa lettura.

La Regola dei monaci  è uno di quegli scritti che vanno meditati ogni giorno,  per poterne strappare il  segreto;  che occorre amare come la lingua materna, poiché solo l'amore dà alla conoscenza la sua vera profondità;  e che poi devono essere messi in pratica, poiché solo l'azione realizza e rende possibile la comprensione di questa parola, dandole la  capacità di diventare viva.

Di ogni Regola di vita  possiamo dire ciò che il salmista dice della Legge di Dio:  “Amo la tua Legge, Signore;  tutto il giorno io la medito.  Fammi comprendere e io vivrò. I   tuoi comandamenti, io li amo;  i tuoi voleri, io li medito.  Io ho progredito nel mio cammino, perché ho cercato i tuoi precetti”.  

diventare  VIA  con  il  Cristo

Il sentiero della vita

Lo scopo di questa Regola, meditata, osservata, amata, è di mettere a proprio agio, di far correre e di allargare il sentiero della vita.

Quando S. Benedetto termina la Regola (c.73), ci dice semplicemente:

La santità non è tutta contenuta  in questa Regola; il discepolo, divenuto capace di ascolto, troverà una parola di vita in ogni brano della Sacra Scrittura o in ogni commentario fatto dai Padri; ma tu, che ti affretti verso la Patria celeste, con l'aiuto del Cristo metti in pratica perfettamente questa piccola Regola per principianti e allora, con la Grazia di Dio, “tu arriverai”.

Su queste parole termina il nostro itinerario.  Esso mostra bene ciò che una Regola è per un monaco:  è  la freccia che indica la direzione.   Essa non pretende di dir tutto, non fa lunghi discorsi: vuole soltanto metterci sulla strada. Non ci rinchiude in un sistema o in un codice di virtù: ci indica una via.

È la rampa di lancio di un missile.  È il canale che impedisce alla sorgente di perdersi nelle sabbie. Non pretende di essere la sorgente, né di indicare in quale mare essa deve gettarsi:  pretende soltanto di liberare il rigagnolo d'acqua dalla melma che riempie la sorgente affinché l'acqua possa scorrere abbondante. E quando l'acqua, liberata, e poi canalizzata nella regione sabbiosa del suo percorso, avrà fatto il suo letto, san Benedetto ci dice semplicemente: “tu arriverai”.

Così la  Regola  ci fa divenire via con il Cristo.  Essa ci mette in cammino. 

I.  ALL' ASCOLTO  DEL  MAESTRO...

ascoltare  con  tutto  il  nostro  essere

il fine:

formare

dei discepoli

Vediamo ora qual' è il fine di san Benedetto, quando inizia questa Regola. La prima parola lo indica: “Ascolta”.  San Benedetto vuole formare in noi degli uomini e delle donne capaci di diventare discepoli, discepoli del Cristo e servitori dell'Evangelo.  Il discepolo è colui che è capace di ascoltare il suo Maestro, poi di mettere in pratica i suoi insegnamenti.  Voi pensate che è facile ascoltare. Quando rimproverate ai bambini di essere distratti e di non saper ascoltare, voi pensate che voi, almeno voi, siete capaci di farlo.  Ebbene, no!  San Benedetto ci dice che è molto difficile ascoltare. Bisogna esservi educati con tutta una ascesi.  Spontaneamente noi non siamo capaci di farlo e il nostro ascolto resta selettivo. Noi ascoltiamo quello che ci piace ascoltare. Di solito siamo schiavi dei nostri desideri.  Per cui è necessaria tutta una ascesi per purificare il nostro cuore.  Infatti, divenuti discepoli, noi dobbiamo imparare ad ascoltare con tutto il nostro essere, ad accettare di capire tutto quello che ci viene detto, a vincere tutte le nostre resistenze e tutte le nostre paure, ad amare ciò che ci viene richiesto.

