Testi per la vita monastica San Benedetto - sezione II scheda bio-bibliografica Abbadessa M. Ildegarde CABITZA OSB La Regola Santa La Madre Ildegarde (1905-1959) nel 1942 è stata inviata dalla Santa Sede come Abbadessa al Monastero benedettino di Rosano, dove nel suo breve abbaziato (morì a 54 anni) fece rifiorire la vita monastica. È autrice di varie opere sul monachesimo (v. sotto la bibliografia). Il testo che presentiamo costituisce il capitolo XII della sua opera intitolata: "San Benedetto", ed è un approfondimento e una preziosa sintesi della Regola di san Benedetto. per la Bibliografia della Madre Cabitza e per altre Edizioni dello stesso monastero: clicca qui. clicca qui per il testo normale (senza titoli) clicca qui per un sommario-sintesi clicca qui per il testo con aggiunta di titoli e sottotitoli Tutti i diritti sono riservati per il testo © all'Autrice e all'Editore I titoli e sottotitoli sono a cura dei monaci della Abbazia N. Signora della Trinità - Morfasso (PC) |
La Regola Santa
A compenso di fonti biografiche eccessivamente scarse, ci rimane, di Benedetto, il codice spirituale che egli scrisse per i suoi figli, e dove è racchiuso il meglio della sua anima, con quel gran palpito di carità che, imprimendogli un carattere di perenne freschezza gli ha permesso di sfuggire all'oblio dei secoli che lo hanno invece custodito come uno dei più robusti piloni della vita dello spirito. Per generazioni intere questo piccolo libro è stato il manuale di pedagogia ascetica delle anime assetate di Dio, il consigliere discreto di quanti, pur senza abbandonare il mondo, furono capaci di comprendere un ideale di superiore giustizia. È forse una questione oziosa il domandarsi quando fu composta la Regola, in quanto appare chiaro fino all'evidenza che non si tratta di un'opera composta di getto, ma di una elaborazione che, a mano a mano, è venuta completandosi con nuovi elementi, e la stessa stesura lascia traspa- rire gli arricchimenti successivi e semplicemente sovrapposti, senza quelle preoccupazioni di con- nessione organica tra i vari capitoli, della quale noi siamo oggi così gelosi. Se a Subiaco l'organizzazione dei monasteri differiva profondamente da quella di Montecas- sino, abbiamo però raccolto, attraverso il racconto gregoriano, alcuni elementi che rivivranno immutati nella Regola, e riguardano l'essenziale. Dobbiamo quindi ammettere una visione iniziale già ben definita, e uno sviluppo che si attua su una traiettoria sicura, pur assimilando dati di espe- rienza che varranno ad arricchirla ininterrottamente, dalla triste esperienza di Vicovaro fino alla morte del Santo. In questo processo non appare possibile giungere a stabilire con sufficiente probabilità l'atto di nascita dei singoli capitoli, e questo vale del resto a farci sentire con maggiore immediatezza, più aderenti alla vita, le pagine del codice monastico. Carattere di vivacità che è accentuato anche dalla lingua preferita da Benedetto per scrivere questa Regola che san Gregorio non esita a defi- nire « sermone luculenta », splendida nella forma, e che pure non ci viene presentata sotto l'impeccabile periodare del latino classico, benché esso non dovesse essere sconosciuto al Santo, ma nel linguaggio comune, già imbarbarito, dalla costruzione irregolare, sempre ricco però di una fraseologia colorita, pregno di significato, nel quale sentiamo la parola tesa a esprimere con la maggiore fedeltà il pensiero vigoroso, spesso condensato nella semplicità dell'espressione, ripor- tata a tutta la sua dignità e sincerità. Anche un profano, leggendo queste pagine, non può sottrarsi all'impressione di non avere tra le mani un trattato teorico, ma un'esperienza viva, il palpitare di un anima che la materialità del l'espressione non riesce a immobilizzare, e che ha dei bagliori improvvisi, degli scatti, mentre incide, lineare, inesorabile, nel profondo. Anche se non avesse avuto cura di metterci in guardia san Gregorio, non avremmo tardato a scoprire che chi ha scritto questi capitoli senza drappeggio di frasi, scavalcando con passo deciso i canoni della retorica, non è un ignorante, se pure avesse potuto trarci in inganno il ricordo degli studi troncati a metà, nei lontani anni di Roma. C'è nella Regola una maturità di pensiero, che si sente raggiunta attraverso un serio abito di meditazione, larga cultura ecclesiastica, reminiscenze stesse di classici pagani, e tutto questo fuso in un potente afflato di carità, detto senza ostentazione, in pagine che rivelano padronanza sicura della parola, mediante uno stile al quale le clausole metriche, adoperate con signorile spontaneità, imprimono un carattere di bellezza e di robusta armonia. Non tutto è originale, certo, in quest'opera; come nemmeno è stata concepita « ex novo » da san