Testi per la vita monastica                                          Monachesimo - sezione II


scheda bio-bibliografica

Matiás Augé

Ritorno alle origini

lineamenti di spiritualità dell'antico monachesimo


Questo scritto è una rara e preziosa sintesi delle linee essenziali della spiritualità del monache- simo cosiddetto pre-benedettino: vengono sviluppati quegli elementi oggettivi fondamentali della spiritualità cristiana, che, vissuti in modo tutto particolare dai primi monaci, ne costitui- scono la loro particolare spiritualità.


Utile non solo per monaci e religiosi, ma anche per quanti, impegnati nel mondo, vogliono veramente cercare Dio e farne esperienza nel quotidiano  [ leggere almeno il Sommario].


Il testo è èdito dall' EDITRICE ROGATE, via dei Rogazionisti, 8 - 00182 Roma, form. tasc., pagg. 140

Tutti i diritti sono riservati per il testo:  © all'Autore e all'Editore

Questo testo on-line è senza le 215 note e senza bibliografia (che sono consultabili sull'edizione a stampa).


Dello stesso Autore cfr:  Lineamenti di storia del monachesimo,  Roma 1981; 

e, su questo nostro sito, il testo:    Anno liturgico e scelta vocazionale.


a cura dei monaci della Abbazia Nostra Signora della Trinità - Morfasso (PC) Italia 

 

 

sommario

 

INTRODUZIONE

 

I   -   CHE COSA S' INTENDE PER VITA SPIRITUALE

         1.  Ambiguità terminologica 

         2.  La vita spirituale secondo la Scrittura

         3.  Struttura della vita spirituale

 

II   -   LA RICERCA DI DIO

         1.  La ricerca dell'amore di Dio

         2.  La meraviglia di fronte al cosmo, opera dell'amore di Dio

         3.  Il servizio di Dio come espressione dell'amore totale

         4.  L'esperienza dell'amore di Dio

 

III   -   LA SEQUELA E L' imitazione di cristo

         1.  Crocifissi con Cristo

         2.  Partecipanti in tutto alla sorte di Cristo

         3.  La "vita apostolica"

 

IV   -   SOTTO L' AZIONE DELLO SPIRITO

         1.  Il monaco perfetto è un uomo "pieno"di Spirito Santo

         2.  La presenza e l'azione dello Spirito 

              sono particolarmente intense in coloro che hanno 

              un ruolo di guida o di governo: la "paternità spirituale''

         3.  Lo Spirito Santo si esprime attraverso 

              le parole della Scrittura e del padre carismatico

         4.  Lo Spirito Santo assiste il monaco 

              nella lotta contro i demoni

         5.  Lo Spirito Santo e la legge

         6.  I frutti dello Spirito

 

V   -   LA DIMENSIONE ECCLESIALE E SACRAMENTALE

         1.  I rapporti tra i monaci e la gerarchia

         2.  I monaci e la vita sacramentale

         3.  Progressiva scoperta e valorizzazione 

              della dimensione ecclesiale e sacrarnentale

 

VI  -  LA VIVA ATTESA ESCATOLOGICA

         1.  L' "estraneità" 

         2.  La "vita angelica" 

         3.  Il pensiero della morte

 

VII -  LA PREGHIERA, 

         CUORE DELLA SPIRITUALITà MONASTICA

         1.  Il precetto della preghiera incessante. 

         2.  Preghiera e Parola di Dio 

         3.  La "Lectio divina"

         4.  La salmodia

 

CONCLUSIONE

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introduzione

   

Studi recenti sulla spiritualità dell'antico monachesimo non mancano.   Le antiche fonti monastiche, oggi riscoperte, offrono al riguardo un materiale vario, abbondante e prezioso. Ma è appunto la ricchezza e la varietà di tale materiale a rendere difficile una visione sistematica e sintetica dei principali aspetti di questa spiritualità. Il più delle volte ci si accontenta di un elenco di temi che vengono studiati e proposti senza curarsi troppo della logica della trattazione e della gerarchia che gli argomenti in questione dovrebbero avere in una visione d'insieme dell'esperienza spirituale cristiana.

Fatta questa premessa, veniamo allo scopo di questo nostro piccolo saggio: esso intende tracciare le linee essenziali della spiritualità del monachesimo co

siddetto pre-benedettino, avendo cura non tanto di dire tutto - cosa d'altronde impossibile - quanto piuttosto di sviluppare quegli elementi oggettivi fondamentali della spiritualità cristiana, che, vissuti in modo tutto particolare e con qualche accentuazione - è chiara l'allusione all'ascesi - dai monaci, ne costituiscono la loro peculiare spiritualità. In questo lavoro ci guida quindi una preoccupazione di sistemazione e di sintesi che richiede una precisa metodologia nella scelta e nell'organizzazione del materiale. Il monachesimo primitivo ci si manifesta sotto forme diverse (anacoretiche e comunitarie) che esprimono delle spiritualità differenti. Crediamo però che sia possibile elaborare una sintesi non artificiosa che raccolga gli elementi essenziali comuni ad ambedue le tradizioni. Anzi questo metodo permette di valutare meglio i fenomeni di evoluzione e di superamento di talune posizioni.

Pur essendo coscienti che gli schemi precostituiti non sempre favoriscono una trattazione pienamente oggettiva  degli argomenti studiati, crediamo opportuno ordinare questa breve ricerca seguendo lo schema che sembra scaturire logicamente da una visione della spiritualità cristiana che abbia come punto di partenza e di costante riferimento la sorgente stessa in cui questa spiritualità nasce e da dove prende poi il suo sviluppo: Dio che si rivela nella storia per salvare l'uomo; salvezza realizzata da Cristo nella pienezza dei tempi, presente e raggiungibile dagli uomini, per la forza dello Spirito, nella Chiesa e soprattutto nei sacramenti della Chiesa, ma pienamente compiuta soltanto nella parusia del futuro giorno del Signore. Realtà salvifiche che vengono poi vissute dal cristiano attraverso la fede, la speranza e la carità esercitate incessantemente nella vita di preghiera.

Abbiamo intitolato il nostro lavoro: "Ritorno alle origini". Infatti, l'esperienza spirituale dell'antico monachesimo si presenta a noi Religiosi carica di genuina vitalità e capace di essere forza di provocazione nel nostro cammino di vita evangelica.

Matias Augé

 

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I. 

 

CHE COSA S'INTENDE PER VITA SPIRITUALE

 

 

1.  Ambiguità terminologica 

2.  La vita spirituale secondo la Scrittura

3.  Struttura della vita spirituale

 

Dopo quanto detto nell'Introduzione, ci sembra doveroso iniziare il nostro discorso con un primo capitolo dedicato a chiarire cosa si intenda, in prospettiva cristiana, per ''vita spirituale''. Infatti, la spiritualità dell'antico monachesimo è una concreta realizzazione della spiritualità cristiana. Dobbiamo quindi analizzarla alla luce di ciò che è la natura e la struttura dell'esperienza spirituale cristiana. I principi qui esposti vogliono essere una sintesi essenziale, minima, utile ad inquadrare i diversi aspetti della spiritualità monastica da noi studiati.

1.   Ambiguità terminologica

Accanto alla suddetta espressione "vita spirituale" ne incontriamo nella letteratura specializzata molte altre, che consideriamo sinonime - sebbene non lo siano sempre - e che sono spesso riferibili ad essa. Il loro uso è frequente come possiamo constatarlo per esempio negli stessi documenti ufficiali della Chiesa nei documenti del Concilio Vaticano II, e anche presso gli autori del settore.

Si parla di "devozione" o "pietà" - in tedesco molto usato: "Frömmigkeit"-, di "vita religiosa", "esperienza religiosa". Alcuni autori collocano sotto il nome di "teologia mistica" il complesso dello sviluppo spirituale; altri invece parlano di "teologia ascetica" per esprimere la medesima cosa. In tedesco e in italiano i termini ''Aszetik'' e "ascetica" sono ancora correntemente adoperati in senso globale. Oggi però si sono generalizzate - prima in francese e poi nelle altre lingue - le espressioni "teologia spirituale", "spiritualità", ''vita spirituale'', ''problemi spirituali", "movimenti spirituali",  ecc. Questa qualifica è stata accolta favorevolmente perché abbraccia bene l'intero ambito di ciò che tradizionalmente si chiamava ascetica e mistica, senza suggerire la presenza del noioso problema della limitazione di frontiere tra queste due dimensioni della vita cristiana, che non sono separabili in modo assoluto. E anche perché esprime con sufficiente chiarezza le operazioni e il fine d'ogni genuino ascetismo o misticismo essenzialmente incamminati alla perfezione spirituale dell'uomo.

Il termine "spirituale" può essere comunque equivoco. Occorre comprenderlo bene in riferimento ad esempio alla vita sacramentale di cui poi ci occupiamo. Essa - come spiega s. Tommaso nella Somma - ci offre esercizi corporali, il che potrebbe far pensare ad una eventuale incompatibilità tra vita spirituale e sacramento se spirituale va inteso come opposto a materiale, a corporeo. Opporre spirituale a materiale, cogliere il materiale - e il corporeo - come "opposto" e non "con", e non "insieme" nel senso profondo di una unità quale ci viene insegnata dall'antropologia biblica, conclude in una spiritualità disumana e non cristiana. La scelta del termine "spirituale" ha quindi un chiaro riferimento scritturistico, il quale diventa fondamentale per chiarire il concetto stesso di vita spirituale cristiana.

2.   La vita spirituale secondo la Scrittura

La lingua greca presenta una differenza tra la vita secondo la concezione vitalistico-naturale (zoê) e quella connotata da un'etica, cioè la condotta di vita (bios). È istruttivo che nel NT venga assunto proprio il concetto vitalistico e impiegato per indicare il dono e la comunione di Dio. Nel NT bios è poco attestato.

Il concetto fondamentale di vita è presente in tutti gli scritti del NT.  Paolo e Giovanni sono comunque i più rappresentativi.

La concezione di Paolo è influenzata dalla risurrezione di Gesù (cf 1 Cor 15, 4), dimostrazione di potenza divina di fronte alla morte (cf Rm 14, 9). Con la risurrezione, Cristo, nuovo Adamo, è l'iniziatore di una nuova vita dell'umanità (cf. Rm 5, 12ss). La vita dei cristiani non è tanto vita propria, quanto vita di Cristo: Cristo vive in essi (cf Gal 2, 20; Fil 1, 21), essi vivono la vita di Cristo (cf 2 Cor 4, 10). La vita di Cristo è per i credenti una derivazione della parola di vita (cf Fil 2, 16;    2 Tm 1, 10; Tt 1, 2s) e della potenza creatrice dello Spirito vivificante (cf Rm 8, 2.6.10s; 1 Cor 15, 45).

La nuova vita dei credenti (cf Rm 6, 4) non si rifugia nell'indifferenza e nell'ascesi; è piuttosto al servizio e in consonanza con il presente storico. È una vita vissuta per Dio (cf Rm 6, 10s) e per Cristo (cf Rm 14, 8; 2 Cor 15 ,5), alla quale si accompagna un agire e una condotta concreta (cf Gal 5, 25) testimoniati dalla sequela e dall'accettazione della croce di Cristo (cf 2 Cor 4, 9s). Vivere non per sé comporta in pari tempo vivere nell'amore per gli altri (cf. Rm 13, 8-10; 10, 1ss).

La nuova vita è già presente, ma non ancora pienamente realizzata (cf. Col 3, 3); è attuale, ma nello stesso tempo futura. La nuova vita non si esaurisce nel tempo storico, mira al superamento e alla vittoria dell'ultimo nemico, la morte, quindi alla vita eterna (cf 1 Cor 15,26.28; Rm 6,22; GaI 6,8).

Giovanni invece interpreta già il Cristo preesistente quale vita eterna in Dio e per l'uomo (cf. Gv 1, 4; 1 Gv 1, 1s), cioè forza divina dell'antica e nuova creazione. Il Figlio preesistente dell'eterno Padre è inviato nel mondo per dare all'uomo la vita con la parola e con la testimonianza personale (cf Gv 6, 33; 10, 10; 1 Gv 4, 9).

La vita che proviene da Dio è ricevuta nella fede (cf 1 Gv 5, 12) e si manifesta nell'amore (cf Gv 15, 9-17) e nella gioia (cf Gv 16, 20-24).

Giovanni considera la vita eterna nel presente unendola inscindibilmente alla parola, al comandamento e alla persona di Cristo (cf Gv 17, 34). Questa vita non conosce la morte: la vita da Dio comporta un « futuro eterno » (cf Gv 4, 14; 6, 27; 12, 25) e solo ai discepoli di Gesù è promessa la piena visione della gloria divina (cf Gv 17, 24).

Riassumendo, diremo che sia per Paolo che per Giovanni il cristiano è partecipe nella fede di una vita nuova derivata dallo Spirito di Cristo. Essa investe tutta quanta l'esistenza del credente ed è orientata verso il compimento escatologico. Da questa prima analisi del concetto biblico di vita ne ricaviamo un elemento fondamentale della vita spirituale, e cioè la sua globalità: la vita spirituale riguarda unitariamente ogni momento e ogni settore dell'esistenza del credente. Tale caratteristica viene poi confermata dall'analisi dei concetti biblici corpo-spirito.