Come possiamo pretendere di essere discepoli del Signore se non abbiamo imparato ad ascoltare con tutto il nostro essere, a volere con tutta la nostra mente, con tutta la nostra volontà, con tutto lo slancio vitale che abbiamo, la sua Volontà che, di solito, si presenta sotto la forma della Croce?  Tutta la pedagogia della Regola, allora, si concentra a far di noi degli uomini e delle donne capaci di ascoltare:  ascoltare Dio e ascoltare i nostri fratelli e le nostre sorelle.  Quando saremo diventati discepoli del Cristo con la nostra docilità di ascolto, noi saremo anche, secondo la bella espressione di san Benedetto, degli “operai di Dio”, capaci di compiere la sua opera, o meglio, capaci di lasciare che la sua opera si compia in noi.

le componenti

dell'ascesi

monastica:

Conosciamo ora quello che si propone la Regola dei monaci,  che ci viene indicato nel Prologo.  Procediamo nella lettura.  Tornerò più avanti sui primi tre importantissimi capitoli.

Nel cap. 4 san Benedetto ci descrive i mille particolari quotidiani nei quali il monaco ha l'occasione di realizzare l'opera di Dio in sé.

Poi, nei tre capitoli successivi, san Benedetto ci indica le tre componenti di quell'ascesi monastica che svilupperà in noi il senso dell'ascolto e la qualità di discepolo.  Questi tre elementi della nostra ascesi sono:  il silenzio di ascolto, l'obbedienza di ascolto  e l'umiltà.

un silenzio nutriente

Il SILENZIO,  innanzitutto, non è il mutismo di chi non ha niente da dire, ma è l'involucro della parola.  Affinché questa raggiunga tutta la sua densità di senso e tutta la sua efficacia, è necessario che essa sia pronunziata ed ascoltata in un clima di silenzio.  È la legge di ogni dialogo.  Quando uno degli interlocutori parla, occorre che gli altri tacciano.  Il monaco che impara ad ascoltare si applica in ogni istante al silenzio.  All'inizio sarà per lui una dura ascesi;  ma un po' alla volta questo silenzio gli diventerà sempre più familiare quanto più maturerà il suo dialogo con Dio nella preghiera: un silenzio, che apparirà allora come una dimensione del suo ascolto.  Nel nostro occidente frastornato dal rumore delle macchine, invaso dal flusso delle immagini e costretto ad una solitudine negativa dalle chiacchiere delle ideologie, è buona cosa ritrovare questo silenzio nutriente di cui abbiamo sete e che ridà alla Parola di Dio tutta la sua forza d'incarnazione.

la sana disciplina   dell'obbedienza

La seconda dimensione di questa ascesi, che ci restituisce alla capacità di ascolto, è quella dell' OBBEDIENZA.   

Essa ci protegge dall'illusione.  L'obbedienza è la qualità dell'ascolto che rende il discepolo capace di realizzare la parola ascoltata. Realizzare, ossia renderla reale, viva e operante. L'obbedienza del discepolo non conosce tutte le problematiche moderne, che si attardano ad analizzare se l'ordine è legittimo, se l'autorità ha cura di associare alla corresponsabilità e se rispetta la libertà. Il discepolo obbedisce anche nelle cose difficili o impossibili, perché è proprio qui che supera quella soglia dove impara a lasciare che l'Opera di Dio si realizzi in lui, poiché le sue forze non gli bastano più.  Così, questa disciplina d'obbedienza si rivolge a uomini e a donne umanamente maturi, che non mirano più ad acquisire una responsabilità umana che già hanno avuto, ma a ritrovare lo spirito d'infanzia dell'Evangelo, che consiste nell'accogliere la Parola del Cristo tale quale ci è trasmessa e nel metterla sùbito in pratica.

un cuore umile

Questo spirito d'infanzia è quello del discepolo e lo si acquisisce in una terza dimensione che è l' UMILTÁ.   L'umiltà, per il monaco, non è quell'atteggiamento abbruttito dell'uomo schiacciato sotto i suoi complessi.  

