Testi per la vita monastica                                         San Benedetto - sezione II


scheda bio-bibliografica

dom García M.Colombás OSB  

Un monastero semplice e attuale

 

Il padre dom García M. Colombás OSB è monaco benedettino del monastero di Montserrat, in Spagna.

È conosciuto anche come studioso, molto apprezzato per i suoi contributi alla conoscenza del monachesimo e della sua storia.

Oltre ad una edizione spagnola della Regola dei monasteri di san Benedetto con pregevole Commento, è autore di molte opere, saggi e articoli.  Inoltre: La tradición benedictina. Ensayo histórico, in nove volumi.

In italiano è apparsa nel 1984 la traduzione della sua opera: El monacato primitivo, t.1: Hombres, hechos, costumbres, instituciones;  t.2: La espiridualidad, Editorial Catolica, Madrid, 1974-1975.  [Il monachesimo delle origini:  tomo 1. Uomini, fatti, usi e istituzioni;  tomo 2. La spiritualità. Jaca Book, Milano, I ed.1984].


Qui presentiamo la traduzione di un suo articolo, apparso nel 1966 su MANRESA (n. 38, 1966; pagg. 5-16) trimestrale di spiritualità dei Gesuiti spagnoli, dal titolo: "Sugerencias para una renovación monástica".

Un monastero semplice e attuale, benché scritto in anni lontani, quando il Concilio Vaticano II non era ancora concluso, conserva un grande valore anche nella situazione attuale del monachesimo, e noi ne condividiamo totalmente le aspirazioni, le analisi e le proposte. Per questo abbiamo scelto di offrirvelo da meditare.


Tutti i diritti sono riservati per il testo:  © all'Autore e all'Editore;   per la traduzione: © al traduttore


 

 

 

 

Dom  Garcías  M. Colombás OSB

 

 

un  monastero

semplice  e  attuale

 

 

 

suggerimenti  per un  rinnovamento  monastico

 

 

 

 

 

 

a cura dei monaci dell'Abbazia Nostra Signora della Trinità

Monte Monastero - 29020 Morfasso (PC) Italia

1966 - 1983 - 2001

 

 

 

 

sommario

 

+

 

  un  monastero  semplice  e  attuale  

 

  la  rinuncia  e  i  suoi  corollari  

 

  la  separazione  dal  mondo  e  le sue  esigenze  

 

  la  comunità  monastica: famiglia  soprannaturale

 

  la  vita  eremitica  

 

  il  lavoro  ascetico  

 

  la  vita  di  preghiera  

 

  conclusione  

 

 

+

 

 

 

un  monastero  semplice  e  attuale

 

Il corpo mistico di Cristo vive un'epoca di vasto e profondo rinnovamento.  Le mutate e mutevoli condizioni del mondo moderno, le acquisizioni dei diversi movimenti ecclesiali (sociale, biblico, liturgico, ecumenico, ecc...); le direttive pontificie di Giovanni XXIII e di Paolo VI; il fermento di idee, progetti e soluzioni che è il Concilio Vaticano II; e – chi ne può dubitare? – lo stesso Spirito santo, che vivifica la Chiesa: tutto sta sollecitando questa revisione di posizioni, questa purificazione profonda, questo aggiornamento indifferibile, che caratterizzano i nostri tempi. I monaci, membri anch'essi di questo Corpo Mistico in questi momenti di evoluzione e di riforma, si terranno al margine senza lasciarsi sfiorare? Si mostreranno impermeabili alla potente ondata di sangue nuovo che invade tutto l'organismo soprannaturale? Si rassegneranno a sembrare esseri statici, anacronistici e polverosi, ostinandosi nel credere che le proprie strutture mentali e sociali non hanno bisogno di essere ripensate, criticate, modificate, adattate?

Certamente no.

Ne sono una prova i numerosi libri, opuscoli e articoli, che discutono i problemi vitali del monachesimo di oggi [1]; gli incontri di Abbati e monaci qualificati, alla ricerca di soluzioni pratiche [2]; le riforme impiantate qua e là, sempre più numerose e importanti; le fondazioni di nuovo tipo, che appaiono in varie parti del mondo [3]. Senza alcun dubbio esistono tra i monaci manifestazioni di inquietudine, ansie di rinnovamento, innegabile vitalità. 

Senza denunciare posizioni diverse, senza cercar polemiche (il che non significa che io mi chiuda al dialogo), ho voluto presentare qui – cedendo ad insistenze di amici – i princìpi che considero fondamentali per un rinnovamento del monachesimo, assieme ad alcune conseguenze di ordine pratico che ne derivano.  Sono fin troppo consapevole della mia mancanza di autorità.  Solo posso portare, in favore di questo scritto, una larga familiarità con le fonti della storia e della spiritualità monastica, una certa esperienza della vita benedettina ed un sincero amore alle nostre vere tradizioni.  Ma, comunque, non sono già, tutte o quasi le idee che esporrò, nell'atmosfera che respiriamo? Le mie aspirazioni all'originalità sono molto scarse, per non dire inesistenti. 