Alla vita umana appartengono corpo e spirito. Nella Scrittura non abbiamo due elementi concorrenti secondo il dualismo greco; sono invece due affermazioni complementari della vita umana.

La Scrittura non s'interessa della natura statica dell'uomo e delle parti metafisiche che lo compongono. Essa invece lo prende in considerazione come un essere religioso che sta in diversi rapporti con Dio e con l'Universo. Se nella sua descrizione essa si serve delle parole ''carne'', ''corpo'', ''anima'', "spirito", ecc., in questione è sempre tutto l'uomo, considerato nei diversi aspetti della sua esistenza terrestre. La Scrittura prende in considerazione l'uomo solo come totalità. Tutte le funzioni "corporali" e "spirituali" sono attribuite all'uomo intero. La Scrittura non conosce una vita senza il corpo, che si contrappone come anima immortale al corpo materiale e corruttibile. L'uomo non ha un corpo, ma è corpo. La negazione ascetica, il deprezzamento gnostico della vita corporale e delle sue funzioni non hanno alcun riscontro nella tradizione biblica.

Di conseguenza, la vita spirituale secondo la Scrittura non è avulsa dal corporeo, ma è la potenza vivificante di tutta la vita del credente, psico-fisica, la forza creatrice che realizza l' uomo nuovo nel mondo. Paolo, che d'altronde non presenta mai una antropologia sistematica del tutto coerente, fa nella 1Ts 5,23 una divisione tripartita dell'uomo: « Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione e tutto quello che è vostro, spirito (pneuma), anima (psychê) e corpo (sôma) si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo ». In questa visione antropologica tricotomistica non vengono accoppiati anima e corpo, ma spirito, anima e corpo. Qui lo spirito designa il principio divino della nuova vita nel Cristo, o piuttosto la parte superiore dell'uomo. In questo contesto l'anima è la vita, cioè la vitalità, quella parte dell'uomo che è volontà e sentimento. Similmente Paolo contrappone all'uomo psychikós, l'uomo pneumatikós, l'uomo illuminato dallo Spirito di Dio (cf. 1 Cor 2, 14-15): l'uomo naturale in opposizione all'uomo spirituale. Qui il suddetto spirito - contrariamente a 1 Ts 5, 23 - è Spirito di Dio, non una forza superiore di spirito, che del resto è già propria dell'uomo naturale. In questo contesto di contrapposizione a spirito, l'anima non indica una categoria antropologica, ma un altro modo di esistenza. Il dono dello Spirito divino accordato al cristiano immette l'uomo tutto, corpo e anima, in una nuova vita. L'uomo "spirituale" è colui che sotto la guida dello Spirito Santo sviluppa soprattutto il dono della carità profuso in lui dallo Spirito di Dio. La vita spirituale cristiana è la vita dell'uomo secondo lo "spirito", in opposizione alla vita secondo la "carne" (cf. Gal 5, 17). L'uomo è "carne" (sarx), cioè creatura e non Creatore. In questo non c'è niente di male! La debolezza e la fragilità appartengono alla natura di ogni cosa creata, e l'uomo si ricorda con gioiosa riconoscenza del dono di questa vita fragile. Ma se egli dimentica che si tratta di un dono, e se della sua creaturalità fa l'unica regola della propria esistenza, escludendo Dio come norma morale, allora egli diventa "carne" o meglio è affidato alle forze precarie della "carne".

L'uomo sente in sé una profonda scissione. In lui ci sono diverse aspirazioni e tendenze, buone e cattive, "spirituali" e "carnali", che lottano per conquistarlo. Non si tratta però della lotta o dell'opposizione tra le parti dell'uomo, bensì dell'essere umano stesso in quanto pretende far leva sulle proprie possibilità opponendosi a quelle di Dio. La lotta quindi che si stabilisce nel credente tra la "carne" e lo ''spirito'' non coincide con la lotta tra il corpo e l'anima. Indica invece l'opposizione tra ciò che vi è di tendenza al peccato nell'uomo concreto ("carne") e il principio di vita divina e di tendenza a Dio che pervade l'uomo stesso ("spirito"). Non a caso, Paolo inserisce tra le « opere della carne » l'idolatria, l'inimicizia, l'ira e cose simili (cf Gal 5, 19-2 1). Se egli parla delle « concupiscenze della carne », non è in questione il corpo, ma l'intero uomo. La nuova vita nello Spirito comporta una rinuncia per principio ad una vita che faccia affidamento sulle possibilità umane di autogiustificazione dell'individuo.

Possiamo quindi definire la spiritualità cristiana come « un itinerario di vita nello Spirito ». La vita del credente è una vita secondo lo Spirito se è fedele al principio di vita divina ricevuto. Coloro che vivono secondo la carne, cercano tutto ciò che piace alla carne. Coloro invece che vivono secondo lo Spirito, tendono alle cose dello Spinto, infatti, le tendenze della carne portano alla morte; le tendenze invece dello Spirito conducono alla vita e alla pace. Perché l'uomo carnale, l'uomo in cui non abita lo Spirito, è nemico di Dio, in quanto le tendenze della carne sono ostili a Dio. Quindi tra la carne sottomessa al peccato, e lo Spirito ispiratore di santità, non c'è conciliazione. La spiritualità cristiana richiede dunque una vita secondo lo Spirito in lotta con le forze della carne. E perciò la vita spirituale del cristiano porta in sé un germe di attività e di dinamicità, che lo conduce ad una piena e perfetta possessione della vita divina.

 

3.   La struttura della vita spirituale

Dopo quanto abbiamo detto, è evidente che la spiritualità cristiana in quanto tale ha le sue radici nella rivelazione di Dio all'uomo. D'altra parte solo lo Spirito Santo può svelare il piano di Dio poiché Egli è interiore allo stesso Dio (cf. 1 Cor 2, 9-11). Quando lo Spirito viene in noi, partecipa i suoi frutti (cf. Gal 5, 22) e ci permette di penetrare nella pienezza della rivelazione di Gesù Cristo (cf. Gv 16, l3ss). In noi. lo Spirito è fecondità, santità, "vita spirituale"!

Le nostre relazioni col Dio personale e trascendente dipendono da un fatto storico: dal fatto che Dio ci si è rivelato. La nostra vita spirituale è suscitata e formata per il fatto che Dio ci ha parlato e la Sua Parola si è fatta carne ed ha preso dimora in mezzo a noi. In altre parole, la vita spirituale cristiana non parte da una cena concezione su Dio. ma dalla fede, la fede propriamente cristiana, e cioè l'assenso che diamo alla Parola di Dio, Parola che ci è dato conoscere e che ci è stata data in Cristo Gesù.

La prospettiva in cui ci si presenta la vita spirituale cristiana è altamente vitale ed essenziale. Essa è fondata su una relazione di alleanza con Dio per mediazione di Cristo nei seno della Chiesa: azione di Dio verso l'uomo; risposta continua dell'uomo all'azione divina. Perciò la vita spirituale è sostanzialmente un'esperienza di comunione con Dio fondata sul dono dello Spirito Santo. Le grandi linee di struttura dell'ambito in cui si colloca questa esperienza sono le seguenti:

L'esperienza religiosa cristiana si colloca al livello di radicalità proprio dell'esperienza etico-religiosa: dove cioè la tensione religiosa verso la divinità si fa inseparabile, anzi si sintetizza con la tensione etica. Si determina quindi nel soggetto una sintesi vitale per cui la tensione religiosa alla comunione con la divinità si verifica nell'interpretazione religiosa dell'imperativo etico o della ricerca dei valori morali.

L'esperienza cristiana, tuttavia, non è semplicemente dell'ordine etico-religioso: essa è fondata sulla risposta di fede a Dio che si rivela.   Nell'esperienza religiosa cristiana. la tensione etico-religiosa si precisa come obbedienza ad una rivelazione; e nell'obbedienza alla rivelazione si coglie e si realizza la possibilità di comunione. 

Nell'esperienza religiosa cristiana tutte ciò si precisa per un fondamentale e insostituibile riferimento a Gesù di Nazaret: in quanto strutturalmente, costitutivamente, avvenimento ultimo, decisivo di rivelazione. L'esperienza cristiana è l'esperienza di un credente in Cristo, deve cioè il riferimento a Gesù Cristo con la creatività propria del Suo Spirito, non dunque materialmente, come se dovesse riferirsi ad un modello, ad un codice inerte.

Infine, questa esperienza si presenta con una tipica accentuazione ecclesiologica, cioè, viene vissuta in riferimento ad una comunità visibile e gerarchica, la comunità della Chiesa. L'esperienza personale in Cristo e nello Spirito si situa nel cuore della comunità ecclesiale, perché essa appare al cristiano come il luogo di comunione offerta e realizzata. Pertanto non sarebbe giusto pensare che l'autentica esperienza cristiana esige il superamento del riferimento alla comunità ecclesiale, a vantaggio di una interiorità e profondità del soggetto. Paradossalmente invece l'interiorità e profondità della comunione in Cristo si sperimentano nei medesimo movimento nel quale si accetta e su vive il ''rischio" di esporsi alla "mediazione" umana della Chiesa.

Riassumendo e concretizzando, diremo che qualsiasi modo di concepire e di realizzare l'ideale di vita cristiana, cioè, qualsiasi spiritualità cristiana deve comprendere i seguenti elementi: deve essere anzitutto "teocentrica", perché è Dio che prende l'iniziativa della nostra salvezza mettendo in moto la storia sacra, ed è a Lui che l'uomo redento tende; la spiritualità dovrà essere poi "cristologica" e "pneumatica", perché lo scopo del Padre nel portare avanti la storia è di comuni- care la Sua vita intima alle creature, e ciò si realizza nella persona di Gesù Cristo in modo compiuto definitivo (cf. Ef 1, 3-11), il quale è costituito l'unico Mediatore tra Dio e gli uomini; poi, per volontà di Cristo, la Sua opera salvifica si prolunga e viene partecipata dagli individui nel tempo e nello spazio, ad opera dello Spirito e in seno alla Chiesa per mezzo soprattutto dei sacramenti della fede. Quindi ogni autentica spiritualità cristiana deve essere anche "ecclesiale" e "sacramentale". Infine, dobbiamo aggiungere la prospettiva "escatologica" in cui è pienamente consumata ogni esperienza cristiana. Tutti questi elementi costituiscono ciò che possiamo chiamare le note oggettive della spiritualità cristiana, le quali sono necessarie per integrare il concetto stesso di spiritualità cristiana.

Alle suddette note oggettive, bisogna aggiungere altri elementi di carattere prevalentemente soggettivo, che costituiscono ciò che noi chiamiamo le note soggettive anch'esse comuni a qualsiasi tipo di spiritualità cristiana. Tali elementi suppongono un'attività individuale ordinata alla perfezione dello stesso individuo, e sono indispensabili per raggiungere la perfezione della vita spirituale. Questi elementi sono, in generale, la "pratica delle virtù", specie di quelle teologali.

Una tale impostazione ci aiuta a capire che gli elementi caratterizzanti le diverse "spiritualità'' sono anzitutto elementi strutturanti ogni esperienza Cristiana come tale, pur non assumendo nelle diverse "strutture" concrete il medesimo significato catalizzatore o sintetico. Poi una tale concezione della vita spirituale cristiana è valida per ogni epoca essendo al tempo stesso particolarmente vicina alla sensibilità dell'uomo d'oggi, alla sua precisa mentalità. L'uomo moderno, credente o meno, è un uomo insoddisfatto che cerca dei contenuti più consistenti di vita. Le ricette di tipo moralistico o ascetico senza contenuti autentici, lo lasciano insoddisfatto. Egli ha una ripulsa profonda nei confronti di certe pratiche meccaniche o di routine. Una vita spirituale che ha come cardine una relazione personale col Dio vivo e personale della storia della salvezza, storia sempre in atto, di cui l'uomo ne è diretto e responsabile protagonista, può venir incontro alle attese degli uomini del nostro tempo. Si tratta sempre dell'augurato ritorno alle origini.

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II. 

 

LA RICERCA DI DIO

 

 

1.  La ricerca dell'amore di Dio

2.  La meraviglia di fronte al cosmo, opera dell'amore di Dio

3.  Il servizio di Dio come espressione dell'amore totale

4.  L'esperienza dell'amore di Dio

 

La Bibbia è la rivelazione di Dio-Amore, l'epifania dell'Amore eterno, increato, che vuol far partecipi gli uomini della Sua infinita felicità. La storia della spiritualità è la Storia degli uomini in cerca dell'Amore di Dio, e dei mezzi da essi adoperati per raggiungere tale scopo.

Il Concilio Vaticano II afferma che il Religioso « si dona totalmente a Dio sommamente amato, così da essere con nuovo e speciale titolo destinato al servizio e all'onore di Dio ».

La spiritualità monastica già nel suo nascere è caratterizzata da un profondo senso teo-centrico: il solo scopo della vita del monaco è amare Dio; nella solitudine egli cerca l'unione con Dio. Le penitenze, frequentemente spettacolari, dei primi eremiti hanno talvolta oscurato agli occhi di molti osservatori i veri e più profondi motivi della loro spiritualità. Forse, come afferma G.M.Colombás, le prime fonti monastiche che sono un po' restie ad esternare le manifestazioni di tenero amore verso Dio (1'umiltà e il pudore degli antichi asceti erano contrari a questa specie di effusioni). Comunque, i dati in nostro possesso sono sufficienti per comprendere che Dio occupa il posto centrale nella spiritualità di questi monaci.