L'umiltà è l'humus, la terra fertile dove la Parola di Dio può germinare e portare frutto.  San Benedetto descrive l'acquisizione di questa disposizione di cuore sotto forma di una via ascendente, il cui primo gradino è la vigilanza.   Il monaco è essenzialmente una sentinella, un vigilante sotto lo sguardo di Dio.

realizzare  la  parola  ascoltata

la Carità perfetta

Questo atteggiamento di vigilanza,  con quello del silenzio e dell'obbedienza, definisce tutto il fine della vita monastica, tanto nella religione musulmana e nella religione buddista, quanto negli Esseni ebrei.  Il monaco cristiano trova una ricerca identica alla sua nell'ascesi proposta da ogni monachesimo precristiano o non-cristiano. 

Ma, mentre il bonzo o lo yogi sviluppano fino all'estremo questo atteggiamento di vigilanza con ogni tecnica basata su una approfondi-tissima conoscenza del corpo e della natura umana, il monaco cristiano, invece, divenuto discepolo del Cristo è invitato a seguire Lui nella sua via di incarnazione e di abbassamento, che lo conduce alla Croce.

Su questa via, il monaco, alla sequela del Cristo, scopre una vita nuova che scorre in lui come una sorgente; canta in lui “vieni verso il Padre”, secondo l'espressione del martire sant'Ignazio.  Sarebbe troppo lungo descrivere questa via in cui la Vita in noi fa la sua Opera nel medesimo tempo in cui la Croce sembra condurci alla morte.

San Benedetto così termina questo capitolo: “Una volta saliti questi gradini d'umiltà, il monaco raggiungerà PRESTO quella Carità di Dio che, perfetta, allontana la paura.  È quindi alla CARITÀ PERFETTA che ci conduce questa ascesi di ascolto.  Qui, in poche parole, san Benedetto rivela  qualcosa  della sua esperienza della TRINITÁ. Infatti san Benedetto, non ne abbiamo alcun dubbio, è un grande mistico.

l' Opera  di  Lode

Ma san Benedetto è al tempo stesso troppo realista per fermarsi a lungo a parlarci della sua esperienza di Dio.  Partendo dai capitoli seguenti san Benedetto convoca il monaco - divenuto docile, silenzioso, umile - alla Lode come all' Opera essenziale della sua vita.  Il monaco, giunto al sommo dell'umiltà, è ormai “l'Operaio di Dio” e la sua Opera è la LODE.

Sette volte al giorno, ossia senza sosta, va a lodare il Signore per i “giudizi della sua giustizia” e di notte si alzerà ancora per il suo officio di lode.  Questa ormai è nel mondo la grande opera del monaco, purificato - mediante una lunga ascesi - dai suoi vizi e dai suoi peccati.

San Benedetto ci descrive in molti capitoli i particolari di questa opera di lode.  Egli attinge la materia di questa preghiera continua nella Bibbia e soprattutto nel Salterio.  

Tutti insieme, in un'opera stupenda, noi celebriamo la Parola di Dio e questa celebrazione comune della Parola di Dio è un modo nuovo di ascoltarla e di farla nostra. Essa tanto più risuona nel nostro cuore, quanto più l'atmosfera di silenzio ci ha preparati ad ascoltarla e quanto più l'abitudine ad obbedire ci ha in anticipo sottomessi alla sua efficacia.  Allora la Parola può lavorare il nostro cuore umiliato e germinare in una terra profonda.  Infatti questa Opera di lode che è nostra, è anche eminentemente l'Opera di Dio in noi. È questa che, un po' alla volta, ci trasforma e ci trasfigura a immagine del Figlio Diletto.

II.   ... NELLA  COMUNITÀ  MONASTICA

le  dimensioni  della  vita  comunitaria

Affrontiamo ora un altro aspetto essenziale  della vocazione monastica.  Quest' Opera di conversione e di Lode noi non la viviamo da solitari come gli eremiti, ma da cenobiti, ossia in comunità con altri fratelli o altre sorelle.