Prima di entrare in argomento conviene che io precisi la mia intenzione.  E prima di tutto che il presente saggio non tratterà del rinnovamento monastico, ma soltanto di un rinnovamento monastico.  In realtà, se il monachesimo non è stato mai un fenomeno perfettamente omogeneo, oggi poi presenta delle forme straordinariamente diverse e perfino contraddittorie. Io mi occuperò esclusivamente di come penso dovrebbe essere, alla luce della più autentica tradizione e delle genuine esigenze dell'uomo moderno, quello che chiameremo un monastero semplice e attuale. 

Intendo qui per monastero semplice quello che non ha altra finalità al di fuori di proporre ai suoi membri un ambiente adatto a portar avanti la vita monastica in tutta la sua purezza [4].  Un monastero semplice è un monastero "senza aggiunte": senza scuole, senza parrocchie, senza missioni, ecc…  È certo che la gerarchia autorizza e incoraggia tali attività dei monaci, e, come è logico, ogni fedele deve lodare e benedire tutto ciò che benedice e loda la Santa Madre Chiesa. Ma è ugualmente certo che la vita monastica pura, cioè senza l'aggiunta di altri obiettivi, ha trovato la più completa approvazione ed elogio nell'autorità ecclesiastica, dal grande patriarca di Alessandria sant'Atanasio, nel lontano secolo IV, sino ai Romani Pontefici più recenti.  Nessuno può ragionevolmente negarle il diritto di esistere nella Chiesa del secolo ventesimo.

Un monastero attuale è quello che, senza rinunciare a nessun elemento realmente importante dell'ideale monastico tradizionale, si sforza di adattarsi all'uomo del nostro tempo, all'attuale modo di essere, di pensare, di sentire e di vivere. Con questo proposito di adattamento, sopprime o trasforma istituzioni e costumi, considerati come "tradizionali", che i secoli sono andati accumulando e che però ai nostri giorni non solo non hanno più ragione di sussistere, ma che, come piante parassite, deformano l'antico e nobile albero del monachesimo e, ciò che è ancor più deplorevole, gli sottraggono qualcosa della sua linfa vitale.

Uno dei tratti più apprezzabili dell'uomo d'oggi è la sua ansiosa ricerca di autenticità e sincerità ad oltranza.  Poche cose – io credo – sono tanto radicalmente monastiche.  Nel redigere le pagine che seguono, mi è stato di guida in ogni momento questo desiderio di cercare e di affermare la verità ad ogni costo.  

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la  rinuncia  e  i  suoi  corollari

 

Il fondamento primo ed insostituibile su cui riposa tutta la vita monastica è la rinuncia.  "Colui che non rinunciasse a tutte le cose del mondo – diceva san Macario d'Egitto – non può essere monaco"; e l'Abbate Alonio: "Se io non avessi distrutto tutto, non potrei edificare me stesso" [5].  La rinuncia monastica implica un distacco completo, una totale abnegazione ed una piena partecipazione all'umiltà e povertà di Cristo [6].  Il monaco si spoglia per sempre di quanto possiede: i suoi beni temporali, la sua famiglia, la sua patria, il suo corpo, la sua volontà [7], tutto.  La tradizione si mostra unanime su questo punto:  senza tale rinuncia preliminare è impossibile essere monaco.

Tuttavia, per non smettere di essere monaco, è necessario perseverare e anche progredire, se possibile, in questa condizione di rinuncia e di spogliamento.  Individualmente e collettivamente.  Non basta la povertà personale.  Non soddisfà più questo sotterfugio dei "moralisti". Sarebbe mentire a Dio e agli uomini riprendere a titolo collettivo quanto si è abbandonato a titolo individuale; ed anche acquistare più di quello che si è lasciato, in nome di certo umanesimo, che non ha nulla a vedere con la vita monastica.  Soltanto le loro "opere" (scuole, missioni, ecc…) possono giustificare che i monasteri possiedano più di quanto è necessario perché i monaci vivano parcamente;  risulterebbe però assurdo che un monastero semplice abbondasse di beni materiali.

Il monaco sa che è uomo e che nulla di ciò che è umano gli è estraneo.  Tuttavia il suo sguardo va molto al di là delle cose di questa vita, per buone e nobili che siano, e si posa sulle realtà ultramondane.  Tutti i suoi desideri convergono nella vera Patria.  In questa terra egli si considera come un pellegrino, come uno straniero di passaggio.  È convinto che la "teologia dell'incarnazione" – ideale di cui tanto si parla ai giorni nostri – è propria di altri membri del Corpo Mistico di Cristo.  La sua vocazione, la sua grazia speciale, lo porta a scegliere definitivamente le realtà escatologiche, che in qualche modo egli anticipa già sin d'ora. Questa è precisamente la sua peculiare testimonianza agli occhi della comunità cristiana e del mondo intero [8].