 

1.   La ricerca dell'amore di Dio

Teodoreto di Ciro, monaco cenobita e poi vescovo, ci ha lasciato un prezioso documento storico sul rigido ascetismo della Siria e ha dato a questa Storia dei monaci il titolo di Storia dell'amore di Dio (Storia philothea) o Vita ascetica. Così facendo, Teodoreto ha sinterizzato la vita di una trentina di asceti incentrandola sull'amore di Dio. Lo stesso Teodoreto spiega il titolo della sua Storia philothea nel Trattato sulla divina carità con cui chiude la suddetta Storia: l'autentico virtuoso o filosofo è il vero amante di Dio o philotheo,  perché Dio è "sapienza'' (sophia).

È eloquente la narrazione della vocazione di Teodoro, il grande discepolo di Pacomio, alla vita monastica. Un giorno Teodoro, ancora ragazzo di 14 anni, tornando da scuola e vedendo la famiglia in gran festa, fu colpito da un pensiero improvviso: « Se ti abitui a questi cibi e a questi vini, non vedrai mai la vita eterna di Dio?  Il giovane Teodoro si ritirò allora in un angolo tranquillo della casa, si prostrò a terra e pianse dicendo: « Signor mio Gesù Cristo, tu sai che non desidero nulla, ma solo te e la tua grande misericordia che amo ». Il giorno seguente lasciò la sua casa e la sua città e si recò in un monastero. Similmente nella Storia Lausiaca leggiamo che Ammonio, insieme a tre altri fratelli e a due sorelle, « giunti al culmine dell'amore di Dio, fecero del deserto la loro dimora ». Le testimonianze che mettono all' inizio della vocazione monastica l'amore di Dio potrebbero moltiplicarsi.

L'amore di Dio è per gli antichi monaci l'ambito vitale dell'esistenza cristiana. Per essi la vita cristiana si realizza nella comprensione e nella esperienza dell'amore di Dio. Il solo ostacolo a tale ideale è il peccato. Il mondo poi, così come ora si presenta agli occhi degli uomini (non più come pura e semplice creazione di Dio, ma come mondo caduto e fallito a causa del peccato), è una forza nemica che ostacola l'espandersi dell'amore di Dio e quindi l'esperienza di questo amore nella vita dell'uomo. Conseguentemente1 l'amore di Dio è in netta contraddizione con l'amore del mondo.

L'uomo caduto che vive nel mondo si lascia sedurre dai richiami mondani. Perciò, secondo la spiritualità monastica, se si vuole conservare l'amore di Dio, è necessario distaccarsi da ogni affezione mondana e rinnegare se stessi. In questo contesto, l'ascesi è vista come un mezzo per poter vivere nell'amore di Dio; l'ascesi è anzi necessaria per realizzare l'esistenza cristiana nell'Amore di Dio. L'ascesi, che è il contrario della concupiscenza, dà spazio all'amore di Dio, conduce a questo amore e lo sviluppa. Ci raccontano i Detti dei padri del deserto che Ammonio di Nitria recandosi dal suo amico il grande s. Antonio l'eremita, gli disse: «Ecco la mia vita è più dura della tua, come sei più rinomato di me? ». Antonio gli rispose: « Perché amo il Signore più di te ». Di fronte al pericolo di assolutizzare il valore delle pratiche ascetiche, è significativo questo detto che subordina l'ascesi all'amore di Dio.

Per i primi monaci l'ascesi divenne lo strumento essenziale per raggiungere il perfetto amore di Dio. Il non-uso del mondo nel suo significato radicale e totale distingue l'ascesi monastica. I monaci vanno via dal mondo per poter amare meglio e più profondamente Dio. Specificamente monastici sono soltanto i mezzi adoperati per la realizzazione di questo ideale. Anzi questi mezzi non sono propriamente nuovi: preparati, indicati e sviluppati dalla tradizione ascetica della Chiesa, vengono concretizzati in una forma di vita monastica. Dedicare la vita all'amore di Dio non è una novità per i monaci. Essi sanno bene di seguire le tracce di molti altri che prima di loro hanno cercato e amato Dio. I monaci si organizzano in comunità di "amici di Dio". Loro esemplari sono Abramo, gli Apostoli, i Martiri... Clemente Alessandrino, riprendendo il testo di Gc 2,23 dà il titolo di "amico di Dio" ad Abramo, considerato dai monaci modello ed esemplare, perché lasciò il suo paese per volere di Dio.

 

2.   La meraviglia di fronte al cosmo, opera dell'amore di Dio

I grandi Padri dell'antico monachesimo hanno alimentato anche una spiritualità della ricerca di Dio fondata sulla meraviglia di fronte al mondo creato. Il cosmo è il frutto dell'amore di Dio verso gli uomini: Dio ha creato il mondo perché voleva bene agli uomini. Non è quindi difficile scoprire i segni dell'amore di Dio profusi nella creazione: « Se guardi il cielo - dice la Scrittura - il suo ordine ti sarà guida verso la fede. Esso infatti rivela l'Artefice. Se guardi poi le bellezze della terra, queste ti aiuteranno ad aumentare la tua fede... La sapienza del Creatore traspare dalle cose più piccole. È lui che ha dispiegato i cieli e steso l'immensità dei mari, ed è lui che ha reso cavo l'esilissimo aculeo delle api. Tutte le realtà del mondo sono un'occasione di fede, non di incredulità ».

Le cose umane, anche le più umili, si trasfigurano nella luce di Dio e acquistano un valore dossologico: « Tutto questo mondo è come un libro scritto che ci fornisce la materia per glorificare Dio ».

L'espressività e la capacità interpretativa della voce laudativa del creato è correlativa al grado di contemplazione del credente. In Oriente, al seguito di Origene, i Padri monastici elaborano un vero e proprio metodo dì spiritualità, in cui la meraviglia costituisce il primo gradino della contemplazione. La contemplazione (naturale) è l'attività spirituale che permette di cogliere nella creatura l'idea del creatore, la traccia, la ragione profonda dell'essere, il rapporto tra essa e l'archetipo divino. Ha sviluppato questo concetto in particolare s. Basilio, che asserisce venire dallo Spirito di Dio il poter contemplare la bellezza soprasensibile del cosmo: « La vera bellezza è quella che sorpassa ogni intelligenza e potenza umana; solo lo Spirito è capace di contemplarla. I discepoli ai quali Egli aveva insegnato in privato le parabole hanno conosciuto questa vera bellezza. Come Pietro e i figli del tuono hanno contemplato sul monte questa bellezza folgorante che sorpassa lo splendore del sole. Essi furono giudicati degni di percepire con i loro occhi l'inizio del suo avvento glorioso ».

 

3.   Il Servizio di Dio come espressione dell'amore totale

Sant'Atanasio nella Vita di Antonio stabilisce l'identità tra il farsi monaco e il consacrarsi a Dio: «... da quando (Antonio) diventò eremita e si consacrò a Dio ». In un apoftegma attribuito alla leggendaria madre Teodora, si insegna che il monaco deve vivere per Dio soltanto. La stessa idea, in Occidente, viene ripresa da Eucherio: scopo della vita del monaco è darsi a Dio, e da Giovanni Cassiano: il monaco è chiamato al culto di Dio. Una delle espressioni più frequenti per indicare questa donazione del monaco a Dio è stata quella del "servizio divino": i monaci sono coloro che « amano la virtù e il servizio di Dio » e, quindi, il monachesimo è un «servizio di Dio ». Si sa anche che la denominazione "servo di Dio" è stata una delle più attribuite dall'antichità al monaco.

Come avverte J.M. Lozano (La sequela di Cristo. Teologia storico-sistematica della vita religiosa, Àncora, Milano 1981), originariamente l'espressione concreta "serve e servi di Dio" ha preceduto quella astratta che qualifica la vita monastica "divino servizio". Ciò significa che la gente vedeva i monaci vincolati in modo particolare a Dio. L'essenziale in questa espressione è che esprime il senso di rapporto con Dio. I monaci vennero chiamati servi di Dio perché il rapporto con Dio appare nella loro vita in maniera visibile e caratterizzante.

 

4.   L'esperienza dell'amore di Dio

Un apoftegma attribuito ad Antonio afferma che in lui l'amore di Dio ha cacciato il timore. È una affermazione unica poiché nei Detti dei padri del deserto il timore di Dio è abitualmente inteso nel senso biblico, e cioè come una disposizione assolutamente necessaria, indispensabile all'uomo come il respiro. Così anche per Basilio, l'amore supera il timore, ma non lo elimina. La tensione fra amore e timore in cui si trova il cristiano, non lo autorizza comunque ad eliminare il timore di Dio che è prodotto dall'attesa del giudizio, considerandolo semplicemente come un influsso della sinagoga o un residuo del pensiero giudaico.

I santi monaci parlano dell'amore di Dio come di una esperienza profonda, mistica. Le immagini che usano per esprimere questa loro esperienza spirituale sono molto eloquenti. L'amore di Dio è come una "ferita nel cuore" (usano in greco i verbi: nússein, katanússein, titróskein) Parlando di Pacomio, la vita greca altera afferma che il Santo fondatore del cenobitismo, dopo una visione celeste avuta nel sonno, « fu ancora più ferito (trotheís) dall'amore di Dio e profondamente scosso (katanugeís) e desiderò farsi monaco ».

L'amore di Dio, che così profondamente scuote il cuore del monaco, viene contemplato specialmente nel mistero del Verbo incarnato per mezzo del quale ci giunge la salvezza e il dono dello Spirito. Teodoreto di Ciro parla dei « dardi d'amore » con cui i monaci sono stati feriti quando consideravano i torrenti della divina misericordia e soprattutto la morte di Cristo innocente. Sant'Atanasio racconta che Antonio l'eremita, dopo aver trascorso quasi vent'anni in una fortificazione desertica, « parlando e ricordando i beni futuri e l'amore che Dio ci ha manifestato, in quanto "non risparmiò il proprio figlio ma lo consegnò per noi tutti", persuase molti a scegliere la vita solitaria. Nella sintesi della spiritualità di Antonio che si può ricavare dalle sue lettere autentiche, le suddette idee vengono riprese e collocate nella cornice della storia sacra. Questa storia comincia con una tragica caduta, le cui conseguenze. si ripercuotono attraverso i secoli su ciascuno di noi. Ma ecco che Dio, di cui Antonio loda con accenti di entusiasmo l'immensa e incomprensibile bontà e l'infinito amore per gli uomini, decide di "visitare" la sua creatura prediletta. Tutta la storia sacra è intessuta di un succedersi ininterrotto di "visite" di Dio all'uomo. Momento culminante delle "visite" divine è il mistero dell'Incarnazione. Di fronte a tale ineffabile "visita", l'uomo ha l'obbligo d'impegnarsi con tutte le sue energie per conseguire la santità perfetta, affinché la venuta del Salvatore non sia per lui motivo di condanna. E qui trovano posto nella mente di Antonio i temi cardinali, il dinamismo vivo e fiducioso della sua dottrina ascetica (cfr. M:Augé, Lineamenti di storia dell'antico monachesimo, Roma 1981).

Giovanni di Licopoli afferma: « Colui che è stato fatto degno di una conoscenza parziale di Dio (quella totale non la può ricevere nessuno), ottiene anche la conoscenza di tutte le altre cose, vede i misteri divini che Dio stesso gli mostra, prevede il futuro, contempla rivelazioni come i santi, compie miracoli, diventa amico di Dio e viene esaudito da Dio in ogni sua richiesta ». La conoscenza (gnôsis) di Dio di cui parla il testo designa la conoscenza amorosa e sperimentale di Dio, che non equivale alla conoscenza intellettuale pura e semplice. Questa conoscenza è il vertice della virtù, cioè la piena esperienza mistica. Pafnuzio, dopo aver ascoltato la vita santa che conduceva un consigliere comunale, gli disse: « Ti manca solo una cosa, il vertice delle virtù, la sapientissima conoscenza di Dio ».

Ciò che propriamente costituisce l'uomo, secondo la corrente platonica e plotiniana - che era quella dominante tra i monaci dotti - è l'intelletto. Si parte dalla visione tripartita dell'uomo: corpo, anima e intelletto. Evagrio Pontico scrive: « Rinnega la carne e l'anima, e vive secondo l'intelligenza ». Progredire per il cammino dell'intelligenza o della gnôsis, è indirizzarsi attraverso la apátheia verso la contemplazione della natura (theoría physiké), e attraverso  di essa allo stato primitivo o intellettuale puro, dove si trova la vera vita, la vita immortale dell'intelligenza, e dove si contempla Dio nel mirabile specchio del nous.

Il grado più elevato della contemplazione è chiamato da Evagrio "gnôsis della Santissima Trinità", "teologia" e "preghiera vera" o "preghiera pura". Quando scrive: « Se sei teologo, pregherai veramente; e se preghi veramente, sei teologo », non si riferisce Evagrio al dotto che specula sulla divinità, ma al mistico contemplativo che è arrivato ai più alti gradi della contemplazione di Dio.