Fin dal primo capitolo, san Benedetto ci aveva avvertito della sua intenzione di scrivere una Regola per monaci che vivono in “comunità”. E, dopo aver parlato dell'Opera di Dio, in una nuova serie di capitoli si occupa di organizzare la comunità.  La comunità monastica è fondata su tre dimensioni, di cui ora parleremo:

- la prima è la dimensione economica della condivisione,

- la seconda è quella della accoglienza reciproca nella misericordia,

- la terza è quella dell'autorità dell'Abbate,  che è la chiave di volta della vita comuni-taria e dell'ascesi personale di ogni monaco.  

Ci soffermeremo su ognuna di queste in modo particolare.

nella  condìvisione  far  passare  l' uomo davanti  alle  cose

le  condizioni  

della  condivisione

 

 

 

 

 

 

 

 

La comunità monastica è fondata prima di tutto sulla dimensione economica della  CONDIVISIONE.

La regola della Condivisione è questa: tutto è comune a tutti, e si dà a ciascuno secondo i suoi bisogni.  Questa regola è presa dalla prima comunità di Gerusalemme.

Essa si distingue dalla regola della condivisione secondo gli apporti della società moderna, o anche dalla regola della condivisione mediante un salario relativo al lavoro di ciascuno.

Questa condivisione comunitaria si realizza a varie condizioni. La prima è il rispetto delle cose e degli oggetti che sono messi in comune.   San Benedetto stabilisce dei magazzinieri che sistemano ogni cosa e organizzano la loro utilizzazione (libri, utensili, biancheria, provviste, ecc.). La ragione è semplice: là dove le cose non hanno più valore e non sono rispettate, la condivisione non significa più niente e non mette più i fratelli in comunione.  Questo tipo di condivisione non è possibile nel nostro tipo di civiltà dell' usa-e-getta, dove il pane non ha valore, la sua condivisione non ha senso.

Un'altra condizione di condivisione è che ogni cosa deve essere gestita con la medesima cura.   San Benedetto raccomanda al Cellerario di considerare ogni cosa come i vasi sacri dell'altare.  Anche qui la ragione è chiara.  Quando si stabilisce una gerarchia nel valore delle cose (oro, petrolio, caffè, ecc...), al tempo stesso si stabilisce una gerarchia artificiale tra coloro che gestiscono le cose.  Ora, in monastero, l'unica superiorità riconosciuta è quella della vita personale di un fratello.

La condivisione comunitaria esige ancora un'altra condizione:  l'azione di grazie.  Si tratta, per colui che riceve, di saper ringraziare ed essere contento di ciò che riceve.  Forse è più difficile saper accettare che saper donare e c'è un orgoglio segreto che sospinge a rifiutare ciò che ci viene offerto, perché si preferisce rivendicarlo come un diritto.  La Regola lo constata:  l'umiltà consiste nell'accogliere di buon grado quanto ci viene dato.

Infine, c'è un'ultima condizione per questo tipo di condivisione comunitaria che non è egualitaria: si tratta di saper combattere la gelosia  che può nascere nel cuore quando si è serviti meno bene.    Colui che ha bisogno di più, infatti, riceve di più perché è più debole,  e san Benedetto ci chiede di rallegrarci di aver bisogno di meno.  La condivisione comunitaria è, in definitiva, dello stesso tipo della condivisione eucaristica della manna o della moltiplicazione dei pani: “Ognuno mangiava secondo la sua fame e rendeva grazie a Dio (Es.16; Mt.14-15).

quello  che 

si  condivide  

 

 

 

Ma ciò che si condivide in comunità non sono soltanto gli oggetti e i beni, sono anche i servizi, i pasti e le cure mediche;  da qui i capitoli che seguono, nella Regola.