Benedetto una particolare forma di vita monastica. Egli è un discepolo convinto e devoto della tradizione ascetica che lo ha preceduto, e alla quale ha attinto in profondità, fino ad assimi- larne e farne sua la parte più vitale, e non solo non si preoccupa di nascondere questa sua di- scendenza spirituale, ma sembra anzi, insistentemente, compiacersi di sottolinearla, lasciando affiorare il suo rimpianto per non poter riprodurre integralmente la vita di eroica ascesi dei Padri antichi che addita ai discepoli più generosi come insuperata scuola di perfezione. Un pensatore dei giorni nostri rivolge al discepolo una parola profonda: « Seguimi. Tu mi supererai, se mi seguirai bene. Colui che non mi ha superato non mi ha veramente seguìto. Seguimi. Ma tu non ti fermare, quando io avrò cessato di camminare. Al di là dei limiti nei quali l'impotenza e la sera inchioderanno i miei passi, seguimi ancora » [Thibou, La Scala di Giacobbe, pag.47. Ediz. «Veritas », Roma, 1947]. San Benedetto ha intuito questa legge necessaria della vita che, senza sciogliersi dal passato, si apre a nuove esperienze. A ogni pagina della Regola noi possiamo rintracciare le fonti alle quali il suo pensiero si è alimentato, le assonanze (non solo d'idee, ma spesso perfino di frasi, di periodi interi) con i suoi maestri; eppure un simile lavoro, per quanto minuzioso e ricco d'interesse, rimane un mosaico inanimato di citazioni, mentre l'opera del Santo conserva la sua potente origi- nalità, che pare anzi acquistare maggior rilievo e grandezza per questa creazione nuova alla quale egli ha saputo piegare i vecchi elementi tradizionali. Ci sono esempi caratteristici a dirci che tutto è stato ripensato, rivissuto, collocato in una posizione nuova: una frase, in apparenza insignificante, omessa; una congiunzione, una paroletta aggiunta; l'ordine invertito; un sapiente raccostamento di periodi, ed ecco che il testo acquista un altro valore, ha una forza impensata, rivela capacità di luce che sarebbero sfuggite prima. In un equilibrio perfetto Benedetto fonde la dottrina del monachesimo orientale, col senso pratico del- l'Occidente, e, senza rinnegare nessun valore reale, lo rende suscettibile di una fecondità: e non sarà questa l'ultima ragione della sua grandezza.
È proprio questo elemento personale, inconfondibile, che ci rivela, attraverso la Regola, i lineamenti morali di san Benedetto in corrispondenza perfetta al ritratto che di lui ci permettono di ricostruire i fioretti gregoriani. Noi sentiamo subito, anche a una lettura superficiale delle pagine che egli ha scritto, di tro- varci di fronte a un'anima impregnata di fede e che attraverso la fede considera ogni minimo parti- colare della vita, così che questo sentimento viene a essere come il substrato profondo, e insie- me la suprema giustificazione delle norme ascetiche e del complesso di ordinamenti pratici che la Regola ci presenta. Per il Santo la percezione di Dio presente è attuale, immediata. L'affermazione paolina « in Lui viviamo, ci moviamo, abbiamo l'essere » (Atti, 17, 28) acquista, nella vita di Benedetto, la forza di un'esperienza vigorosa così da imprimere un suo carattere di conseguenza logica a tutte le azioni del monaco. Presupposto fondamentale, questo sguardo di Dio al quale niente può sottrarsi e che può essere, volta a volta, stimolo a fuggire il male o incitamento al bene, o consolante consapevolezza di un amore che ci avvolge, pronto a riempirci l'anima ogni volta che consentiamo ad accoglierlo, esso imprime un carattere di santità anche alle cose stesse, fa del monaco il sacerdote di un inin- terrotto ministero d'offerta, nel monastero divenuto un tempio dove anche i più umili strumenti del lavoro quotidiano hanno una loro santità e dovranno essere considerati « come i vasi sacri del- l'altare ». Fede viva nella quale l'azione del santo timore si fonde con la carità più ardente e determina quell'atteggiamento pratico di adorazione che non si esaurisce nella solennità della liturgia uffi- ciale, ma custodisce l'anima in una sottomissione perfetta alla divina volontà, insegnandole il segreto di questa vita in Dio che ha come fondamento il bisogno della lode, della gratitudine, della donazione nell'amore, per amore. L'amen dell'adesione perfetta, l'alleluja della gioia eterna, che l'apostolo Giovanni sentì risonare nella Gerusalemme celeste, riempiono l'anima di Benedetto, ed egli vuole lasciarne l'eredità ai suoi figli che vorrà purificati in un quotidiano esercizio di compunzione solo perché possano, con occhio più limpido, consentire ai disegni di Dio, e acquistare una maggior capacità di « magnificare il Signore che opera in loro ». Questa visione così netta, questa potenza interiore che dà un soffio di vita anche alle pre- scrizioni più