Il monaco, affascinato dalla bellezza dell'amore di Dio, non aspira ad altro che a possedere questo amore. Spinto da così forte desiderio, si ritira in solitudine. Macario l'Egiziano ha comparato l'amore del monaco verso Dio con l'amore sponsale: « Se l'amore naturale allontana da qualsiasi altro amore,  quanto più coloro che sono stati degni di partecipare dello Spirito celeste e diletto, saranno liberi da ogni amore mondano... . Perciò l'amore totale di Dio trova una sua adeguata espressione nell'abbandono definitivo del mondo. Per Eucherio, « il deserto è un tempio incircoscritto di Dio ». Nella Historia Monachorum di Rufino ci si racconta di Giovanni l'eremita che « quanto più si allontanava dalle cose umane, tanto più Dio si avvicinava a lui ». San Basilio afferma che colui che ama Dio si allontana da ogni cosa per unirsi con Dio.

Concludendo, possiamo dire che la vocazione monastica già nel suo nascere è fortemente stimolata dall'amore di Dio. La consapevolezza di questo amore spinge i monaci a consacrarsi al servizio di Dio abbandonando il mondo il quale, a causa del peccato, è una forza nemica che ostacola l'esperienza dell'amore divino. Nel contesto sempre del peccato di cui l'uomo ha fatto amara esperienza, l'ascesi è uno strumento necessario per crescere nell'amore di Dio. I Padri dell'antico monachesimo hanno sviluppato anche una spiritualità della ricerca di Dio fondata sulla meraviglia di fronte al mondo creato, opera e dono dell'amore di Dio. L'esperienza dell'amore di Dio è infine una realtà profonda, mistica che trascina il servo di Dio ad una vita solitaria di totale e definitiva donazione a Dio, donazione che ricorda quella sponsale. Con il passar del tempo questo teocentrismo si arricchirà di altri elementi riscoprendo per esempio l'intimo rapporto esistente tra l'amore di Dio e quello dei fratelli.

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III. 

 

LA SEQUELA E L'IMITAZIONE Dl CRISTO

 

 

1.  Crocifissi con Cristo

2.  Partecipanti in tutto alla sorte di Cristo

3.  La "vita apostolica"

 

« Seguire » nei testi biblici neotestamentari è usato in diverse accezioni. Esprime il rapporto differenziato sorto tra Gesù Cristo e gli uomini che si unirono a lui, e si riferisce sia a coloro che, nel tempo del ministero pubblico, lo seguirono più o meno costantemente, sia a coloro che credettero in lui per la predicazione degli Apostoli dopo la Pentecoste e sia alla schiera innumerevole di coloro che vivono nella definitiva e piena unione con lui in Dio (cf. Gv 13, 36b).

Il Bacht, che ha studiato la cristologia delle fonti pacomiane afferma che nel retroterra di tale cristologia c'è il motivo dell'imitazione e della sequela del Cristo. Nella lettera 5ª di Pacomio leggiamo: « lavoriamo, portando i pesi gli uni degli altri (cf. Gal 6, 1), come Cristo ha preso le nostre infermità (cf. Mt 8,17) sul suo corpo, e non si è sottratto. Se Cristo è nostro maestro, noi siamo i suoi imitatori e portiamo il suo obbrobrio ». Diventate monaco non significa altro per Pacomio che essere un perfetto discepolo di Cristo. Come ogni credente, il monaco non conosce altra legge che questa: « seguire in ogni cosa il Signore ».

Il tema della sequela e quello dell'imitazione non combaciano esattamente, soprattutto sul piano del vocabolario. Il primo implica un cammino esteriore, un linguaggio fatto di gesti e di decisioni, che esprimono chiaramente che uno cammina sulle orme di Gesù e che si aggrega pubblicamente al gruppo dei suoi discepoli. Il secondo richiama lo sforzo morale e mistico per riprodurre i tratti di Gesù, modello-esempio a cui dopo il battesimo lo Spirito Santo non cessa di far comunicare il credente. Di fatto però, nelle antiche fonti monastiche, ambedue i temi si corrispondono e complementano a vicenda.

 

1.   Crocifissi con Cristo

All'origine della vita monastica c'è la chiamata a una sequela esplicita e generosa del Cristo nel suo annientamento e nella sua passione. Nella spiritualità dell'antico monachesimo il tema della sequela-partecipazione alla vita di Cristo e, in particolare, di Cristo crocifisso, è centrale. Per i monaci il cammino che conduce alla Vita è quello angusto della Croce. Tutta l'intera vita del monaco viene considerata, in sostanza, come una comunione con Cristo nella sofferenza per raggiungere poi la comunione con lui nella vita: « la loro rinuncia non è altro che l'impronta della croce e della morte in se stessi », afferma Cassiano. La vita dei monaci è considerata una vita di « crocifissi ». Di Pacomio si dice che « sempre portava nella sua carne la croce di Cristo ». Da parte sua, Basilio asserisce che i monaci « portano nel corpo la morte di Gesù e, prendendo la propria croce, seguono Dio ». E nelle Regole ampie afferma che « la regola del cristianesimo consiste nell'imitazione di Cristo, nella misura (en to métro) dell'incarnazione ». La misura e la regola del cristianesimo è che ci si conformi pienamente all'incarnazione, cioè al mistero del Verbo per noi umiliato e fatto ubbidiente fino alla morte; che si diventi, in altre parole, così perfetti imitatori del Cristo da continuarne in noi il suo mistero personale.

Il desiderio di donarsi a Cristo si realizza nella ubbidienza e nella rinuncia di di sé. Ideale dei monaci era vivere non più secondo i propri desideri ed egoismi, ma secondo la volontà di Dio. Nei Detti dei padri del deserto, leggiamo che Iperecchio diceva: « la gloria del monaco è la ubbidienza. Chi la possiede sarà esaudito da Dio, e con franchezza starà di fronte al Crocifisso, perché il Signore crocifisso si fece ubbidiente fino alla morte ». Da parte sua, Cassiano afferma: « Così come colui che è crocifisso non ha più la possibilità di muovere le sue membra e di voltarsi verso dove vuole, così noi dobbiamo regolare la nostra volontà ed i nostri desideri non più secondo ciò che ci piace, ma secondo la legge del Signore, lì dove essa ci ha collocati ».

L'atteggiamento di rinuncia accresceva nei santi monaci il desiderio dei sacrifici, dei dolori e delle afflizioni. Essi infatti credevano che quanto più erano crocifissi con Cristo, tanto più sperimentavano la realtà dell'amore di Dio che, come dicevamo prima, era il grande scopo della vita del monaco. I monaci credevano che questo amore, che Cristo mostrò intensamente nella sua passione essi potevano sperimentarlo più profondamente quando soffrivano con lui. Volendo i monaci prendere su di sé la croce di Cristo e con essa abbracciare la realtà del suo amore, si sentivano più fortemente spinti a soffrire con lui (com-patire). Essi non volevano lasciare solo il Cristo nelle sue sofferenze. Quando nel giorno di Pasqua, Pacomio preparò per il suo maestro Palamone alcune erbe condite con olio,  « questi dandosi colpi sulla fronte disse piangendo: "il Signore è stato crocifisso, ed io mangio cibi conditi con olio?" », e rifiutò il cibo offertogli.

 

2.   Partecipanti in tutto alla sorte di Cristo

Come rileva la Mortari (Vita e detti dei padri del deserto, Città Nuova, Roma 1975), nella spiritualità dei padri del deserto non c'è solo la scelta primaria e globale di essere conformi al Cristo nella sua sofferenza, e la convinzione che tale conformità si possa realizzare in grado massimo in una vita di sacrificio e di rinuncia; c'è anche una corrispondenza puntuale di contesti - talora evidente, tal 'altra più sottile - tra gli episodi evangelici e gli episodi della vita degli anziani asceti. Non a caso riguardo ai fratelli che chiedono se c'è salvezza in base alle loro opere, il santo asceta Pambone ripete il gesto compiuto una volta da Gesù, scrivendo in terra le loro azioni, come il Signore fece con i farisei, che gli avevano condotto la donna colta in adulterio. Del padre Daniele si dice che passò incolume attraverso dei barbari, come il Signore quando volevano ucciderlo, ma non era ancora giunta la sua ora (cf. Lc 4, 30). Come il Cristo « fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo » (Mt 4,1), così il monaco che si ritira nel deserto sa che sarà tormentato da un combattimento diretto e serrato con le potenze maligne... C'è quindi la consapevolezza che la sequela del Cristo conduce ad una intima partecipazione alla sorte stessa del Signore.

La partecipazione del monaco al dolore di Cristo Gesù si riallaccia al tema del lutto per i propri peccati, causa della morte in croce di Cristo: « il monaco - dice Poemen - deve avere sempre in sé il lutto per i suoi peccati. E san Giovanni Crisostomo rimprovera il monaco dissipato dicendo: « Tu ridi senza misura, e sei comunque un monaco? Tu che sei un crocifisso, uno che è in lutto? Dove hai visto che Cristo abbia fatto simile cosa? ». Questa spiritualità del lutto ha però nei padri del deserto una dimensione per così dire pasquale: questo lutto viene detto dai padri Charmopoiós, cioè operatore di gioia. Per esprimere la compresenza - che sfugge ai canoni razionali - della « Tristezza secondo Dio » (cf. 2 Cor 7, 10) e della gioia spirituale, i padri hanno coniato un termine intraducibile, la Charmolúpe. Giovanni Climaco scrive: « Chi cammina continuamente nel lutto secondo Dio, non cessa di far festa ogni giorno ». A scanso di equivoci, bisogna mettere in luce rutti gli elementi che integrano i diversi temi della spiritualità dell'antico monachesimo, troppo spesso giudicata unilateralmente.

Come dicevamo all'inizio, la sequela di Cristo è alimentata dalla certezza che attraverso la partecipazione alla croce di Gesù, il monaco ha parte anche alla Sua vita divina. La lotta, la fatica e le difficoltà sono il cammino naturale che conduce alla vita. « La croce è il principio della nostra vita », afferma Orsiesi, e poi aggiunge: « Dobbiamo sapere che senza le tribolazioni e le angosce, nessuno otterrà la vittoria».

Se in questo mondo sono possibili la pace e la gioia, si tratta sempre solo della pace e della gioia che derivano dalla speranza del Regno futuro e che ora sono raggiungibili soltanto attraverso l'accettazione della croce e della fatica. In fondo a questa concezione della vita ascetica c'è una certa relazione di opposizione tra il mondo attuale e il mondo futuro, che i monaci vedono come contrapposizione tra mondo o vita mondana e vita nuova in Cristo Gesù: allearsi con il mondo è un impedimento a compiere un autentica scelta per Cristo: « Rinunciare mondo dice Orsiesi - perché, perfetti, possiamo seguire Gesù perfetto ».

 

3.   La "vita apostolica"

I primi monaci erano convinti che il loro genere di vita non era in sostanza qualcosa di singolare. Come dicevamo prima, essi cercavano di seguire le orme della lunga schiera di coloro che li avevano preceduti nella sequela del Cristo. La sequela di Gesù è vissuta dal monaco« secondo il modello e l'esempio di coloro che lo hanno preceduto in questo cammino ». In un modo del tutto particolare, i monaci sono i seguaci dei martiri, i quali nella sequela di Cristo sofferente hanno raggiunto il massimo di partecipazione dando la loro vita per Cristo.

Il monaco trova già nell 'AT i suoi predecessori e modelli, specie nei profeti e in altri santi personaggi che offrirono la loro vita per la causa di Dio, secondo quando leggiamo nella lettera agli Ebrei: « Altri subirono scherni e flagelli, catene e prigione. Furono lapidati, torturati, segati, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati..., vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra » (Eb 11, 36-38). Questo brano neotestamentario è citato frequentemente dalle antiche fonti monastiche: da Teodoreto, Basilio, Cassiano ed altri.

Ma i veri e più immediati modelli biblici del monaco sono soprattutto gli Apostoli. Come gli Apostoli lasciarono tutto e seguirono Cristo partecipando pienamente anche della sua croce, così pure i monaci, seguendo il loro esempio, rinunciano al mondo per diventare perfetti discepoli di Cristo. Già nella vocazione del padre degli eremiti, Antonio, esercita un forte influsso il pensiero di « come gli Apostoli lasciassero la loro casa per seguire il Salvatore ». Il proposito di conformare la propria vita a quella degli Apostoli diventa così un punto di riferimento della spiritualità monastica, soprattutto di quella cenobitica.

Le vite copte di Pacomio raccontano che, allorquando i fratelli, desolati per la morte del loro padre, vennero da Tabennesi a far visita ad Antonio malato, questi avrebbe detto di Pacomio: « Aver riunito le anime attorno a sé, allo scopo di offrirle pure al Signore, è un fatto che dimostra ch'egli è superiore a noi e che ch'egli ha seguìto è la via apostolica, voglio dire la congregazione ». Queste parole, che fanno eco al complesso del dossier pacomiano, sono assai ricche di significato. Teodoro, uno dei primi discepoli di Pacomio, parlerà della vita cenobitica come « vita apostolica ». L'espressione "vita apostolica", che nella storia della spiritualità cristiana e più in concreto della vita religiosa assumerà una varietà di significati non esprime altro in fondo che il desiderio di « vivere alla maniera degli Apostoli ». È chiaro in questo caso il riferimento alla vita condotta dal gruppo apostolico alla sequela di Gesù e alla vita della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme.