San Benedetto ci parla anche, a proposito della condivisione comunitaria, di quella disponibilità della comunità a tenere nel suo seno fanciulli e vecchi, forti e deboli, sani e malati.  La nostra società separa le età per dare a ciascuno servizi più specializzati e soprattutto per liberare l'età produttiva da quegli incarichi che la potrebbero risucchiare.  Si separano quindi l'età scolare, la terza età, i malati negli ospedali, ecc.

Ma la comunità non è una cellula di produzione né un'impresa, essa è una cellula di vita.  Vi si condividono non solo le ricchezze, ma anche le debolezze e le povertà;  ecco perché si vive insieme, senza specializzare i servizi e le funzioni.  Per poter vivere così, occorre sapersi far bastare l'essenziale e accontentarsi di poco.

il cellerario,  

maestro di   condivisione   

 

 

 

 San Benedetto stabilisce come maestro di condivisione il cellerario,  ossia “colui che custodisce le cantine”.  Quest'uomo non è uno esperto di computer per calcolare la ripartizione dei benefici secondo i contributi di ognuno, ma è un uomo saggio, capace di discernere i veri bisogni e, quando occorra, di dire una buona parola per rispondere agli invidiosi, poiché san Benedetto dice: “una buona parola vale più di un dono eccellente”.   Così il Cellerario è il regolatore della condivisione comunitaria e colui che frena l'inflazione dei bisogni. Quest'uomo non viene scelto come un gestore moderno in funzione delle cose da gestire;  il suo profilo è quello di un saggio e di un uomo umile, capace di relazioni cordiali e pacifiche con i suoi fratelli e c'è qui tutto uno spirito che è  tipico della nostra Regola: quello di far passare l'uomo prima delle cose.

sopportare  le  mancanze  altrui  nella  misericordia

la forza di rialzare

e di guarire

 

 

Così, la comunità monastica è fondata su questa dimensione economica della condivisione e, con ciò, essa è già fortemente caratterizzata e molto differente da tutte le altre forme di associazioni che ci presenta la società moderna.  Ma c'è un'altra dimensione sulla quale la comunità monastica è fondata, ed è la MISERICORDIA.

Prima dei capitoli che sviluppano i principi e le qualità della condivisione comune, la Regola  riserva molti capitoli per parlarci della misericordia e del modo di accogliere i fratelli che sono usciti per loro colpa dalla comunione fraterna.  I monaci, infatti, non sono dei santi, ma dei peccatori, e la misericordia è il fondamento più solido della comunità.  Bisogna imparare ad accogliere i fratelli colpevoli senza mai approvare il peccato, né nostro né quello dei fratelli.

Le mancanze che turbano la pace della comunità sono talvolta molto piccole e dovute a semplice negligenza: oggetti perduti, utensili rotti, cibi bruciati, ecc.;  se esse sono subito riparate, non compromettono la comunione.  Ma ci sono delle colpe più gravi, che dissolvono lo spirito comunitario.  Spesso esse hanno origine da profondi difetti di carattere: un fratello si lascia dominare da un temperamento dominatore, un altro da una affettività eccessiva.  Perché la comunità possa maturare e progredire, tutto deve venir riparato e, al tempo stesso, accolto nella misericordia.

La misericordia è quello sguardo che noi abbiamo sui difetti e che è talmente lo sguardo del Buon Pastore, da aver la forza di rialzare e di guarire.  La maturità di una comunità la si riconosce da questa autenticità di rapporti, tali che le mancanze sono accusate e riparate mentre i fratelli o le sorelle sono accolti così come ci sono dati e con un tale affetto che escono cresciuti dalle loro debolezze.  Sovente questo umile riconoscimento delle difficoltà comuni sfocia nell'ammirazione dei nostri fratelli o delle nostre sorelle, nella riconoscenza e nella lode.

l' Abbate,  chiave  di  volta

Fondata così sulla condivisione e sulla misericordia, la comunità lo è ancor più sull' ABBATE.  Tocchiamo qui al mistero più fondamentale della comunità benedettina.   San Benedetto parla dell'Abbate fin dal capitolo 2 della Regola e vi torna di nuovo alla fine.