banali, spiega certi scatti appena traditi da incisi rivelatori, abbastanza frequenti del resto, quasi espressione dell'impazienza della carità ritardata nella sua corsa dall'ostacolo previsto, o anche solo temuto. Rapido, nervoso, torna sotto la penna di Benedetto un « quod absit » (non sia mai), che sembra voler respingere anche solo la possibilità del male, e ci scopre insieme la nota di decisione, di energia volitiva che gli è così caratteristica e che egli con rara potenza ha impresso nella sua Regola, insieme a parole usate con compiacenza, ripetutamente, come quel « correre » che, per il Santo, solo sembra esprimere il ritmo esatto nel cammino dell'anima verso il suo Dio, come certi concetti che non si stanca di ribadire senza paura di ripetersi, perché non è la varietà o la moltepli- cità delle parole che ha valore per la vita spirituale, ma solo la profondità delle convinzioni. Il fanciullo di Norcia « cor gerens senile » (dall'animo pensoso in una precoce maturità), por- ta in sé la radice di una serietà di pensiero che gli anni accentueranno pur senza trasformarla in qualche cosa di tetro o di ostile ai sani valori dell'esistenza. La Regola, che non ha niente di cupo, che non propone ardite acrobazie spirituali, esige però, con una intransigenza che sembra dettata dalla gelosia appassionata dei diritti e della gloria di Dio, serietà assoluta, cosciente, negli atti che il monaco compie: nessuna leggerezza potrà offrire giustificazione per la colpa. È del resto la condizione preliminare posta a chi si accinga a salire la « scala dell'umiltà »: che fugga la spensieratezza, la storditaggine, in maniera assoluta, « omnino », quell' « omnino » che Benedetto predilige e che stabilisce un'opposizione radicale con tutte le mezze misure. Proprio perché è una cosa seria l'impegno di vita monastica che si assume con Dio, egli esige lunga prova, riflessione prudente, conoscenza minuziosa degli obblighi liberamente accettati, e può minacciare, qualora si manchi ad essi, la condanna da parte « di Colui del quale ci si fa beffe »; perciò l'obbedienza promessa non avrà altri limiti che quelli stessi della vita, e la povertà avrà esigenze di distacco talmente austere e universali che il Santo non esita a ricordare come nemme- no più possiamo disporre « del nostro corpo o della nostra volontà ». Egli non si rivolge a dei dilettanti di vita spirituale, ma parla ad anime serie; queste lo sapran- no capire, e sarà dovere del maestro scrutare se il novizio possiede questa « serietà », che poi equivale alla sincerità nella ricerca di Dio. Che se non l'avesse, il Santo è esplicito: è meglio che « libero parta ».
È forse per l'influsso di questa pensosità che Benedetto si preoccupa di quell'ordine esterno che, secondo sant'Agostino, è un riflesso dell'ordine interno. Niente, nella vita di comunità, è lasciato al caso, all'imprevisto. La Regola provvede a tutto: agli ufficiali del monastero e alle loro relative incombenze; alle varie categorie di persone: sacerdoti, vecchi, malati, bambini, forestieri, in modo che ognuno si muova nel proprio ambito agevolmente, senza intralciare o essere impedito dalle esigenze della vita comune; le relazioni reciproche tra superiori e sudditi, e quelle dei fratelli tra loro; le cose stesse materiali, hanno una disposizione perfetta. Il Santo sa che il disordine genera confusione e malessere e niente sfugge alla sua previden- za, dalla suppellettile della cucina che il sabato dovrà essere lavata e riordinata per riguardo ai fra- telli che si alternano nei turni di servizio, agli inventari dove dovrà essere elencato ogni oggetto di proprietà della famiglia monastica, agli indumenti che, di ritorno da un viaggio, il fratello che li ha adoperati dovrà riconsegnare puliti alla guardaroba comune. Egli pensa al decoro degli abiti, soprattutto se si debba uscire; alla cucina degli ospiti, perché sia più accurata; ai monaci che, dovendo servire a mensa, avranno bisogno di un leggero ristoro prima di prendere il loro pasto. L'identica cura dell'ordine esige anche negli altri: in chi legge, in chi ha una qualunque responsabilità nell'ufficiatura o in un servizio che interessi comunque la comunità, nella stessa disposizione con la quale i fratelli si seguiranno trovandosi insieme, perché l'ordine è condizione di pace, e la pace, anche esteriore, è condizione necessaria al contatto dell'anima con Dio. Tutto è disposto perché niente turbi l'osservanza monastica, e se il monastero si apre acco- gliente a sovvenire a tutte le necessità di chi viene affaticato dal mondo, la Regola crea una difesa immateriale, eppure insormontabile, a che l'agitazione e i rumori del di fuori non vengano a scon- volgere la divina monotonia di una vita che si svolge sulla terra senza essere più della terra.