Concludendo, diremo molto succintamente che il cristocentrismo della spiritualità dell'antico monachesimo si riallaccia a una serie di tematiche il cui asse è costituito dal motivo centrale dell'imitazione e sequela del Cristo sofferente: l'intera vita monastica viene considerata come una comunione con Cristo nella sofferenza per raggiungere poi la comunione con lui nella sua vita divina.

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IV. 

 

SOTTO L'AZIONE DELLO SPIRITO

 

 

1.  Il monaco perfetto è un uomo "pieno"di Spirito Santo

2.  La presenza e l'azione dello Spirito sono particolarmente intense in coloro 

     che hanno un ruolo di guida o di governo: la "paternità spirituale'' 

3.  Lo Spirito Santo si esprime attraverso le parole della Scrittura e del padre carismatico

4.  Lo Spirito Santo assiste il monaco nella lotta contro i demoni

5.  Lo Spirito Santo e la legge

6.  I frutti dello Spirito

 

Dello Spirito Santo manca nella Scrittura una raffigurazione appropriata. La teologia poi tende a sottolineare più le opere dello Spirito che la sua Persona, perduta o nascosta dietro ad alcune realtà teologiche come la grazia, la carità, i doni. Tutto ciò concorre a far sì che il credente non riesca ad avvicinarsi allo Spirito Santo come ad una Persona. In tal modo viene a mancare l'intimità con questo agente primario della vita cristiani. Ne consegue che la pietà trinitaria si disperde per mancanza di relazioni personali con lo Spirito Santo.

Nelle fonti della rivelazione, lo Spirito Santo è l'inviato del Padre in nome di Cristo risuscitato, per penare a compimento la sua opera di redenzione. È quindi autore della santificazione, nella Chiesa intera ed in ciascuno dei credenti.

Atanasio e Basilio, due grandi teologi della spiritualità monastica, sono i Padri che stabiliscono nel sec. IV la dottrina classica dello Spirito Santo. Per Basilio, lo Spirito Santo ha un ruolo fondamentale, ben distinto da quello del Verbo. Questi rivela il Padre, come sua immagine: lo Spirito ha una funzione interna al credente e lo illumina. Atanasio riconosce allo Spirito l'eguaglianza con il Padre, ma non ha altro da attribuirgli che non abbia già detto del Verbo e, in fondo, del Padre. In Basilio invece lo Spirito ha un ruolo ipostatico ben definito. È appunto in questo tempo che si presta un'attenzione tutta particolare alla natura e all'azione dello Spirito, diventate oggetto di controversia. Echi di queste controversie dottrinali li troviamo nella Storia Lausiaca, dove si dice di Melania e Rufino di Aquileia che « insieme operarono per persuadere ogni eretico che negava lo Spirito, e lo ricondussero in seno alla Chiesa ».

Tra coloro che si trovano in modo particolare sotto l'influsso dell'azione dello Spirito divino, Ippolito di Roma, indica i martiri: « lo Spirito del Padre insegna ai martiri l'eloquenza consolandoli ed esortandoli a disprezzare la morte quaggiù, per affrettarsi a raggiungere i beni celesti...». L'opposizione tra il mondo ed i beni celesti, oggetto principale dell'insegnamento dello Spirito, suggerisce già il ruolo particolare che esso riveste nella spiritualità dell'antico monachesimo, che aveva fatto di questo tema un elemento centrale della sua esperienza spirituale. 

Gli studiosi hanno notato l'assenza di citazioni esplicite dello Spirito Santo in una parte considerevole della letteratura monastica antica. Nulla troviamo nella Vita di Antonio, eccetto la citazione di Rom 8,4 e un caso dubbioso. Tale silenzio lo si può attribuire al cristocentrismo antiariano di Atanasio. Relativamente poco ci offrono i Detti dei padri del deserto. Nulla di veramente significativo c'è in Evagrio. Due sole citazioni nella Storia Lausiaca di Palladio, e tre nell' Inchiesta sui monaci in Egitto. Nelle fonti pacomiane invece i riferimenti espliciti Spirito sono più numerosi, così anche nelle lettere di Antonio e, misura minore, in quelle del suo discepolo Ammone. Possiamo quindi affermare che le fonti dell'antico monachesimo non ci forniscono molte notizie sulla parte che la presenza e l'azione dello Spirito Santo hanno avuto nella spiritualità dei primi monaci. Avendo conto tuttavia dei dati sparsi qua e là, possiamo ricavarne un quadro abbastanza completo, che cercheremo di descrivere nei suoi vari elementi nelle pagine che seguono.

 

1.   Il monaco perfetto è un uomo "pieno" di Spirito Santo

È questa la definizione che i Detti danno di padre Arsenio. Di un monaco egiziano che divenne amico di Arsenio, si dice che era « pieno del buon profumo dello Spirito Santo » (cf. 2 Cor 2, 15). Di padre Samuel si afferma che era un « uomo animato dallo Spirito di Dio ». Di Antonio, padre degli eremiti, si dice che diventò « pneumatoforo », cioè portatore dello Spirito. Questo titolo che si addice ad ogni battezzato, è particolarmente adatto a quelli nei quali appaiono particolari manifestazioni carismatiche dello Spirito. Anche il famoso Macario l 'Egiziano era chiamato lo « pneumatoforo ». Nella prospettiva della storia della salvezza propria delle lettere di Antonio, la « pneumatoforia » caratterizza coloro che vivono sotto la legge dell'Alleanza, Mosè, il coro dei profeti ed i santi...

Il monaco indegno però è privato dello Spirito. Di un fratello della Comunità pacomiana, caduto in peccato e più volte impenitente nonostante i continui richiami di Teodoro, si afferma che lo Spirito si ritirò da lui. Orsiesi, altro discepolo e successore di Pacomio, nelle sue esortazioni ai monaci dice tra l'altro:  « se (l'anima) è negligente, lo Spirito Santo si allontana; senza la sua luce scendono le tenebre... ». Lo Spirito si allontana da colui che osa giudicare il suo fratello, e la fornicazione ci rende « alieni allo Spirito Santo ». Più volte Pacomio esorta i suoi confratelli a non rattristare lo Spirito Santo di Dio che abita in noi (cf. Ef 4, 30).

 

2.   La presenza e l'azione dello Spirito sono particolarmente intense in coloro

      che hanno un ruolo di guida o di governo: la "paternità spirituale"

È lo Spirito Santo che rivela a Pacomio che deve essere il primo fondatore di un cenobio. Di lui si dice più volte che nella sua missione di governo della comunità era particolarmente assistito dallo « Spirito che risiedeva in lui ». La stessa cosa si afferma anche dei successori di Pacomio:  « Dio aveva suscitato nella sua congregazione un altro padre potente di nome Orsiesi, capace di prendersi cura delle vostre anime e dei vostri corpi, grazie allo Spirito di Dio che abita in lui ». Teodoro viene descritto come un uomo « ardente per lo Spirito Santo che abitava in lui »; lo stesso Spirito, si aggiunge. muoveva il cuore dei fratelli « attraverso la parola di Teodoro ». 

Antonio, dopo aver trascorso vent'anni in solitudine,  « venne fuori come da un santuario, iniziato nei misteri e divinamente colmato dallo spirito divino » (... divinitate divinitus plenus). Subito dopo, il suo biografo lo mostra consolando, riconciliando e insegnando. Antonio ha raggiunto il dono della paternità spirituale e accetta dei discepoli. 

È un dono che rende capace, chi lo possiede, di generare figli nello Spirito e di guidarli alla misura di perfezione loro propria. Hausherr ne dà una specie di definizione che corrisponde alle idee classiche della spiritualità orientale:  « Lo spirituale è colui al quale, grazie alla mortificazione delle passioni e alla apathia che ne risulta, la carità ha svelato la gnosi delle cose divine e la diacrasis delle cose umane, in modo che egli possa, senza pericolo per lui stesso, guidate con saggezza gli altri sulle vie di Dio » (Direction spirituelle en Orient autrefois, OCA 144Roma 1955).

Si parla di paternità, nel senso di una relazione personale, secondo una doppia tradizione. La prima si rifà a s. Ignazio di Antiochia e costituisce la "paternità funzionale"; il vescovo è chiamato padre in funzione del suo sacerdozio. Egli battezza ed opera la filiazione divina per mezzo dei sacramenti. La seconda tradizione si rifà ai padri del deserto. La loro paternità non proviene da funzione alcuna sacerdotale: l'asceta del deserto è padre per elezione divina, per un carisma dello Spirito Santo, per il fatto di essere "theodidatta", insegnato direttamente da Dio. Né l'età né la funzione esercitano qui alcun ruolo. È sintomatico che gli stessi vescovi cercassero aiuto e consiglio dai solitari del deserto che erano direttamente guidati dallo Spirito.

La condizione essenziale per diventare "padre spirituale" è quella di essere prima di tutto spirituale (pneumatikós). Nei Detti dei padri del deserto più volte gli eremiti sono chiamati « uomini spirituali ». Non si può comunicare lo Spirito se non Lo si possiede previamente.

La fecondità spirituale è in rapporto con la Croce. Il padre Longino trasmette la famosa sentenza degli spirituali: « Dà sangue e prendi Spirito ». Un padre spirituale non è un maestro che insegna, ma colui che genera ad immagine del Padre celeste. L'arte della paternità spirrtuale non si impara come una scienza nella scuola, ma è frutto di un carisma dello Spirito.

 

3.   Lo Spirito Santo si esprime attraverso le parole 

      della Scrittura e del Padre carismatico

La Sacra Scrittura ha nella formazione spirituale dei primi monaci una grande importanza, su cui torneremo in seguito. Dottrina comune dei padri anacoreti e dei primi cenobiti è che lo Spirito Santo ci parla attraverso la parola rivelata. « Lo dice lo Spirito Santo », afferma l'anziano Poemen, citando la Scrittura; in modo simile, e a più riprese, si esprimono i discepoli di Pacomio.

Nei Detti la parola degli anziani è per lo più menzionata accanto alla Scrittura. Alla base di tale accostamento c'è la convinzione profonda che si tratta di due realtà omogenee, frutto dell'unica e molteplice rivelazione dello Spirito. Riguardo al carisma straordinario della parola presente in Efrem Siro, gli apoftegmi dicono che « proveniva dallo Spirito Santo ciò che usciva dalle labbra di Efrem ». Evagrio Pontico nel suo Trattato pratico cita lo Spirito Santo soltanto alla fine, nel- l'epilogo, per affermare che tutto quanto ha scritto ha potuto farlo « per grazia dello Spirito ».

 

4.   Lo Spirito Santo assiste il monaco nella lotta contro i demoni

Si sa che la demonologia occupa nella Vita di Antonio un posto rilevante: la lotta con i demoni non finisce mai. Nel grande discorso dottrinale, che costituisce un vero programma della spiritualità antoniana, per ben due volte l'uomo di Dio ricorda ai suoi discepoli l'efficacia dello Spirito nella lotta contro le potenze del male: « La retta via e la fede nel Signore tramite Gesù Cristo e lo Spirito Santo sono un grande scudo contro di loro (i demoni) ».

L'asceta perfetto riceve dallo Spirito Santo il dono di discernere gli spiriti, in modo da saper riconoscere i demoni malgrado le loro astuzie, anche quando si trasformano in angeli di luce.

Pacomio afferma che il diavolo si allontana da colui con cui è in guerra, quando vede che in lui dimora lo Spirito Santo. La stessa dottrina la si ritrova nel suo discepolo Teodoro.

 

5.   Lo Spirito Santo e la legge

« L'ideale che Pacomio propone ai suoi discepoli è riassunto nella breve formula: vivere secondo la volontà di Dio. Per raggiungere questo scopo però non basta ubbidire alle leggi esteriori e alle regole scritte. Bisogna essere inoltre docili alla voce della coscienza e alle ispirazioni particolari dello Spirito » (P.Deseille, L'esprit du monachisme pachômien, Bellefontaine 1973). Secondo l'espressione di Teodoro, ognuno deve essere fedele alla santa vocazione della koinonia « secondo la misura delle sue forze e la spinta dello Spirito Santo ». Pacornio incoraggiava i suoi discepoli a seguire la voce interiore dello Spirito ed esigeva che i fratelli rispettassero la altrui personalità spirituale. Nel campo però delle ispirazioni interiori è indispensabile il ricorso al discernimento del padre spirituale; alcuni passaggi delle Vite ci mostrano Pacomio particolarmente attento a dissipare le possibili illusioni.

 

6.   I frutti dello Spirito

Lo Spiriro Santo illumina, ispira, salva, è fuoco che consuma. Quando lo Spirito scende nei cuori degli uomini, essi si rinnovano profondamente.

Frutto dello Spirito sono le virtù. Un elenco di queste virtù elargite dallo Spirito, lo troviamo nella Vita copta di s. Pacomio: « la fede, il bene, il timore, la pietà, la purità, la giustizia, la longanimità, la bontà, la dolcezza, la temperanza, la gioia, la speranza e la perfetta carità ». Non si tratta dei tradizionali doni dello Spirito Santo, tratti da Is 11, 1-2, bensì di un elenco di virtù, sul tipo di quelli paolini. Il riferimento principale è Gal 5, 22. Il numero e l'ordine dei frutti dello Spirito elencati non coincidono: c'è stata probabilmente una integrazione con Is 11 e con 1 Cor 13, 13 (per le tre virtù teologali).