Non perché li disprezzi, ma perché anela solamente al Bene supremo, il monaco ha rinunciato irrevocabilmente ai beni creati.  È povero.  Vuole esser povero.  Per questo non lascerà mai che lo si confonda con un capitalista o con un borghese.  Non può più rassegnarsi a vivere di rendita, come in altri tempi; né vivere di grandi industrie, che lo convertano in un uomo d'affari; né di elemosina, come quei mendicanti che non possono contare su di sé.  Gli ripugna sostenersi a prezzo del lavoro altrui; non vuole essere un parassita della società.  Vuole vivere grazie al proprio lavoro, come ogni altro povero in grado di lavorare.  È questa una delle grandi regole promulgate dai Padri della vita monastica: sant'Antonio, san Pacomio, san Basilio, san Girolamo, sant'Agostino…  Tutti hanno insegnato la stessa cosa.  E san Benedetto riassume realmente la tradizione più pura quando ricorda ai suoi figli che "saranno veramente monaci quando vivranno del lavoro delle loro mani, come i nostri Padri e gli Apostoli" [9].

Sarà, dunque, il proprio lavoro a procurare al monaco un vitto povero, un vestito povero, una casa povera.  "Povero" non è sinonimo di "miserabile".  Significa: semplice, umile, modesto, economico.  "Quod vilius comparari possit"  ["ciò che si può comprare a minore prezzo"] [10].

Non è la ricchezza, né l'ostentazione, ma un'autentica povertà, quella che deve brillare negli edifici monastici.  Ai nostri giorni, questo aspetto richiede molta attenzione. La società d'oggi, non meno che la natura stessa della vita monastica, esige la rinuncia alla magnificenza di altre epoche, in questa materia. In un tempo di persistente e acuta crisi di alloggi si metteranno forse, i monaci, a scandalizzare il popolo semplice e a provocare legittime mormorazioni, costruendo o restaurando edifici sontuosi, grandiosi e… superflui, anche se in essi vivranno poveramente? No. Il monastero va edificato a misura d'uomo, e di uomo che ha rinunciato alle ricchezze, alla pomposità, alla comodità eccessiva. Sarà funzionale, rigorosamente adattato alla sua destinazione.  Ciò non significa, chiaramente, che debba essere privo di bellezza, poiché anche l'estetica è funzionale, alla pari della nettezza e dell'ordine armonioso in tutte le cose.

Se il lavoro dei monaci procura loro più dello stretto necessario a sopperire i bisogni di una vita frugale e semplice, il Nuovo Testamento e – fondandosi in esso – la più pura tradizione indicano loro assai esplicitamente come debbono impiegare il superfluo.  Conforme agli insegnamenti del Signore, non possono accumulare tesori in questo mondo (Matteo 6, 19).  Quello che loro avanza, appartiene ai bisognosi.  L'elemosina, fatta col frutto del proprio lavoro, fu una delle virtù raccomandate e coltivate dai Padri, i quali lavoravano più del necessario per avere sempre a portata di mano qualcosa con cui sovvenire a quelli che erano più poveri di loro [11].

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la  separazione  dal  mondo 

e  le  sue  esigenze

 

Altra base insostituibile della vita monastica – così come la intesero i suoi fondatori – è la separazione dal mondo.  La solitudine dell'eremo o del cenobio costituisce l'ambiente normale del monaco.  Il suo stesso nome glielo ricorda: "Se desideri essere quello che ti chiamano, monaco, cioè solitario, che ci stai a fare nelle città, che non sono certo ambienti per solitari bensì per la folla?" [12].  Su questo punto non si accettano falsi adattamenti, che risultano in realtà delle trasformazioni. Per quanto santo sia lo scopo che si persegue, se si rinuncia alla solitudine, si rinuncia pure alla vita monastica. Infatti, se abbandona abitualmente il suo ritiro, in che cosa si distingue il monaco dagli altri religiosi?

E non basta che il monastero sia situato in un luogo solitario.  La vita dei monaci deve essere protetta da una clausura effettiva, che permetta l'accesso al cenobio solo a quelle persone che davvero cercano realmente il contatto con Dio in un ambiente di pace e di preghiera. 

Di fatto, un monastero semplice ed attuale non può rinunciare alla grande tradizione dell'ospitalità monastica. Tuttavia, deve limitarla alle necessità dei nostri giorni.  A differenza di quello che succedeva in altri tempi, esiste oggi ogni tipo di alloggi per forestieri.  Gli ospizi monastici non devono tramutarsi – come talvolta succede – in pensioni economiche per trascorrere delle vacanze più o meno divertenti, o per ordire qualche piano di opposizione. 

E nemmeno la comunità monastica potrà evitare, sotto pretesto di separazione dal mondo, quei rapporti spontanei e naturali, che il buon vicinato suppone.  Se i monaci vivono in un luogo solitario, generalmente avranno come vicini della gente di campagna, dagli scarsi mezzi economici.  Le relazioni con loro saranno improntate a due aspetti principali: la riservatezza, che la professione monastica impone, e una carità sincera, cordiale, effettiva. I monaci aiuteranno, in tutto il possibile, quanti abbiano bisogno del loro aiuto, tanto spirituale quanto materiale; soprattutto, però, saranno coscienti che il maggiore e migliore servizio, che possono prestare alla gente dei dintorni, consiste nel dar loro il buon esempio di condividere costantemente le medesime modeste e perfino povere condizioni di vita, guadagnandosi il pane col sudore della fronte.  E questo in virtù di una libera scelta, con gioia, per puro amor di Dio; per poter essere poveri ed umili con Cristo, che volle essere povero e umile.