Eppure questa minuziosa cura dei particolari non giunge a irrigidire, in forme invecchiate, la disciplina spirituale che la Regola impone, e questa è cosa mirabile. Rimane il fatto storico indiscutibile, e facile a esser controllato anche ai nostri giorni, della sua flessibilità e adattabilità alle epoche e ai paesi più diversi, senza che questo sforzo di adatta- mento riesca a svuotarla o anche solo a immiserirla del suo contenuto di forza santificatrice per le anime. Possiamo però pensare di non allontanarci troppo dalla verità se giustifichiamo il fenomeno considerando il genio psicologico di san Benedetto, che lo ha portato a legiferare su quanto in ogni convivenza umana può avere valore universale, lasciando invece la massima elasticità agli elementi contingenti, per i quali costituisce arbitro l'abate, nello spirito della Regola e nel timore del giudizio divino. A questo si deve se il colore degli abiti, la misura del cibo, l'attività specifica di ogni mona- stero, il criterio da seguirsi nei digiuni durante l'estate, la stessa disposizione dell'Ufficio divino, hanno avuto delle determinazioni pratiche molto diverse attraverso i secoli e in regioni diverse, pur senza intaccare l'unità spirituale della famiglia monastica che, proprio per la sua fisionomia singolare, può attuare il medesimo ideale unico e immutabile attraverso le forme accidentali più svariate, integrando nella sua osservanza elementi determinati dalle particolari condizioni storiche o ambientali.
Tracciata l'idea fondamentale, sulla quale non sono possibili transazioni, e le sue conse- guenze necessarie, con quel complesso di norme già provate dall'esperienza come le più adatte a informarne la vita, il resto offre un raro carattere di duttilità. Da ciò viene che la Regola non somi- glia affatto a un regolamento, ma è il libro di un'idea, l'affermazione di uno spirito deciso a distri- carsi dalla materia per vivere su un piano di esigenze superiori. San Benedetto è così consapevole del carattere di necessità, in ordine al fine, che questo codice riveste, da poter esigere che, sia nella vita strettamente personale, sia nella vita collettiva della comunità, « tutti seguano come maestra la Regola, e nessuno temerariamente se ne allontani ». E non è esagerato parlare di temerità, ché tale sarebbe l'allontanarsi dalla via battuta per avventurarsi al seguito di concezioni personali che potrebbero condurci lontani dal fine. L'abate stesso sottostà all'obbligo di agire in ogni circostanza « con timor di Dio e nell'os- servanza della Regola » in quanto a lui compete non l'indipendenza nei riguardi del fine e dei mezzi tradizionali che ad esso devono condurre, ma solo un più profondo dovere di adeguare la propria vita ai canoni del codice monastico, in maniera da addestrare con maggiore efficacia le anime alla pratica dei precetti di perfezione necessari a raggiungersi nella ricerca di Dio. Ed è notevole il fatto che, nella complessa e travagliata storia del monachesimo benedettino, attraverso quattordici secoli di vicende non sempre felici, tutte le volte che, dopo un periodo di decadenza, anime generose hanno concepito la necessità di una riforma, mai nessuno abbia pen- sato ad attuarla col « ringiovanire » la Regola, ma solo attraverso il ritorno integrale alla osser- vanza più fedele della Regola stessa. E se i grandi movimenti monastici, pure ricchi di interiore vitalità e fecondi di santi, dopo aver raggiunto l'apogeo della loro grandezza, hanno conosciuto un troppo rapido declino, ne dobbia- mo con ogni probabilità cercare il motivo nel fatto che, accentuando l'uno o l'altro degli elementi della vita monastica insuperabilmente fusi dal Santo, si sono allontanati da quel criterio di equili- brio soprannaturale e insieme squisitamente umano nel quale egli « ripieno dello spirito di tutti i giusti » ha saputo contenere la sua legislazione. San Gregorio chiama la Regola « discretione præcipua » (eminente per la discrezione), ma questa eminenza della discrezione, se abbraccia una reale moderazione in fatto di pratiche peni- tenziali, deve principalmente intendersi nel suo significato originario e immediato di « discerni- mento », in quanto il Santo ha saputo con genialità togliere dall'insegnamento tradizionale un po' caotico quanto poteva attribuirsi alle eccentricità ascetiche di alcuni individui, lasciando intatta la dottrina sostanziale, con i principi che costituiscono l'essenza stessa della vita monastica. Benedetto propone questa dottrina, e le modalità pratiche di attuazione che il magistero del- l'esperienza gli ha manifestato come le più opportune, a tutte le anime desiderose di toccare il culmine della perfezione cristiana, mantenendosi sempre su un piano di moderazione sapiente, in modo che l'osservanza non abbia tali rigori da indurre « i deboli » a ritrarsene spaventati, pur lasciando adito ai « forti » di poter fare di più: quel di più che il Santo non sembra condannare come un eccesso, ma anzi incoraggia, purché ne sia garantita, attraverso il controllo del padre spirituale, la genuina ispirazione soprannaturale. Questo riflesso e consapevole senso di misura giustifica, illuminandolo, il tono di autorità col quale la Regola può legiferare, e quella specie di intransigenza che esclude a priori ogni patteg- giamento. È stato già tenuto conto dal legislatore della debolezza umana, fisica e spirituale; sul resto, l'indispensabile per giungere alla mèta, non sono da ammettersi ulteriori adattamenti. Tanto più che san Benedetto, fedele alla tradizione ascetica che lo precede, vede nel monaco un peni- tente, uno che, dopo aver percorso, per una tacita connivenza col male, una lunga via in discesa, ora deve sforzarsi di rifare il cammino in salita, impegnandosi a quella fatica purificatrice che sola può permettergli il ritorno a Dio dal quale si era allontanato.