Per Pacomio, scopo dello sforzo ascetico del monaco e della vigilanza sul suo cuore, è che « lo Spirito Santo abiti in lui » e che egli « diventi un tempio di Dio »; « che acquisti la perfezione dei frutti dello Spirito »; che raggiunga « l'unità dello spirito ». Così insegna anche Orsiesi: per acquistare i frutti dello Spirito bisogna convertirsi e purificarsi dalle imperfezioni, bisogna lottare. « Anche l'anima - leggiamo nei Detti - sa di aver concepito lo Spirito Santo quando si placano le passioni che scorrono giù da lei; finché è impigliata in esse, come può vantarsi quasi fosse impassibile? Dà sangue e prendi Spirito », lotta cioè e giungerai al possesso delle virtù dello Spirito. ll monaco, prima di ricevere lo Spirito con i suoi doni, deve essere formato all 'umiltà, all'abnegazione, all'oblio di sé, alla purezza di cuore, al sacrificio; deve imparare a dare a Dio il sangue dell'anima e del corpo. Quando avrà acquisito questa libertà totale, questa disponibilità, sarà maturo per ricevere i doni dello Spirito. 

L'inabitazione dello Spirito - che non è altro che il pieno sviluppo della grazia battesimale - è una vera deificazione dell'uomo, così la spiega Teodoro. Tale deificazione realizza anzitutto la trasformazione morale dell'uomo. L'uomo giunge allora alla piena maturità spirituale; in virtù dell'inabitazione dello Spirito Santo, egli possiede un istinto interiore, un tatto spirituale, che gli permette di discernere spontaneamente la volontà del Signore, e raggiunge così la « vera conoscenza » di Dio. Il monaco ottiene allora la « preghiera senza distrazione», perché il suo spirito è tutto quanto preso da Dio.

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V. 

 

LA DIMENSIONE ECCLESIALE E SACRAMENTALE

 

 

1.  I rapporti tra i monaci e la gerarchia

2.  I monaci e la vita sacramentale

3.  Progressiva scoperta e valorizzazione della dimensione ecclesiale e sacramentale

 

Il rapporto con Dio, per noi cristiani, non è un semplice rapporto con il Trascendente, ma con Colui che entra nella nostra storia e, quindi, nella comunità. Nella spiritualità cristiana il rapporto con Dio, nelle sue forme tipiche, segue una struttura sacramentale, passando attraverso la Chiesa. Non è mai mancato, né può mancare, ai cristiani un vissuto ecclesiale. Chiesa e sacramenti e, in particolare, Chiesa ed Eucaristia sono in intimo rapporto. L'Eucaristia appartiene alla Chiesa, anzi è la Chiesa: perché è la presenza di Cristo donandosi per gli uomini e ad essi, ed è l'assemblea degli uomini che professano la loro volontà di vivere fraternamente ricevendo così il dono di Cristo e donandosi essi stessi a Cristo.

Ogni forma di sequela di Gesù Cristo comporta una particolare donazione alla Chiesa. Anche la Vita Religiosa deve riprodurre nella sua ricerca di Dio quella struttura sacramentale che è propria del

la religiosità cristiana. Ci si dona a Dio nella disponibilità alla Chiesa. Gli stessi voti religiosi non  sono comprensibili né storicamente né teologicamente se non nel senso di un vincolarsi a Dio che è, simultaneamente, incorporazione alla comunità ecclesiale. Eppure sembra che vi sono stati periodi in cui la Vita Religiosa è stata vissuta - come fu per alcuni primi anacoreti - senza significativi ed espliciti riferimenti alla comunità ecclesiale o addirittura - in alcuni casi - separata dalla sua predicazione e dai suoi sacramenti.

I teologi protestanti hanno dato sempre grande rilievo a questo "conflitto" tra i primi anacoreti e la Chiesa istituzionale fino al punto di farne uno dei motivi primari della stessa nascita nel seno della Chiesa del monachesimo: il monachesimo è sorto - dicono - come una specie di setta nel seno delta Chiesa in opposizione più o meno palese alla Chiesa gerarchica; il monaco che va al deserto abbandona non soltanto il mondo ma anche la Chiesa da esso giudicata ''secolarizzata". Siamo dinanzi ad una questione storica fondamentale, molto delicata, e facilmente strumentalizzabile per ovvi interessi di parte. È quindi sommamente importante che si cerchi di chiarire il problema con grande oggettività, consultando direttamente le antiche fonti monastiche.

 

1.   I rapporti tra i monaci e la gerarchia

È vero che ogni tanto si riscontra una certa tensione fra taluni ambienti eremitici e la gerarchia ecclesiastica. « Il monaco deve fuggire massimamente le donne e i vescovi », dicevano alcuni antichi padri del deserto (riportato da Cassiano). Non si può tuttavia generalizzare fino a fare di questa affermazione l'indicatore dell'atteggiamento comune e universale dell'antico monachesimo. È però innegabile che non sempre c'è stata perfetta armonia tra la gerarchia ecclesiastica e il disordinato e talvolta poco equilibrato movimento ascetico dei tempi antichi. Non c'è quindi da meravigliarsi se alcuni monaci non avevano dei rapporti molto cordiali coi capi delle chiese locali. Anche quando tale tensione non è manifesta, gli asceti preferiscono la loro solitudine e non amano trattenersi coi vescovi. Il padre Arsenio che, dopo aver trascorso la giovinezza alla corte di Costantinopoli, si era ritirato nel deserto di Scete, così rispose all'arcivescovo Teofilo che gli chiedeva di udire da lui una parola: « Dovunque sappiate che sia Arsenio, non avvicinatevi ».  « Del vescovo di Ossirinco, che si chiamava padre Aphú, si raccontava che, mentre era monaco, aveva praticato una ascesi molto dura; divenuto vescovo, avrebbe voluto mantenere lo stesso rigore anche nel mondo, ma non ci riusciva. Allora si gettò dinanzi a Dio dicendo: "È  forse a causa dell'episcopato che la grazia se ne è andata da me?". Gli fu allora rivelato: "No. Ma in quel tempo c'era il deserto e, non essendoci uomo, Dio ti sosteneva. Ora invece c'è il mondo, e ti sostengono gli uomini" ». In questi casi più che di opposizione tra anacoreti e gerarchia ecclesiastica, si tratta di grande apprezzamento che i monaci fanno della loro solitudine e della vita ascetica che in essa conducono per meglio raggiungere la comunione con l'amore di Dio.

È poi nota la riluttanza di questi primi monaci ad accettare gli ordini sacri. Nei Detti dei padri del deserto ci si racconta di Teodosio di Ferme che, divenuto diacono, non voleva accettare di compiere questo ministero, e fuggì in vari luoghi finché lo lasciarono stare... . La Storia Lausiaca racconta  con grande vivacità espressiva di un tale Ammonio « straordinario conoscitore dei libri sacri ». Gli abitanti di una città, presi di ammirazione per lui, lo volevano come vescovo. Il solitario giurò che non avrebbe accettato 1'ordinazione e non sarebbe mai uscito dal deserto. Gli altri però insistevano. Allora Ammonio si recise l'orecchio sinistro fino alla base e minacciò di tagliarsi addirittura la lingua. Dinanzi a tale resistenza,  i suoi ammiratori lo lasciarono in pace. Nei confronti dei ministero ecclesiastico la vita ascetica era considerata come un tipo di servizio divino essenzialmente diverso e anche, sotto determinati aspetti, superiore. D'altra parte però se i monaci non vogliono diventare sacerdoti è dovuto anche all'alto apprezzamento che hanno del sacerdozio stesso. Desiderare il sacerdozio è orgoglio, è vietato dall'umiltà. Più tardi, parecchi secoli dopo, un simile atteggiamento lo troviamo in Francesco d'Assisi: « l'umile Francesco, per conservare profonda umiltà e confondere la futura ambizione, non volle essere promosso al sacerdozio ».

Il rispetto che i monaci manifestano per il clero è in rapporto con il concetto che essi hanno dell'ufficio sacerdotale della Chiesa, i vescovi sono considerati i successori degli apostoli: « Anch'egli (Atanasio, arcivescovo di Alessandria) è figlio dei santi apostoli, e si prende buona cura del gregge del Signore »: « i vescovi sono per noi dei padri che ci ammaestrano nelle Scritture », dice Pacomio. Evagrio Pontico scrive nell'ultimo capitolo del suo Trattato pratico, dedicato alla carità: « Dopo il Signore, bisogna amare sacerdoti, i quali ci purificano per mezzo dei santi misteri e pregano per noi ». Il rispetto e la devozione furono vicendevoli, come dimostrano queste parole scritte dal vescovo Arios a Pacomio: « Ti prego di venire da me e di organizzare un monastero nella nostra località, perché la benedizione del Signore giunga nella nostra regione grazie a te ».

È soprattutto il vescovo Atanasio che ha cura di far emergere nella biografia di s. Antonio un certo aspetto ecclesiale della spiritualità del monaco. Antonio aiuta i suoi fratelli con la preghiera e con i consigli. La sua vita ascetica non è sterile per la Chiesa; egli infatti ha il carisma della paternità spirituale...  Atanasio si compiace nel mostrarlo soggetto ai vescovi, riverente verso i presbiteri: « mostrava un grandissimo rispetto per il clero... Non arrossiva di chinare il capo davanti ai vescovi e ai preti... ». Si ricorda poi che in un'occasione, poiché gli ariani affermavano che Antonio era della loro opinione, il santo eremita non esitò a lasciare la sua cara solitudine per andare a confutarli pubblicamente in Alessandria. Antonio vive quindi il mistero della Chiesa come comunione di fede e di amore. Egli comunque non è arrivato ancora alla visione della Chiesa come Koinonia, ciò che scoprirà poi il cenobitismo pacomiano.

Non possiamo perciò parlare di opposizione dei monaci alla Chiesa istituzionale. Anzi essi dimostrano più volte grande stima, rispetto e affetto verso i membri della gerarchia ecclesiastica e si considerano indegni di farne parte. Si dà inoltre un'opposizione ad ogni genere di tiepidezza: il timore di non potersi consacrare più all'ascesi e alla contemplazione allontana il monaco dall'ufficio sacerdotale.

 

2.   I monaci e la vita sacramentale

In intimo rapporto con quanto abbiamo detto sulla relazione dei primi monaci con l'istituzione ecclesiale, sta il problema del ruolo che nella loro spiritualità ha avuto la vita sacramentale e la liturgia in genere. Il Dekkers (Les anciens moines cultivaient-ils la liturgie?, Maison-Dieu n.51, 1957) ha cercato di dare una risposta a tale domanda esaminando le principali fonti del monachesimo primitivo. Il risultato a cui lo studioso arriva è abbastanza deludente: nelle biografie - o pseudobio-grafie - monastiche la liturgia è quasi assente. Consultando poi i grandi teorici della spiritualità monastica, arriviamo a delle conclusioni ancor più negative: la vita sacramentale e la preghiera comunitaria sarebbero non di rado sottovalutate in favore di un individualismo di tipo ascetico. Infine, i primi legislatori della vita monastica, pur offrendo una documentazione più ricca al riguardo, non rappresentano un vero passo avanti: la suddetta documentazione è più ricca solo da un punto di vista materiale secondo cui la liturgia rappresenta un'attività che ha un posto relativamente importante nell'insieme della vita monastica. Concludendo, Dekkers (Liturgie et vie spirituelle aux premiers siècles, Maison-Dieu n.69, 1962) afferma che la liturgia occupa un posto piuttosto ristretto nella vita del monachesimo più antico, anzi a volte sarebbe addirittura sottovalutata. In generale poi la vita sacramentale dei primi monaci non appare più intensa di quella dei semplici fedeli del loro tempo. In qualche caso troviamo anche un allontanamento dall'eucaristia.

Gli autori che hanno studiato questo fenomeno avanzano alcune spiegazioni: G. Penco afferma che un carattere assai accentuato dell'antica preghiera monastica « è la viva tendenza a spiritualizzare e ad interiorizzare ogni pratica cultuale e liturgica, insistendo più sulla conoscenza (gnosis) dei misteri divini, anziché sulla partecipazione effettiva al culto della Chiesa » (in: Vagaggini-Penco: La preghiera nella Bibbia e nella tradizione patristica e monastica, Ed.Paoline Roma 1964). Altri studiosi sottolineano il fatto che nella mentalità degli antichi l'ascetismo è stato concepito come martirio e come liturgia: i monaci furono considerati gli eredi dei martiri; nel loro ascetismo si rinnovava la passione del Cristo; e questa vita di olocausto costituiva un autentico sacrificio, una vera liturgia. Quindi i solitari credevano che esercitavano un vero sacerdozio spirituale. Si tratta di uno dei temi più arcaici della spiritualità monastica, di cui abusarono alcune correnti dell'ascetismo eterodosso.