 Ai nostri giorni, merita speciale attenzione questo punto: la clausura e il distacco dal mondo sarebbero praticamente inutili, se nel monastero si accettassero con facilità i moderni mezzi di comunicazione.  Benché eccellenti e ammirevoli in se stessi, sono pericolosi per la vita monastica.  Mediante la televisione, la radio, le riviste illustrate e anche gli stessi quotidiani, penetrerebbero nel monastero gli interessi, l'agitazione, lo spirito del mondo. 

Può darsi che suonino sgradevoli questi concetti all'orecchio di certe persone, di determinati cristiani.  Oggi impera ovunque l'azione e il dinamismo spirituale del monaco sempre più frequentemente non è capito. Si obietta che i veri discepoli di Cristo non devono abbandonare il mondo, ma devono convivere con i loro fratelli, gli uomini, e dedicarsi anima e corpo all'apostolato, tanto necessario e tanto raccomandato dalla gerarchia ecclesiastica. A tali obiezioni rispondono queste righe di p. J. Hausherr, S. J.: « I monaci devono cooperare alla salvezza del mondo non con l'azione né con l'intenzione, ma con la loro perfezione; ossia non attivamente, né intenzionalmente ma esistenzialmente » [13].  È questa la loro vera vocazione. Essi si allontanano dagli uomini non perché li disprezzino o perché si disinteressino della loro sorte temporale ed eterna, ma per occupare il posto che credono fermamente sia loro assegnato nella Chiesa: l'unico posto dal quale possono e devono collaborare con la massima efficacia al compito immenso di restituire il mondo al suo Creatore.

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la  comunità  monastica: 

famiglia  soprannaturale

 

È normale – e lo chiedono insistentemente i Padri antichi – che il monaco inizi la sua vita nel cenobio, considerato dalla tradizione per molto tempo come una scuola e una palestra spirituale.  Ma ciò non implica – come vedremo più avanti – che non gli sia lecito, quando abbia raggiunta una certa maturità spirituale, abbandonare l'affettuosa compagnia dei fratelli per abbracciare la vita solitaria.Vari sono i motivi che indussero i monaci a vivere in comunità:  certe volte fu il desiderio di giovarsi della dottrina e della direzione spirituale di qualche maestro famoso; in altre il desiderio di aiutarsi a vicenda nell'acquisto delle virtù e nelle cose temporali; in altre ancora l'opportunità di praticare visibilmente il grande precetto della carità fraterna...  Tali ragioni, più o meno forti, costituirono la base di una spiritualità cenobitica, di cui si è trattato infinite volte [14].

Uno degli aspetti più affascinanti di questo ideale di vita comunitaria è il concetto di monastero come famiglia soprannaturale, costituita da un padre e da alcuni fratelli. 

Il padre del monastero porta, in Occidente, il nome di abbate.  L'abbate è un'istituzione classica, venerabile, e – a quanto pare – immutabile [15].  Però, se esaminiamo con un po' d'attenzione ciò che tale istituzione è stata durante vari secoli e ciò che continua ad essere, in parte, ancora ai nostri giorni, e se confrontiamo questa immagine con l'immagine originaria e autentica, non possiamo fare a meno di ammettere che ha subìto profonde modifiche e, per dirla chiaramente, è stata adulterata da innegabili influssi profani, o per lo meno estranei al monachesimo.  Ne consegue che, finché continua il presente stato di cose, un monastero che ci tenga ad essere semplice ed attuale, dovrà rinunciare ad avere l'abbate.  In effetti niente sembra più anacronistico e meno conforme alla semplicità monastica, ai nostri giorni, di questa specie di imitazione e sopravvivenza di feudalesimo medioevale e di fastosità barocca.  Gran parte, per lo meno, dei monaci d'oggi desidera un cambiamento radicale su questo punto nevralgico dell'istituzione cenobitica.  Alcuni non nascondono la loro simpatia per la totale soppressione del regime abbaziale.  Altri – a mio parere molto meglio orientati – propugnano di restaurare il concetto puro e semplice dell'abbate come padre spirituale del cenobio.  Desiderano che sia una realtà, almeno nei monasteri, ciò che leggiamo nell'Evangelo: "Voi sapete che i prìncipi delle nazioni le soggiogano ed i grandi le dominano.  Non dev'essere così tra di voi; anzi, chi tra voi aspira ad essere grande, sia vostro servitore, così come il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma a servire e a dare la sua vita a riscatto di molti" (Matteo 20, 25-28).  Questi monaci ritengono che il padre del monastero deve essere ed apparire, con tutta verità, il servitore dei suoi fratelli.  Giudicano conveniente che rinunci ad alcune insegne pontificali, prive ormai di ogni significato, e a certe prerogative che lo distanziano dalla comunità fraterna.  Sono profondamente convinti che la crisi di obbedienza, che si fa sentire ai nostri giorni, è anzitutto una crisi di autorità (come si fece notare nell'aula conciliare durante la terza sessione del Vaticano II).  Pensano che, avendo fatto professione monastica come gli altri, il padre del monastero dovrebbe sottomettersi alla comune osservanza, invece di prendersi e continuare a godere di privilegi ed esenzioni per il solo fatto di essere il superiore.  La sua autorità, delegata da Cristo, non deve imporsi per la sua maestosità ma per il buon esempio, la dolcezza, l'umiltà, la carità [16]