Ma c'è anche un altro aspetto della Regola che vale a spiegarne la perennità, ed è la sua aderenza ai libri santi, così evidente che Bossuet ha potuto definirla: « sommario del Cristiane- simo, dotto e misterioso compendio di tutta la dottrina del Vangelo ». Lo stesso san Benedetto del resto non ha alcun programma spirituale che si sovrapponga al Vangelo, poiché vede nel monaco un cristiano perfetto nella generosa imitazione del Cristo, il Modello unico, l'unico Amore; traccerà perciò una via lineare: « sotto la guida del Vangelo, battiamo le sue vie », le vie di Gesù, da Betlemme al Calvario, alla gloria nel seno del Padre. La Regola sovrabbonda nelle citazioni della Parola divina, quasi voglia con essa determinare una specie di necessità per le sue prescrizioni, espressione di una volontà che Dio stesso ha comunicato all'uomo e che il monaco dovrà vivere con fedeltà e con intensità tutta particolare, poiché egli è, per professione e per vocazione, l'operaio, il servo, il soldato del suo Signore. E proprio perché dalla divina parola trae la sua forza, ne partecipa insieme la freschezza e l'attualità nell'ininterrotto fluire delle generazioni umane. Nel pensiero di san Benedetto la Regola non è la somma e la consumazione della perfezione, ma solo un avviamento, il complesso di tutte quelle norme alle quali, nella fatica dell'ascesi, si deve sottoporre l'anima che tende alla santità; essa mira cioè a guidare il monaco nell'arduo lavoro della sua purificazione interiore e ad addestrarlo nell'esercizio delle virtù, così da renderlo atto alle profonde operazioni della grazia, ove unica regola è la mozione dello Spirito Santo, docilmente accolta e tradotta in ardente carità. L'ultimo capitolo insiste con chiarezza su questo pensiero, e vi possiamo cogliere qualche cosa di più che un semplice atto di umiltà da parte del Santo. C'è per lui un grado di perfezione religiosa che è inerente alla professione di monaco, così che a non praticarlo si dimostrerebbe di non possederne neanche i primi rudimenti, ed è al raggiungi- mento di questo che provvede la Regola, in modo da dimostrare « di possedere onorabilità di costumi, e un principio di vita monastica ». È una prima tappa, suscettibile di ulteriori sviluppi, che nella corsa dell'anima verso la santità apre l'adito, una volta che sia stata generosamente superata, a quelle vette sublimi di perfezione sulle quali proietteranno la loro luce le dottrine e gli esempi dei Padri, chiamati da Dio a tale altezza che non può proporsi alla massa, inguaribilmente malata di accidia, e ancora troppo esposta al fascino delle cose terrene. Appare chiaro il disegno di san Benedetto. La santità importa una particolare chiamata di Dio all'anima, e la generosità dell'anima fino all'eroismo nel rispondere alle esigenze che ne derivano. Due cose, queste, che non possono essere costrette in una Regola, perché non si può tracciare la via allo Spirito Santo, né imporre l'eroismo all'uomo. Domina sovrano, nelle pagine che Benedetto ha tracciato, il rispetto religioso della misteriosa azione di Dio sulle sue creature. L'abate dovrà considerarle singolarmente, nella loro fisionomia individuale, e conformare ad esse la propria azione di padre e di maestro, trattando « chi con lusinghe e chi con minacce », senza mai dimenticare che suo compito è quello di « servire ai costumi di molti», sapendo aspet- tare l'ora della grazia e vincere l'impazienza di risultati prematuri. Ancora