Fin dal principio, alla base della fuga verso il deserto,  c'è una spiritualità nutrita di una tradizione che si rifà  sia all'Antico sia al Nuovo Testamento. L'esempio del profeta Elia - per citarne uno solo - e quelli di Gesù e di Giovanni il Battista hanno sempre alimentato la nostalgia del deserto. Il deserto poi era considerato il dominio prediletto dei demoni, e quindi rappresentava per gli asceti il teatro privilegiato per le loro battaglie contro di essi.

Gli asceti quindi continuavano la tradizione dei martiri, di cui si consideravano gli eredi. Lo sviluppo del monachesimo coincide con la fine delle persecuzioni. La pace costantiniana ebbe come conseguenza una certa penetrazione dello spirito del mondo nella Chiesa. In questo contesto, il monachesimo appare come una reazione contro la degradazione. Il monaco prende il posto del martire e diventa per la Chiesa un richiamo permanente della sua condizione escatologica. Questa mentalità avrebbe portato i primi monaci a dimenticare o a sottovalutare in qualche modo la vita sacramentale. Questi comunque sarebbero dei casi eccezionali, non la norma di condotta generale: Palladio ci racconta nella sua Storia Lausiaca di un tale Erone, il quale praticava un ascetismo così rigido, da rifiutare persino i sacramenti. Si tratta di un atteggiamento che viene giudicato dall'autore sbagliato: « Anche lui fu ottenebrato a tal punto da essere in sèguito messo ai ferri: non voleva neppure accostarsi ai sacramenti. Ma la verità mi è cara. Era estremamente frugale nel modo di vivere, tanto che molti vissuti in familiarità con lui raccontavano come più di una volta avesse mangiato a intervalli di tre mesi, trovando sufficiente la comunione e, se in qualche luogo gli capitava di scorgerne, le erbe selvatiche ». Sappiamo poi di un tale Valente che « tanto si gonfiò di alterigia da disprezzare perfino la partecipazione ai misteri ». Nei Detti invece si dice di Isacco di Tebe che « aveva raggiunto durante la santa Eucaristia lo stato di raccoglimento perfetto ». E padre Poemen diceva: « Sta scritto: "Come la cerva anela alle fonti delle acque, così l'anima mia brama te, o Dio". Come i cervi nel deserto divorano molti rettili, quando il veleno li brucia, bramano di venire alle acque e, dopo aver bevuto, trovano sollievo dal veleno dei rettili, così anche i monaci che vivono nel deserto sono arsi dal veleno dei malvagi demoni e bramano il sabato e la domenica per venire alle fonti delle acque, cioè al Corpo e al Sangue del Signore, per essere purificati dall'amarezza del Maligno ». Secondo l'Inchiesta sui monaci in Egitto, il padre Apollo affermava che - se è possibile - è bene che « i monaci comunichino ogni giorno ai misteri di Cristo; chi se ne tiene lontano, si tiene lontano da Dio". Da parte sua, lo Pseudo-Macario si sforza di valorizzare i sacramenti della Chiesa e di conservare la pace con la gerarchia ecclesiastica... 

 

3.   Progressiva scoperta e valorizzazione 

      della dimensione ecclesiale e sacramentale

Senza voler sottovalutare tutti gli argomenti sopra elencati, crediamo che il silenzio delle fonti sull'argomento che ci occupa, debba essere interpretato anche da un altro punto di vista. Anzitutto, è del tutto normale che non si parli di cose nelle quali i monaci non si distinguono dagli altri fedeli. Questa sembra essere la risposta principale che dà Nocent allo studio del Dekkers: i legislatori monastici non hanno sentito il bisogno di elaborare una specie di teologia spirituale della Liturgia semplicemente perché in quel tempo essa era ancora vissuta dalla Chiesa intera, come dimostrano ad esempio gli scritti dei Padri. Bisognerà attendere alcuni secoli perché i monasteri abbiano il triste privilegio di essere i custodi di un tesoro trascurato. Poi dobbiamo notare che a mano a mano che il monachesimo si evolve dalla forma eremitica a quella comunitaria la presenza e l'importanza della liturgia si accentua. Infatti, la scelta sempre più decisiva del cenobitismo sembra essere fortemente determinata dal senso ecclesiale. Ciò non poteva non avere come conseguenza che nella totalità della vita anche la preghiera acquistasse sempre più importanza e carattere ecclesiale ossia liturgico, soprattutto quando il monachesimo diventa quasi universalmente cenobitico.

D'altra parte, è certo che già dall'inizio gli eremiti pongono un grande impegno nella lettura della Scrittura e, particolarmente, nella recita dei salmi; ciò dimostra che gli elementi essenziali di una orazione liturgica ed ecclesiale sono loro familiari. Tra le attività fondamentali della vita monastica troviamo la lectio divina e la salmodia. In fondo esiste un unico segno di Dio: la parola che crea, chiama, raduna, s'indirizza a ciascuno di noi e richiede una risposta, quella della fede. La parola ci viene rivolta dal Cristo-Chiesa, ed è ciò che le dà la pienezza del suo dinamismo. Quando questa parola è situata in un contesto di riti e di gesti che la fanno arrivare alla sommità dell'efficacia, essa è sacramento.

Concludendo diremo che l'antico monachesimo non ha propriamente trascurato la dimensione ecclesiale e sacramentale della vita spirituale. La scelta della vita solitaria e il posto preponderante dato alla ascesi hanno comunque oscurato questi aspetti della spiritualità cristiana nella vita dei monaci. Salvo però casi eccezionali, l'anacoreta visse sempre una sua comunione con il mistero della Chiesa ed ebbe un certo rapporto con la viva sacramentale. L'antico monachesimo poi, a mano a mano che scopriva la ferma di vita cenobitica riscopriva con essa e con più intensità il ruolo della Chiesa e dei suoi sacramenti nella esperienza spirituale.

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VI. 

 

LA VIVA ATTESA ESCATOLOGICA

 

 

1.  L' « estraneità »

2.  La « vita angelica »

3.  Il pensiero della morte

 

Vivere protesi verso il Signore, attendendo e affrettando la parusia del suo giorno (cf. 2 Pt 3, 14), fa parte dell'essenza del cristianesimo ed è stato uno dei punti fermi della spiritualità dell 'antico monachesimo.

 

1.   L' « estraneità »

Il monaco, all' inizio della sua vocazione, si ritira dal mondo e va a vivere in solitudine. Questo appartarsi vuole essere per il monaco un separarsi dal mondo, un essere libero dal mondo, e implica un giudizio preciso su tutte le cose di questo mondo nel loro rapporto ai beni eterni. Lo Pseudo-Macario domanda al monaco: « Credi tu di essere degno del regno dei cieli, e che come figlio di Dio e coerede col Cristo, regnerai eternamente con lui e fruirai di delizie in una luce arcana nei secoli infiniti come Dio? Tu certamente dirai: sì.  Perché appunto per questo ho abbandonato il mondo e mi sono consacrato al Signore ».

L'alto apprezzamento dei beni eterni spingeva i monaci a considerarsi in cammino verso la patria celeste. I monaci credevano che l'eredità del regno celeste era raggiungibile soltanto rinunciando al mondo. Perciò andavano via, si allontanavano o esiliavano e si stabilivano nel deserto. Fin dalle origini il monachesimo fu considerato da alcuni suoi rappresentanti come una forma di esilio, fino al punto che il monaco non poteva essere tale nella sua patria. Il vero monaco doveva essere uno straniero nella terra, non solamente in senso spirituale, ma nel senso letterale del termine: il monaco abbandona la sua patria e va in una regione dove nessuno lo conosce, dove è un vero straniero. Lo stesso nome che alcuni documenti danno alla cella del monaco (Xenìa: luogo dove si offre ospitalità) riflette questa spiritualità. Sozomeno dice dei monaci che sono come degli stranieri, che si trovano in questo mondo solo di passaggio (Historia ecclesiastica, PG 67). Si vuole in tale maniera ricuperare il senso biblico dell'esilio, che è evidentemente un tema escatologico.

L' « estraneità » (Xeniteía - Peregrinatio) è una delle categorie fondamentali della tradizione monastica. Nel testo dell'Adversus haereses IV, 5, 3-4 di Ireneo, che associa la risposta di Abramo alla sequela Verbi degli Apostoli, si rileva tra l'altro, la prima utilizzazione che si conosca nel vocabolario cristiano del verbo xeniteúô, per significare l'atto di assumere la condizione di straniero senza dimora stabile sulla terra.

La tradizione posteriore non aggiungerà molto alla dottrina di Ireneo sui cristiani caratterizzati come stranieri rispetto al mondo, pur essendo attivamente presenti nel mondo. Quale nuovo contributo, il monachesimo presenterà il cammino esterno e fisico sul quale poggerà la c interiore.

La vocazione di Antonio l'eremita fu in primo luogo quella della sequela di Cristo, ma già nella prima delle lettere che la tradizione gli attribuisce egli presenta fin dall inizio la prima delle tre forme di vocazione secondo il modello di quella di Abramo in Gn 12, 1.

Essa è per lui la più normale e la più perfetta: « Alcuni sono chiamati dalla legge dell'amore... Quando la parola di Dio li raggiunge. essi non vengono sfiorati da alcuna esitazione e prontamente la seguono. Così fu di Abramo...».

La stessa distinzione delle tre forme di vocazione alla vita monastica si ritrova in Cassiano. Esse vengono spiegate da Pafnuzio, che si presenta come un discepolo di Antonio. La prima di queste vocazioni è formulata in modo abbastanza simile alla prima di quelle contenute nella Lettera di Antonio già citata. Anch'essa è ricollegata a Gn 12, 1. Cassiano spiega che l'appello rivolto ad Abramo esige un triplice processo, cioè egli è chiamato ad una triplice rinuncia: uscire dal suo paese, ossia lasciare tutte le ricchezze e tutti i beni di auesto mondo; abbandonare la sua parentela, cioè rinnegare il nostro passato, i nostri vizi; allontanarsi dalla casa paterna, ossia bandire qualsiasi ricordo del mondo presente e visibile, per desiderare solo le cose eterne.

Sia in Antonio che in Cassiano - il quale ne raccoglie l'insegnamento e lo trasmette al mondo occidentale molti decenni più tardi -, il lato fisico della peregrinatio, pur essendo stato compiuto da ambedue, non è tuttavia posto in evidenza allorché essi propongono la teoria della vocazione monastica quale replica di quella di Abramo. Vi domina l'atteggiamento interiore.

Il Guillaumont (Le dépaysement comme forme d'ascèse, SO 30, Bellefontaine 1979 ) ha distinto due forme di realizzazione concreta della xeniteía , in parte spiegabili con ragioni sociologiche: quella del monachesimo egiziano e quella dei Siri. Gli Egiziani erano un popolo di contadini; i loro monaci furono quindi, senza grande difficoltà, silenziosi, sedentari e solitari, generalmente moderati nelle manifestazioni di ascesi e prudenti nel loro insegnamento: la loro era la saggezza della terra. La loro xeniteía sarà piuttosto interiore: essi si considerano stranieri al mondo, alla patria, ai loro amici e alla famiglia. Invece, i Siri, popolo di commercianti, amavano muoversi; i monaci siriaci praticheranno con fervore la xeniteía, spostandosi da un paese all'altro, soprattutto verso l'Egitto. Per molti secoli, i monaci della Mesopotamia considerarono come un elemento necessario della loro formazione un viaggio in Egitto e un soggiorno più o meno lungo presso i padri più famosi per fervore e dottrina.

Questa distinzione tra la concezione egiziana e quella siriaca della xeniteía risponde, in buona parte, a verità. Non si deve però dimenticare che molto presto si è verificata una osmosi tra le due regioni monastiche per eccellenza, l'Egitto e la Siria.

Il padre dei monaci d'Oriente, s. Basilio, afferma che se noi non ci estraniamo e dalla parentela carnale e dalla partecipazione a questa vita, come gente che, col suo modo di essere, trasmigra verso un altro mondo... non raggiungeremo lo scopo dell'essere graditi a Dio. Non si tratta tanto di una separazione fisica, quanto di un farsi stranieri al mondo - a quel mondo che non è « capace dello Spirito » - mediante un sentire e un agire non-mondani. Lo stesso Basilio spiega in una lettera indirizzata al suo amico Gregorio Nazianzeno in che consiste l'isolamento assoluto di questo mondo: « questa separazione non consiste nell'esserne fuori fisicamente, ma nello staccare l'animo dai legami con il corpo e nel sentirsi slegato dalla patria, dalla casa, dalla proprietà, dagli amici, dai possedimenti, dalla vita, dagli affari, dalle relazioni con gli altri, dalla conoscenza degli insegnamenti umani, e nell'essere pronti a ricevere in cuore le impronte derivanti dall'insegnamento divino ».

 

2.   La « vita angelica »

Sia l'abbandono del mondo sia la peregrinazione indicano la tensione escatologica solo negativamente. Questa formulazione negativa della attesa escatologica trova il suo corrispondente positivo in quello che è l'obiettivo primo ed essenziale della vita monastica: l'unione con Dio, la ricerca e l'esperienza della presenza di Dio. Tutta la vita del monaco diviene allora un esercizio di attesa, un modo di vivere costantemente la speranza, una maniera di ripetere incessantemente il "vieni" dell'Apocalisse. Il monaco è desideroso di raggiungere il traguardo della gloria futura per riunirsi al suo Signore. Questa "fretta" fa dire al vescovo Serapione che il pellegrinaggio terreno del monaco assomiglia al volo degli uccelli; e Nilo di Ancira chiamerà più tardi il monaco « aquila che vola verso l'alto ».