Quanto ai monaci, che con il padre del cenobio costituiscono la famiglia monastica, sembra urgente la necessità di sopprimere tutte le separazioni e le distinzioni, che sono ancora generalmente in uso.  Non per seguire la moda o per uguaglianza democratica; ma per esigenza di vero spirito monastico e per fedeltà all'Evangelo.  L' "ancien régime" è venuto meno dappertutto: perché ostinarsi a conservarlo nei monasteri? Tutti i monaci sono fratelli, figli di un padre spirituale che rappresenta loro il Cristo.  Nemmeno il sacerdozio può essere un pretesto di divisione: è ben chiara su questo punto la regola di san Benedetto [17]. 

Un'altra osservazione importante: le comunità monastiche, se veramente vogliono formare una famiglia spirituale unanime – il "cor unum et anima una" degli Atti degli Apostoli (4, 32), che tanta attrattiva esercitò sui Padri del cenobitismo [18] – devono evitare di crescere troppo e di trasformarsi in eserciti.  Questo è il destino dei monasteri eccessivamente numerosi.  In essi l'abbate non può conoscere davvero i suoi figli spirituali e così dedicarsi al progresso di ciascuno di loro com'è suo dovere, e allora fatalmente smette di essere padre per divenire un capo.  I fratelli non si conoscono tra di loro: come, dunque, potrà esistere tra di essi l'unanimità? Altra valida ragione, per evitare che il numero dei monaci di un monastero ecceda il numero limite consigliato dalla prudenza, consiste nel fatto che ad una collettività numerosa deve corrispondere una sistemazione adeguata, e questa, per quanto modesta sia, darà sempre l'impressione di potere e grandezza.  Da dodici a sedici monaci sembra il numero più indicato per un monastero semplice, che rinunci di proposito ad ogni attività estranea alla natura stessa della vita monastica, comprese le grandi liturgie spettacolari. Se le vocazioni dovessero abbondare, sarebbe allora il caso di provvedere presto ad ulteriori fondazioni, aumentando così questi nuclei poveri e piccoli di servitori di Dio. 

Infine, tenendo presente il grande ideale del "cor unum et anima una", sembra essere della massima utilità ripristinare le "collationes" o conferenze spirituali degli antichi Padri. Frequenti conversazioni, alle quali interverrebbero tutti i monaci, su temi annunciati in precedenza e sui quali ognuno avesse avuto il tempo di informarsi, di riflettere, di pregare, contribuirebbero ottimamente a mantenere e rafforzare l'unità del cenobio e a mettere realmente in comune i lumi e i carismi di ciascuno dei suoi membri per il vantaggio di tutti.

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la  vita  eremitica

 

Solo una chiamata speciale di Dio può staccare il monaco dall'affettuosa compagnia dei suoi fratelli: la vocazione eremitica. 

« Eremitismo » è una vocabolo equivoco.  Esistono molti gradi di vita solitaria.  Qui, evidentemente, ci riferiamo al grado superiore, all'eremitismo di quei monaci che – ben formati e provati nel cenobio [19] – hanno seguito il misterioso e potente invito a morire misticamente a tutte le cose di questo mondo per vivere solo con Cristo nella nudità del deserto. È superfluo insistere sulla legittimità d'una vocazione, che la maggior parte dei Padri considera come il culmine dell'ideale monastico [20]. 

Un atteggiamento aperto e accogliente nei riguardi dell'eremitismo non costituisce affatto una innovazione.  Come lo sta dimostrando la ricerca storica [21], molti monasteri possedettero degli eremi; e non fu limitato il numero di monaci che vi trascorsero periodi più o meno lunghi, oppure vi perseverarono come solitari sino alla fine dei loro giorni. 

Grazie a Dio, stiamo oggi assistendo a una notevole rifioritura della vita eremitica [22]. Le anime sentono di nuovo il richiamo del deserto. Perciò, un monastero che voglia realmente rispondere alle necessità e alle aspirazioni dell'uomo del nostro tempo, si mostrerà comprensivo e accoglierà a braccia aperte tale tipo di vocazione, procurando di soddisfare l'autentica necessità – che alcuni dei suoi monaci potessero sentire – di vivere un tempo di ritiro, più intenso, nella solitudine di un eremo.