L'abbaziato ha due poli: uno in relazione ad ogni monaco e l'altro in relazione alla comunità.

divenire  figli

con  il  Cristo

 

 

 

L'Abbate, infatti, è per il monaco il sacramento del Cristo che ci conduce al Padre.  Se l'obbedienza reciproca, raccomandata ai monaci alla fine della Regola, ci rivela il Cristo gli uni agli altri, la relazione privilegiata con l'Abbate ci conduce al Padre.  Il Cristo, in effetti, rivela il Padre nella misura in cui è Egli stesso Padre nel suo rapporto con i discepoli, ricevendosi Egli stesso totalmente dal Padre.

Cosi l'Abbate non potrà nulla insegnare, comandare o costituire al di fuori degli insegnamenti ed esempi del Signore.  Anche tutto il secondo capitolo sull'Abbate è una meditazione sul modo in cui il Cristo esercita la sua autorità sui suoi discepoli, li istruisce, li educa.  È qui che si trova il modello dell'autorità abbaziale. L'Abbate è Padre non nel modo in cui i genitori generano i propri figli, ma nel modo in cui il Cristo forma i suoi discepoli: dando loro il suo Spirito e rivelando loro la Paternità di Dio;  in questo Egli raggiunge l'ispirazione profonda del loro cuore abitato dallo Spirito del Cristo che grida in loro: “Abbà-Padre”.

Tocchiamo qui un tratto dominante della spiritualità benedettina.  Il monaco non cerca soltanto di divenire discepolo del Cristo e servitore dell'Evangelo, ma anche Figlio Diletto del Padre nel Cristo.

Non ho voluto parlarvi subito all'inizio di ciò, perché questo aspetto della nostra vita spirituale può essere interpretato molto male alla nostra epoca in cui la critica freudiana ha preso tanta importanza.

autenticità  

della  carità fraterna

per l'unità 

della comunità

 

 

 

In una seconda direzione  l'Abbate ha un ruolo più facile da comprendere: a livello di comunità.  Egli è il segno e il responsabile della sua unità. In modo analogo, su di lui è fondata la comunità come la Chiesa è fondata su Pietro.  San Benedetto ricorda molte volte le parole di Gesù ai suoi Apostoli: “Chi ascolta voi, ascolta Me”.

L'unità della comunità, per essere vissuta concretamente e durare nel tempo, richiede che vi sia un capo e l'obbedienza all'Abbate verifica l'autenticità della carità fraterna.  Non ci si stupirà se il capitolo 64, che torna più esplicitamente su questo aspetto dell'abbaziato,  sia così esigente.   Ci si pone talvolta la domanda se questo ideale sia possibile. Ma noi rimaniamo ben consapevoli che l'autorità nella comunità monastica, come d'altra parte nella Chiesa, resta un Dono di Dio. E il Dono resta offerto, anche se l'ideale non è raggiunto.

la  Parola  di  Dio  trasforma  e  trasfigura

le  attività   monastiche

Procediamo ancora nello studio della Regola.  I capitoli che seguono ci parleranno dell'organizzazione della vita di questa comunità e delle sue attività.  Fondata sull'Abbate, sulla Condivisione e sulla Misericordia, la comunità monastica organizza la propria vita fra quattro attività, che la campana ritma nel corso della giornata. Queste scorrono regolari e pacifiche all'interno di una clausura, dato che è necessaria una certa riservatezza nei confronti dell'ambiente circostante, che non vive degli stessi valori né allo stesso ritmo.

l' Officio  Divino

La prima delle occupazioni è quella dell' OFFICIO DIVINO, che torna ad intervalli regolari.  Abbiamo già visto come qui ci sia l'essenza dell'Opera di lode del monaco.