più significativo è il riserbo di san Benedetto quando tratta dell'orazione del monaco, senza mai permettersi la minima intromissione in quello che è dominio assolutamente libero dello Spirito Santo. Perciò se qualcuno, dopo l'orazione comune, sentisse l'invito a prolungare il suo colloquio con Dio, con semplicità « entri e preghi ». Al Santo è sufficiente insegnare le condizioni di questa orazione da compiersi con umiltà, purezza e contrizione di cuore; tutta la Regola sarà anzi virtualmente un tirocinio di tali virtù pro- prio in vista del raggiungimento di quello stato d'unione nel quale la preghiera è come il respiro dell'anima. Inutilmente cercheremo metodi elaborati o minuziose analisi spirituali; non erano nel gusto del tempo, e ancor meno, forse, in quello di san Benedetto il quale, anziché allo studio delle esperienze soggettive nel contatto con Dio, si applica a uno sforzo concreto di sempre maggiore purezza nella eliminazione di ogni forma di male capace di impedire quella segreta azione della grazia che più conta vivere anziché descrivere. In simile concezione la Regola si trasforma in un autentico avviamento pratico alla « indis- rupta oratio » (la continua orazione), che è l'anelito più vivo di ogni vocazione monastica. Ben diverso l'atteggiamento del Santo nei riguardi della preghiera ufficiale, pubblica, che egli cura fin nei minimi particolari, disponendone lo svolgimento con così sapiente accuratezza, che l'ordinamento da lui stabilito avrà un influsso decisivo e stabile anche sull'ufficiatura della stessa Chiesa Romana. La Regola dà al « sacrificio di lode » il posto centrale tra le varie attività del monaco, tanto da ingiungere che « niente assolutamente venga anteposto all'opera di Dio » e la tipica espres- sione cesella, con impareggiabile precisione, la dignità di questo ufficio che è, in verità « opera di Dio » in quanto non ha altro fine che Lui, la sua gloria, il riconoscimento ammirato e pieno d'amore delle sue grandezze e dei diritti che Egli ha sulle creature. L'atteggiamento esterno stesso dovrà tradurre l'intima consapevolezza che il monaco ha della sua missione, in virtù della quale si diffonde sulla terra un'eco del Sanctus eterno che i Serafini, velandosi il viso, cantano nel cielo all'Onnipotente. Ben dodici capitoli della Regola provvedono a regolare minutamente l'ordine e il decoro del servizio liturgico, traduzione squisita delle virtù teologali che più direttamente ci congiungono a Dio, nella fede che lo adora presente, nella speranza che attende implorando, nella carità che si effonde e canta ardendo. Il divino Ufficio è il centro d'unità della famiglia monastica, la quale, stretta al Cristo nascosto sotto la persona dell'abate che ne tiene le veci, presenta al Padre la sua ostia di lode; e tutti, an- che i lontani, dovranno parteciparvi, sospendendo il lavoro, sostando, appena è possibile, nei viaggi, uniti col cuore, se non con la voce, ai fratelli che salmeggiano. Ed è così decisamente impressa nella Regola quest'idea, che lo sviluppo dato costantemente dai monasteri benedettini alla preghiera solenne e pubblica ha colpito anche i distratti, e ha spinto molti a identificarlo col fine stesso della vocazione monastica, mentre in realtà non è che una delle sue più nobili espressioni: « pensum servitutis nostræ » (il tributo della nostra servitù), lo dirà umilmente san Benedetto, e non c'è tributo più degno che la creatura possa dare a Dio.