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il  lavoro  ascetico

 

Forse chi legge si farà questa domanda: "Ma, in fin dei conti, di che cosa mai si occuperanno i membri di una comunità senza impegni di scuola, senza azione pastorale, o, comunque, senza alcuna attività aggiunta alla vita di pura consacrazione a Dio?". Ecco la risposta più semplice: vivranno come monaci, saranno dei monaci.

Essere monaco implica, in primo luogo, una dedizione, anima e corpo, al lavoro ascetico.  Il grande e specifico impegno del monaco è sradicare dal proprio essere i vizi e le passioni disordinate, e coltivare tutte le virtù.  La sua professione gli impone lo sforzo quotidiano, incessante, di progredire nel cammino della perfezione evangelica, verso il grande ideale della « purezza di cuore »; la sua mèta è la piena partecipazione alla kenosis di Cristo, che è, al tempo stesso, partecipazione alla gloria di lui.

Ecco qui il suo tremendo segreto.  Tutta la sua ascesi – sia spirituale sia corporale – lo conduce a quell'annientamento di cui parla san Paolo (Filippesi 2, 7).  La rinuncia, la separazione dal mondo, l'austerità, la povertà, l'obbedienza, la castità... tutto coopera nella sua vita a questa dolorosa passione, a questa morte mistica, in intima unione con la passione e morte del Signore.  Essere monaco è in realtà, secondo la formula scultorea di san Girolamo, seguire nudo la nuda croce [23].  Chi non può comprendere tali cose, neppure potrà comprendere la purezza sublime e profonda dell'ideale del monaco: cercare Iddio e raggiungerlo.  Ma, senza morire all'uomo vecchio, non si può raggiungere la purezza dell'uomo nuovo.  E solo l'uomo nuovo è in grado di incontrare Dio, di vederlo e di possederlo [24]. 

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la  vita  di  preghiera

 

A misura che il monaco va purificandosi dalle scorie del peccato, cerca, ogni giorno con maggiore entusiasmo, e incontra il suo Dio in tutte le cose; ma in modo particolare nel sublime dialogo della lettura e della preghiera.

Nel monastero semplice ed attuale, la lettura meditata, assaporata, vissuta dei libri sacri – ciò che gli antichi intendevano per lectio divina [25] – deve occupare di nuovo il posto d'onore che le riconosceva la primitiva tradizione, e che, disgraziatamente, molte volte venne gettato via in favore di un Officio Divino sovraccarico ed eccessivamente prolisso.  La storia, antica e recente, prova quanto sia stato disastroso l'effetto di questa eliminazione.  Urge, dunque, ripristinare ad ogni costo la Lectio divina.  Essa è l'alimento della vita spirituale e – secondo la bella espressione di san Gregorio Magno – ci fa penetrare nel cuore di Dio [26].  L'orario del monastero sarà pertanto organizzato in modo tale che nulla possa impedirla o ridurla.  E affinché i monaci traggano il maggior profitto da questo assiduo contatto con la Parola di Dio, sin dal noviziato si darà loro una formazione adeguata, secondo la capacità di ciascuno.

La risposta dell'uomo alla voce di Dio, che gli parla nella Scrittura, si chiama preghiera.  La preghiera cristiana è una e indivisibile, anche se presenta due aspetti o due tempi: 1) quella liturgica o comunitaria: « l'Opera di Dio », nel linguaggio di san Benedetto; 2) quella personale o « segreta », come la chiamavano molto espressivamente gli antichi.

La salmodia e, in generale, tutta la liturgia del monastero, devono rivestire la massima semplicità e sobrietà di forme.  La mentalità dell'uomo d'oggi, nemico delle complicazioni e delle cerimonie inutili, si accorda con l'essenza stessa del culto cristiano – « Adorare il Padre in spirito e verità » (Giovanni 4, 23) – per esigere una potatura a fondo del complesso cerimoniale, che attraverso il romanticismo i secoli barocchi ci hanno trasmesso.  Ormai troppo sorpassati appaiono quei monaci che il P. José de Sigüenza gustosamente chiama "cerimoniosi" [nello spagnolo: « ceremoniáticos »].  Bisogna usare ogni mezzo per far sì che le Ore Canoniche siano davvero ore di preghiera viva e vivificante.  Si dovrebbe, magari, recitare l'Officio Divino in lingua volgare; anzi, sarebbe auspicabile una totale riforma della sua struttura.  Certamente la preghiera dei monaci riuscirebbe assai proficua se si recitassero meno salmi e se si riducesse anche il numero delle Ore Canoniche e, in cambio, le letture fossero più lunghe e, soprattutto, più seguite, e così si arrivasse a introdurre lunghe pause di silenzio per « l'orazione segreta ».  Così si ricostituirebbe di nuovo l'intima unione fra orazione vocale e orazione mentale com'era anticamente nell'Officio Divino, e sparirebbe quell'antagonismo che si verifica troppo spesso, nella pratica, tra due aspetti di una stessa realtà [27].