la  Lectio  Divina

Una terza parte di tempo dei monaci è riservata alla LECTIO DIVINA, ossia a uno studio cordiale della Scrittura, dove l'intelligenza impara a riscaldarsi nel cuore.  Il monaco si ricrea nella solitudine, al contatto con la Parola di Dio. Questa parte dell'orario, che serba per ogni monaco un certo spazio della ricreazione personale, è essenziale. In questo, la comunità si distingue da una collettività:  essa è una comunione di persone, le cui risorse comuni sono molto in profondità. 

l'accoglienza

L'ultima attività che prende posto nella giornata del monaco è quella dell' ACCOGLIENZA.  È una dimensione della comunità benedettina.  Il monastero ha una foresteria per accogliere coloro che vengono a condividere la vita e la preghiera della comunità per un certo tempo.  Gli ospiti sono ricevuti come il Cristo.  San Benedetto parla a lungo di questa accoglienza degli ospiti. 

Il  simbolo più espressivo dell'accoglienza del monastero è la porta.  La porta è ciò che si apre e che si chiude.  Essa protegge l'intimità della comunità, essa la apre sulla comunione. Si chiude sulla vanità e la distrazione del mondo; si apre ad ogni persona che desideri condividere lo spirito di lode e d'infanzia proprio  dei monaci. Così la prima parola di accoglienza, che l'ospite sentirà arrivando, sarà: “Dio sia lodato”.  

avere  il  Cristo  come  unico  modello

Così la Regola dei monaci organizza ed equilibra con saggezza la vita della comunità; e un po' alla volta con questo ordine e questa organizzazione, tra i monaci si intessono dei legami che non sono più soltanto quelli dell'educazione e nemmeno quelli dell'amicizia, ma quelli di una carità veramente teologale.

una  vera  carità

Gli ultimi capitoli della Regola  si potrebbe intitolarli: “Dell'ordine della carità”.

Effettivamente la comunità educata dalla Regola  non rimane una comunità puramente umana.  Già essa è “Ecclesia”, ossia una comunità ecclesiale radunata attorno al Cristo e dove il Cristo diviene un po' alla volta tutto in tutti.  È Lui che noi impariamo ad onorare nell'Abbate, in ciascuno dei nostri fratelli, soprattutto nei malati, negli ospiti, nei più poveri.

Così, tutte le relazioni si trasfigurano per non avere altro che il Cristo come unico modello.  È Lui che ci doniamo gli uni gli altri.  Il capitolo 72 descrive meravigliosamente queste nuove relazioni in una comunità trasfigurata dalla Carità nella gioia,  nella semplicità e nella misericordia.  Si scopre allora come tutta la Regola dei monaci aveva questo scopo:  di educare alla Fede, alla Speranza,  e alla Carità perfetta che scaccia ogni paura. 

Come  conclusione

del  buon  zelo  

dei  fratelli

 

A mo' di conclusione mi piacerebbe ora leggervi semplicemente qualche frase da un capitolo di questa Regola dei monaci, sulla quale abbiamo insieme meditato.  Si tratta del penultimo capitolo, quello che è intitolato:  “Del buon zelo che debbono avere i fratelli”:

Come c'è uno zelo amaro e cattivo che allontana da Dio e conduce all'inferno, così c'è anche uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce  a Dio  e  alla Vita Eterna.   In questo zelo i monaci devono esercitarsi con ardente Amore, ossia:  si prevengano nell'onorarsi gli uni gli altri;  sopportino con grande pazienza le loro infermità fisiche e morali;  a gara si prestino obbedienza reciproca;  nessuno cerchi ciò che ritiene utile a sé, ma piuttosto ciò che è utile agli altri;  vogliano bene a tutti i fratelli con amore casto;  temano Dio con slancio d'amore;  amino il loro Abbate con una carità umile e sincera;  non antepongano assolutamente nulla al Cristo;  ed Egli ci conduca alla vita eterna.

 

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