Le preferenze di san Benedetto, che pure - per averla vissuta - conosce la vita eremitica, sono decisamente per quella cenobitica, e in vista di questa egli ha scritto la Regola, traducendo in essa una meditata esperienza, affinché in schiera serrata i fratelli marcino decisi, forti della loro compattezza, verso l'ideale. Molti elementi ascetici hanno un particolare sviluppo proprio in funzione della vita comune, e ci è dato cogliere attraverso numerosi capitoli della Regola stessa la preoccupazione di tutto ordi- nare in maniera tale che la famiglia, pur composta di individui disparati per origine o per tempera- mento, sia una nella carità, nell'amore di Cristo. Saranno eliminati a tal fine tutti i motivi di divisione per eventuali differenze sociali. Una volta abbracciata la vita monastica « schiavi o liberi siamo una sola cosa in Cristo, e sotto un unico Signore compiamo la stessa milizia ». Venerazione rispettosa e indulgente amore dovranno attenuare i contrasti tra i giovani e i più anziani in reciproca comprensione, e col compatimento che si estenderà anche ai fratelli meno dotati fisicamente e spiritualmente, quelli proprio da « sopportarsi pazientissimamente ». Per la prima volta nella storia del monachesimo, san Benedetto esige, agli inizi della vita mo- nastica, una vera e propria professione religiosa, sotto forma di contratto bilaterale, che il monaco in maniera esplicita, pubblica e solenne, stipula con la comunità alla quale chiede di appartenere, secondo un rigido procedimento giuridico la cui testimonianza, racchiusa nel documento da lui scritto e firmato e deposto sull'altare, sarà conservato negli archivi del monastero. In questo contratto la comunità in nome di Dio accoglie il novizio e gli fa parte di tutti i suoi beni, sia di quelli d'ordine spirituale che di quelli d'ordine materiale, mentre il nuovo fratello si impegna a tre obblighi fondamentali: l'obbedienza, la stabilità, la « conversatio morum » (conver- sione dei costumi), secondo la tipica formula che equivale a « vita monastica ». L'obbedienza è il requisito basilare, quello che sarebbe da solo sufficiente ad abbracciare tutti gli altri obblighi dello stato religioso, che vi possono essere inclusi senza sforzo. Senza obbedien- za non c'è il monaco. In ogni modo, pur senza essere mai stato fatto oggetto di un voto partico- lare, è elemento comune all'ascesi monastica anteriore, e oggetto delle più grandi preoccupazioni dei Padri del deserto nella formazione delle giovani reclute che essi si sforzano di condurre alla più alta perfezione di questa virtù. Ciò che è invece veramente originale, in san Benedetto, è l'aver impegnato il monaco alla sta- bilità, e questa sua intuizione, di genialità tutta romana, ha avuto un influsso decisivo sullo svi- luppo dei monasteri, non solo, ma anche sulla riorganizzazione economica e civile di una società che sembrava destinata a essere sommersa dalla barbarie. Il monachesimo primitivo non si era affatto preoccupato di questo elemento, che anzi rimane- va ignorato a tal punto da essere normale, nel deserto, il passare dall'una all'altra scuola quando si ritenesse di aver sufficientemente assimilato tutto il corredo di virtù che uno dei Padri era stimato capace di offrire, e la fama di una straordinaria santità orientava verso un nuovo maestro le schie- re dei discepoli. E in ciò non solo non si vedeva difetto, ma anzi una encomiabile forma di fervore religioso alla ricerca di sempre nuovi mezzi di perfezionamento. Da questo sincero desiderio di bene, però, a deplorevoli abusi, il cammino era breve, e, in corrispondenza con la generale decadenza della vita monastica, nel secolo VI san Benedetto de- nunzia lo scandalo detestabile dei monaci sarabaiti, e peggio dei girovaghi, che passano la vita a girare il mondo, sfruttando la devozione dei fedeli, ai quali lasciano, in compenso dell'ospitalità ricevuta, l'esempio tutt'altro che edificante della loro ingordigia e di una indisciplinatezza insoffe- rente di qualsiasi freno. Il Santo ne è talmente disgustato che della disgraziata condizione di costoro preferisce « ta- cere piuttosto che parlare » e, con evidente compiacenza, passa a ordinare « le schiere fortissime dei cenobiti ». Ma per questa forma di vita la stabilità gli appare essenziale. Come non si scinde la connessione intrinseca della famiglia naturale, nonostante la cattiva volontà dell'individuo, perché essa è basata sul sangue, così non si deve pensare a una possibile diserzione dalla famiglia monastica, compagine non meno salda, ma d'ordine tutto soprannaturale, e dove il vincolo di coesione, essendo dato dalla grazia, esige la cooperazione della libera volontà umana, che appunto mediante la promessa di stabilità si impegna a non disertare da essa. Per il Santo non esiste nessuna situazione che meriti di essere considerata tale da giustificare un volontario allontanamento del monaco dalla sua famiglia d'elezione; non la salute, perché anzi agli ammalati i fratelli serviranno come si servirebbe al Cristo, ed essi, dal canto loro, avranno cura di esercitare durante l'infermità le virtù monastiche delle quali hanno fatto professione; non la vera o presunta mediocrità dei superiori che non conformino la loro vita agli insegnamenti che trasmet- tono senza attuarli in sé, ché basterà allora « fare ciò che essi dicono e non fare ciò che essi fanno »; e nemmeno, se vi si dovesse giungere, la subdola persecuzione di falsi fratelli, o quella, aperta e violenta, di persone costituite in autorità, per il semplice motivo che prima di assumere un impegno definitivo davanti a Dio e alla comunità, tutti questi casi sono stati previsti e considerati e si è accettato di perseverare nel monastero « usque ad mortem » (fino alla morte). La ragione profonda di tutto questo è evidente: il monaco non chiede alla vita religiosa un rifugio pacifico che lo esoneri dalla sofferenza, egli anzi, per una più chiara conoscenza della po- tenza redentrice della croce, aspira a inserirsi nella maniera più vitale nel mistero di salvezza che non opera « sine sanguinis effusione » (senza spargimento di sangue). La stabilità nel monastero, per quanto le situazioni che possono determinarsi siano penose, non sarà quindi mai da sfuggirsi, che varrà anzi a una più intensa partecipazione, mediante la pazienza, alla passione di Cristo. Noi stentiamo oggi a farci un'idea esatta dell'influsso sociale esercitato da questo vincolo di stabilità, ribadito come necessario a una convivenza ordinata a un fine per il conseguimento del quale gli ostacoli non si sfuggono, ma si superano; in un epoca però che assisteva a gigantesche migrazioni di popoli spinti dall'intento di sfruttare sempre nuove terre sottraendosi all'onere di un lavoro faticoso, e nella quale anche gli individui trovavano più facile il vagabondaggio ammantato di pietà o sostenuto dalla forza brutale, che non la fatica del piegarsi sulla terra e conquistarne il frutto, esso valse a ricomporre intorno ai monasteri saldi e operosi nuclei di popolazione che, per un complesso di interessi materiali se non sempre per una chiara cognizione di un valore più alto, partecipavano alla stabilità stessa della comunità monastica. Città e paesi senza numero devono le loro remote origini a questa irradiazione, capace di fermare uomini dall'istinto nomade, di stringerli in società stabile e bene ordinata, penetrandone lentamente, ma sicuramente, la vita di un fermento di idee, di opere, di sentimenti cristiani, e que- sta gente dovrà dire: « Si vive bene all'ombra del Pastorale! », nella compagine sociale che si viene ricostituendo dall'affratellarsi delle nuove stirpi. Ma la stabilità esteriore, locale, non è, per il monaco, se non la condizione per uno stato di stabilità interiore nella ricerca di Dio, col quale egli si impegna mediante la terza promessa, la «con- versione dei costumi », a vivere da monaco durante tutta la sua vita, secondo le esigenze che tale vocazione importa, come sono determinate nella Regola, come gli verranno suggerite dal Maestro interiore del quale egli deve vivere in ascolto e che lo stimolerà ininterrottamente verso l'alto.
La Regola non mira a nessuna specializzazione sia pure in vista di una attività benefica, sia essa caritativa, o missionaria, o culturale; essa intende formare l'uomo interiore, il santo, del quale Dio disporrà poi liberamente, trovandolo strumento adatto, secondo i disegni della sua Provvi- denza. Ed è questo il motivo per il quale, comunque si determini il campo d'azione di un figlio di san Benedetto, questa estrinsecazione del suo lavoro, per quanto appariscente, non incide sulla sua vera e unica fisionomia monastica, plasmata a quel complesso di elementi contenuti nella Regola e sufficienti a consumare la sua vocazione, fino alla santità. Il monachesimo diventa così, in mano della Chiesa, strumento potente di restaurazione reli- giosa e sociale, non perché a questo abbia direttamente pensato san Benedetto, ma perché egli tiene l'anima dei suoi figli fissa in Dio, nell'ardore di una carità che non esclude l'interesse per ogni forma di miseria umana, anzi tutte le abbraccia per redimerle ed elevarle. Nessuna rigidità per tutto ciò che è contingente. Figlio del suo secolo, il monaco ne assimi- lerà quanto vi può essere di buono, comprendendone a fondo le esigenze, senza negare la sua opera dove essa sia necessaria, con un adattamento costante, attraverso i tempi, e a seconda dei paesi dove la Provvidenza lo ha posto; ma intimamente, nella sua realtà più segreta e più vera, i suoi lineamenti rimangono immutati, e tanto più sarà feconda la sua vita, quanto più compiuta- mente tradurrà in sé i tratti della Regola; avvicinandosi all'ideale perfetto che il Santo ha voluto tracciare, esso trova la sua espressione nelle condizioni lineari che egli pone all'anima prima di ammetterla nella scuola del divino servizio: se veramente cerchi Dio, se abbia in cuore il bisogno ardente della lode di Dio, il segreto tormento di ridiventare puro attraverso l'obbedienza e l'umilia- zione. Per quest'anima la Regola santa sarà magistero di salvezza lungo « la via della vita », fino a quel regno eterno dove il Signore attende di manifestarsi ai suoi eletti; sarà guida ricca di sopran- naturale sapienza per tutti i pellegrini del cielo che compiono nel tempo il loro cammino di ritorno alla casa del Padre.
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Sommario
Per un maggior approfondimento del testo originale, gli abbiamo affiancato i seguenti titoli e sottotitoli, che qui vengono raccolti per darne una veduta d'insieme e servire da indice con rinvii.
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La Regola Santa
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