Per di più, bisogna notare che le Ore del coro non esauriscono tutta la preghiera del monaco.  Questa deve tendere a diventare continua, d'ogni istante, secondo l'ideale formulato con tanta chiarezza e perseguito con tanta fermezza dagli antichi.  Bisogna raggiungere con sincerità e sforzo lo « stato di preghiera ».  Non c'è dubbio, allora, che tutto favorirebbe tale impresa in un monastero con le caratteristiche che ho cercato di tratteggiare in queste pagine. 

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conclusione 

 

Resterebbe ancora molto da dire, se fosse mio intento definire nei dettagli il presente programma di rinnovamento monastico.   Ma credo che i princìpi fondamentali e i loro principali corollari siano stati esposti sufficientemente.  E se ora volessimo raccogliere, a modo di conclusione, gli aspetti più importanti di quello che abbiamo chiamato un monastero semplice ed attuale, avremmo la seguente immagine:

1 - È un monastero semplice, modesto e povero.  Negli edifici, nell'arredamento, nel vestire e nell'alimentazione dei monaci, in tutto.  Tanto individualmente quanto collettivamente i suoi membri conducono una vita intessuta di umiltà, sobrietà e austerità, ma senza esagerazioni di nessun tipo.  Per scontare la sentenza inflitta da Dio all'uomo peccatore (Genesi 3, 19), si fanno speciale impegno di mangiare il pane con il sudore della loro fronte.

2 - Situato in luogo solitario e protetto da una clausura effettiva, il monastero fornisce ai suoi abitanti la pace necessaria per lo svolgimento del genere di vita che hanno abbracciato.  Essi vivono realmente separati dal mondo, benché uniti alla Chiesa locale e universale, e a tutti gli uomini, mediante i legami della carità e della preghiera.  Non è però così assoluta, la loro clausura, da non consentire ai monaci di mantenere i migliori rapporti con i loro vicini, né di esercitare l'ospitalità cristiana con quanti accorrono ad essi in cerca della pace dell'anima.

3 - Desiderosi di costituire una famiglia soprannaturale realmente unita ed unanime, cercano di non essere più di dodici-sedici monaci.  Non c'è tra di essi distinzione o separazione alcuna, che impedisca loro di essere davvero "un sol cuore e un'anima sola" (Atti 4, 32).  Procurano di accrescere tale compenetrazione e perfetta comunità con frequenti scambi d'idee e di esperienze nelle cosiddette "collationes" o conferenze spirituali.

4 - Senza insegne pontificali e senza alcun genere di privilegi, ma con tutta semplicità e umiltà, il padre del monastero fa le veci di Cristo tra i fratelli e, col suo esempio, con la sua dottrina e con il suo governo paterno, li guida, collettivamente e individualmente, per le vie dell'Evangelo.

5 - Disposta a ricevere con simpatia le vocazioni eremitiche che venissero sorgendo e a procurare ai cenobiti dei tempi di ritiro più intenso, la comunità possiede uno o più eremi, costruiti naturalmente con maggior semplicità del cenobio.

6 - Nulla può distrarre il monaco dal dedicarsi al lavoro ascetico e al sublime dialogo della lectio divina e alla preghiera, comunitaria e personale, fatta "in spiritu et veritate".

 

*  *  *

 "Come in un solo corpo abbiamo molte membra e le membra non hanno tutte la stessa funzione, così noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo, ma ogni membro sta al servizio di tutti" (Romani 12, 4-5).  Rinnovato in questo modo, il monastero – membro del Corpo Mistico di Cristo – godrebbe certamente di maggior vitalità e assolverebbe meglio la funzione ecclesiale che gli è stata affidata.

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note

 

[1] Si vedano, ad esempio: Le message des moines à notre temps, miscellanea dedicata a dom Alexis Presse (Abbate di Boquen), Paris 1958;  W. Tunink, Vision on peace, New York 1963;  E. De Miscault, «Aggiornamento» dans la vie monastique, in Collectanea cisterciensia 27 (1965) p. 37-56;  J. Leclercq, Chances de la spiritualité occidentale, Paris 1966 (fondamentale per la panoramica ed ulteriore abbondan-tissima bibliografia);  J. Leclercq, La vie contemplative et le monachisme d'après Vatican II, in Gregorianum 47 (1966) p. 495-516; A.-M. Henry, Les moines et la mission, in Parole et mission 3 (1960) p. 183-210.

 

[2] Cfr. R. De Salvo, The Bouaké  Conference, in The American Benedictine Review 15 (1964) p. 420-425.

 

[3] Selezioniamo anche qui:  Elisabeth Des Allues, Toumliline: à la recherche de Dieu, au service de l'Afrique, Paris 1961 (versione spagnola: En busca de Dios, al servicio de l'Africa: Toumliline, Barcelona 1962);  frère Gregoire, Une nouvelle forme de la vie monastique: la fraternité de la Vièrge des pauvres, in Rythmes du monde 36 (1962) p. 207-215;  F. Mahieu, L'ashram de Kurisumala, in Bulletin du cercle st. Jean-Baptiste, marzo 1961, p. 25-32;  L. Rudloff - J. Hammond, The Weston Story, in The American Benedictine Rewiew 13 (1962) p. 390-400; Mount Saviour, Mount Saviour Monastery (s.d.), e nel relativo periodico (Mount Saviour Chronicle).

 

[4] Per evitare ogni ambiguità, non uso l'espressione « vita contemplativa », sebbene essa sia perfettamente tradizionale ed abbia incontestabile diritto di cittadinanza nel linguaggio monastico.

 

[5] Apophthegmata Patrum: Macario d'Egitto, 2; Alonio, 2.

 

[6] Cassiano: De institutis cœnobitorum 4,37.   

 

[7] Cfr. San Benedetto, Regula Monasteriorum 33,4.

 

[8] Ho esposto queste idee, basandomi su un gran numero di testi dei Padri, nell'opera Paraíso y vida angélica, Montserrat 1958.

 

[9] San Benedetto, Regula Monasteriorum 48,8.

 

[10] San Benedetto, Regula Monasteriorum 55,7.

 

[11] Per tutto questo, si veda l'interessante articolo di M. Perez de Laborda,  Trabajo y caridad en el monacato primitivo, in Yermo 3 (1965).

 

[12] S. Girolamo, Epistola 58,5.

 

[13] J. Hausherr sj, La Théologie du monachisme chez s. Jean Climaque, in Théologie de la vie monastique, Paris 1961, p. 404.

 

[14] Cfr., ad esempio, J. Olphe-Galliard, Cénobitisme, in Dictionnaire de spiritualité, II, 1953, col.  401-416; G. M. Colombas, El concepto de monje y vida monástica hasta fines del siglo V, in Studia monastica 1 (1959) p. 318-329; A. De Vogüe, Le monastère, église du Christ, in Commentationes in Regulam s. Benedicti, a cura di B. Steidle, Roma 1957, p.  25-46 (Studia Anselmiana, 42).

 

[15] Cfr. ad esempio, J. Baucher, Abbé, in Dictionnaire de droit canonique, 1, 1935, col.  29-62; J.  De Puniet, Abbé, in Dictionnaire de spiritualité, 1, 1932, col. 49-57; H. Emonde, Abt, in Reallexikon für Antike und Christentum, 1, 1950, col. 45-55; B. Hegglin, Der benediktinische Abt in Rechtsgeschi-chtlichrer Entwicklung und geltendem Kirchenrecht, St. Otti1ien 1961; P.  Salmon, L'abbé dans la tradition monastique, Paris 1962.

 

[16] Di tutto questo se ne parla nella regola benedettina (vedi per esempio: 2, 12-13, 22; 64, 8-15, 19-20...).

 

[17] Cfr.  San Benedetto, Regula Monasteriorum,  60, 4-7.

 

[18] Cfr. Colombas, El concepto de monje..., p.  326-329; A. Manrique, La vida monástica en san Agustín, El Escorial-Salamanca 1959, p. 307-308 (testi).

 

[19] Cfr.  San Benedetto, Regula Monasteriorum,  2, 3-5.

 

[20] Per l'eremitismo secondo il pensiero degli antichi, cfr. Colombás, El concepto de monje..., p.  329-337.

 

[21] Per una rapida sintesi della storia dell'eremitismo, cfr. J. Sainsaulieu, Ermites, in Dictionnaire d'histoire et de géographie ecclésiastiques, XV, 1962, col.  766-787 (con ampia bibliografia).

 

[22] v. fra gli altri  Marie de l'Assomption, Ueber das Einsiedlerturm, in Erbe und Auftrag 38 (1961) p. 360-370; J.LeclercqP.Doyere, Sur le statut des ermites monastiques, in La vie spirituelle/Supplé-ment, n.58, 1961, p.384-403 (con buone indicazioni bibliografiche); A Manual for Hermits, ad uso degli Eremiti di S. Giovanni Battista (edizione privata, USA, 1964).

 

[23] Epistola  58, 2.

 

[24] Ho sviluppato queste idee nel commento al capitolo VII della Regola benedettina, in Paraíso..., p. 102-116.

 

[25] Sulla « lectio divina » si veda soprattutto il bel volume di D. Gorce, La lectio divina des origines du cénobitisme à saint Benoit, I. Saint Jerôme et la lecture sacrée dans le milieu ascétique romain, Wépion Paris 1925.

 

[26] « Disce cor Dei in verbis Dei  »:  S. Gregorio Magno, Epistola 5, 46.

 

[27] Sulla riforma della liturgia monastica si veda, ad esempio, L. Leloir, Pour une liturgie plus priante, in Nouvelle revue théologique 95 (1963) p. 1023-1033; D. Winzen, Psalterium monasticum ad experimentum novo ordine dispositum, Mount Saviour 1963; id, Notes on the proposed Redistribution of the Psalter, ivi 1963; M.  Correa, El salterio monástico de Mount Saviour, in Yermo 2 (1964) p. 302-306; I. M. Gomez, Hacia un « aggiornamento » de la vida monastica, in Yermo 4 (1966) p.  239-250.

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