La vita monastica concepita come vita celeste o vita angelica è uno dei temi più cari alla spiritualità dell'antico monachesimo. Il tema della vita angelica è di per sé un tema squisitamente escatologico che si riallaccia, nella letteratura monastica, ad una serie di tematiche anch'esse di chiaro sapore escatologico.

Il concetto "vita angelica" si rifà alle parole di Gesù: « Quando risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli » (Mc 12, 25 e parall.). Il testo è di evidente significato escatologico. Il parallelo istituito tra i beati nella gloria e gli angeli è fondato sulla comune astensione dal matrimonio e sulla partecipazione dei beati alla vita immortale degli angeli.

Dato che, nell'epoca pre-monastica, l'ascesi cristiana fu capita anzitutto come verginità, è stata essa ad alimentare all'inizio la correlazione esistente tra l'uomo e l'angelo. È vero che s. Paolo non usa il concetto ''vita angelica'' nei suoi discorsi sull'ascesi-vita verginale, ma la letteratura ascetica dei secoli II-III, soprattutto nell'area geografica dell'Asia Minore, riprende tale concetto.

Con l'apparizione degli scritti sul martirio, il concetto "vita angelica" viene applicato al martire: questi sperimenta nella sua passione la presenza e l'aiuto degli angeli e, dopo la morte, viene accolto nell'assemblea degli spiriti celesti.

Allargandosi in seguito la visione dell'ascesi cristiana oltre i confini della pratica della verginità, si allarga anche il contenuto del concetto "vita angelica" ad essa applicato. Origene afferma che la vita anacoretica (di Giovanni il Battista) conduce alla familiarità con gli angeli. Evagrio Pontico, in Egitto, ed i tre Cappadoci in Asia Minore, prendono e sviluppano tale concetto e ne consolidano a tal punto i legami con l'ascesi monastica che si potrà poi identificare la vita monastica con la vita angelica.

 

3.   Il pensiero della morte

I monaci, volgendo lo sguardo verso i beni futuri, avevano continuamente dinanzi a sé il pensiero della morte, nell'incertezza del suo giorno e nella certezza della sua vicinanza. Antonio insegnava ai suoi discepoli così: « quando ogni giorno ci alziamo, dobbiamo credere di non vivere fino alla sera, e d'altra parte quando cominciamo a dormire, dobbiamo pensare che l'indomani non potremo alzarci ». Un santo anacoreta affermava: « Io guardo gli angeli che salgono e scendono per chiamare le anime, e attendo sempre la mia fine dicendo: "Saldo è il mio cuore, Dio, saldo è il mio cuore" (Sal 108, 2) ».

Sozomeno afferma dei monaci della Tebaide che, disprezzando le cose terrene, si indirizzavano verso la contemplazione di quelle celesti è, così facendo, giunto il momento di lasciare questo corpo mortale, erano gioiosi di passare alla patria celeste (cfr id.). La tristezza che naturalmente produce il distacco dalle cose di quaggiù non era causa di afflizione per i monaci perché essi avevano abbandonato tutto nella sola speranza della patria futura e quindi attendevano con serenità e con gioia il momento del trapasso. Di questa gioia che produce nel monaco il confronto con la morte, abbiamo diverse testimonianze. Così ad esempio in uno degli apoftegmi dedicati a Cassiano si parla di padre Giovanni che, quando fu in punto di morte, « se ne andava a Dio con slancio e con gioia ».

D'altra parte però i ripetuti inviti dei padri del deserto a vegliare, piangere, fare lutto, si fondano consapevolmente sui brani biblici in cui tali inviti sono appunto inseriti in contesti escatologici, in vista dell'ultima grande tribolazione e del giorno della venuta del Signore. Il padre degli eremiti, Antonio, diceva: « ricordatevi di ciò che avete promesso a Dio, perché ve ne chiederà conto nel giorno del giudizio (cf. Mt 10, 15 e parall.); soffrite la fame, la sete, la nudità (cf. 1 Cor 4, 11), vegliate (cf. Lc 21, 36), affliggetevi, piangete (cf. Giac 4, 9), gemete nei vostri cuori; esaminatevi se siete degni di Dio; disprezzate la carne per salvare le vostre anime ». Dio è comunque un Dio misericordioso, come afferma Orsiesi in un apoftegma che manifesta una straordinaria familiarità con i testi scritturistici: «... Dio... misericordioso, ponendo nell' uomo il suo timore e il ricordo dei castighi... lo rifornisce disponendolo alla vigilanza e a custodire se stesso in vista delle cose future con molta stabilità, fino al giorno della sua visita ».

Possiamo concludere riportando qui un testo del Prologo dell' Inchiesta sui monaci in Egitto dove si descrive cori ricchezza di immagini con quanta intensità i monaci dell'Egitto attendevano la parusìa del Signore: « Li si può vedere, sparsi nei deserti, aspettare Cristo come dei figli legittimi aspettano il loro padre, o un esercito il proprio re, o come una servitù dignitosa attende il suo padrone e liberatore. Tra loro non vi è preoccupazione per il vestito, né affanno per il cibo, ma solo, nel canto, l'attesa della venuta di Cristo ».

Abbiamo visto che la viva attesa escatologica è un atteggiamento costante nella spiritualità dell'antico monachesimo. In esso sono coinvolti i grandi temi della esperienza spirituale monastica: scopo ultimo della vita del monaco è l'unione con Dio. Perciò egli si ritira dal mondo, va al deserto dove vive in solitudine. Il monaco si considera quindi pellegrino in questo mondo, straniero, esiliato, e vive distaccato dalle cose terrene, sempre vigilante e gioiosamente proteso verso i beni futuri della gloria.

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VII. 

 

LA PREGHIERA,

CUORE DELLA SPIRITUALITÀ MONASTICA

 

 

1. Il precetto della preghiera incessante. 

2. Preghiera e Parola di Dio 

3. La « Lectio divina »

4. La salmodia

 

Come per tanti altri aspetti della spiritualità monastica, così per quello specifico della preghiera i monaci non ci hanno lasciato - almeno fino al sec. XII - in rapporto all'importanza che essa rivestì nella loro vita, trattazioni sistematiche abbondanti ed esplicite.

Studiando la preghiera nella tradizione monastica si è colpiti anzitutto della centralità che essa ha nella vita dei monaci. La preghiera avvolge completamente la loro vita e in essa tutto è in relazione con la preghiera. Con essa noi veniamo condotti veramente al cuore della spiritualità monastica. 

Data l'ampiezza e la profondità dell'argomento, qui studieremo solo alcuni degli aspetti principali della preghiera dell'antico monachesimo, mettendo in rilievo gli elementi che noi giudichiamo più importanti in ordine a costruire una dottrina tradizionale della preghiera stessa. Tra le fonti monastiche 

antiche, abbiamo presente soprattutto i Detti dei padri del deserto e gli scritti di Giovanni Cassiano, uno dei più insigni teorici della preghiera nel mondo monastico antico. Ogni tanto il nostro sguardo va oltre con brevi riferimenti alla stessa tradizione benedettina, la quale ha il merito di aver strutturato gli elementi tradizionali ereditati dall' antico monachesimo.

 

1.   Il precetto della preghiera incessante

Il precetto neotestamentario « pregate incessantemente » (1 Ts 5, 17; cf. Lc 18, 1; Rm 12, 12; Ef  6, 18; Col 4, 2; ecc) ha esercitato un immenso influsso sulla spiritualità cristiana. I Padri lo ricordano con insistenza. L'antico monachesimo ne fa uno dei principi fondamentali della sua spiritualità. Il suddetto testo paolino è il versetto biblico più citato nei Detti dei padri del deserto. Di s. Antonio afferma il suo biografo che, all'inizio della sua conversione pregava continuamente, sapendo che bisogna pregare in disparte e senza interruzione ». Poi, dopo lunghi anni di vita nel deserto, agli eremiti che si recavano da lui, Antonio ripeteva « pregate continuamente ».

Tendenze verso una interpretazione letterale del precetto neotestamentario della preghiera incessante compaiono presto in seno al monachesimo, dando vita anche a correnti fanatiche ed eterodosse, come i messaliani - il nome deriva da un termine siriaco, che significa "oranti", donde anche il termine corrispondente greco di "euchiti" con cui vengono designati, da euché: preghiera - che costituirono una corrente spirituale largamente diffusa soprattutto nell'Asia Minore. Come già indica il loro nome, essi erano caratterizzati da un 'altissima valutazione della preghiera, fino a teorizzare e a praticare di fatto l'astensione da ogni lavoro, indegno dell'uomo spirituale e contrario al precetto del Signore: « Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna » (Gv 6, 27). Il messalianesimo rappresenta d'altronde un movimento eretico un po' complesso e non sempre ben definito, manifestatosi soprattutto nella seconda metà del sec. IV.

Vicini alle posizioni dei rnessaliani, troviamo gli acemiti  - dal greco, gli "insonni" - , che ricordano una istituzione monastica bizantina che si rifa a s. Alessandro (+ 430). Prendendo alla lettera il precetto della preghiera incessante, il santo divise la giornata in 24 ore con 24 esercizi diversi, affinché ogni ora fosse santificata con la recita dei salmi. Sonno e lavoro manuale furono ridotti al minimo indispensabile. Questi principi conosceranno in Occidente un'applicazione altrettanto rigorosa ed effimera nella Laus perennis dei monasteri franchi tra il sec. VII e l'VIII.

Ci sono poi qua e là nell'antico mondo monastico delle trovate ingegnose miranti ad ottenere la preghiera continua mediante una collaborazione simultanea o successiva, ad esempio distribu- endo una elemosina a chi era incaricato di pregare durante il pasto o il riposo del monaco.

A parte le suddette posizioni, che rimangono sempre fatti isolati, il precetto neotestamentario della preghiera continua è stato interpretato dai Padri della Chiesa e dagli autori monastici in chiave più ampia e interiore fino a vedere nel precetto della preghiera continua un invito all'orazione pura, brevis, frequens, che porta alla parrèsia, cioè alla franchezza e familiarità con Dio. Agostino spiega il concetto di preghiera incessante in questi termini: « Che cos'altro è questo pregare senza interruzione se non desiderare senza interruzione, da colui che solo può darla, la vita beata? » (Epistola 130,18). Quindi il fatto di operare e lavorare in vista della vita beata è già preghiera. Per Agostino la preghiera è soprattutto attività della mente, ma anche di tutto l'essere: « Loda Dio con la tua vita... Lodalo non solo con la voce e col canto ma col salterio delle tue opere buone. Tu lo lodi quando tratti un affare, lo lodi quando prendi cibo e bevanda: lo lodi quando riposi a letto, lo lodi quando dormi. E quando è che tu non lo lodi? » (In Ps 146,2). La preghiera è anzitutto una condizione stabile - « orationis status », come dice Cassiano seguendo Evagrio -, inquadrante l'intera vita nelle sue diverse manifestazioni o, come si direbbe oggi, una preghiera esistenziale, pronta a diventare preghiera esplicita sotto l'impulso interiore dello Spirito Santo.

Quindi la preghiera deve esscre incessante. Comunque fin dai primi tempi della Chiesa, anche dietro la spinta dei giudeo-cristiani che continuavano a mantenere gli usi della sinagoga, era invalsa quasi dappertutto tra i cristiani l'abitudine di dedicare alla preghiera alcuni giorni speciali e alcune ore della giornata. Il monachesimo cenobitico darà a questa pratica una spinta importante e originale concretizzatasi poi nel l'ufficio comune di preghiera. 

Cassiano ha studiato le due grandi forme della preghiera, legandole l'una all'altra: l'ufficio comune e la preghiera personale. La dottrina di Cassiano ha origine non solo dall'insegnamento del suo maestro Evagrio Pontico, ma anche dalla tradizione occidentale dei trattati sulla preghiera, soprattutto di quelli di Terrulliano e di Cipriano. Tertulliano si interroga sul tempo che il cristiano deve dedicare alla preghiera. Constatando che il NT non dà che una regola  « pregate incessantemente », egli raccomanda tuttavia la pratica già tradizionale di celebrare, oltre le preghiere ''obbligatorie'' del mattutino e della sera, le ore di terza, sesta e nona. Oltre il ricordo degli avvenimenti biblici che vi si trovano, queste ore hanno il vantaggio di richiamare - a intervalli regolari - il dovere di pregare senza interruzione che esse permettono di adempiere in maniera almeno incoativa, aperta a una realizzazione più continua. 

Questa riflessione di Tertulliano sui tempi della preghiera è all' origine di una problematica comune che si ritrova in tutti gli scrittori dei sec. IV e V che si sono interessati alla questione: dovunque i tempi tradizionali della preghiera sono messi in rapporto con il richiamo scritturistico a pregare senza interruzione. 

Così la preghiera ufficiale delle ore appare come un surrogato della preghiera continua. Anche quando la prima è assicurata da un ufficio comunitario, come è il caso dei cenobiti di cui parla Cassiano, la seconda rimane la norma suprema verso la quale tende tutta quanta la vita monastica. Non si può quindi capire lo spirito della struttura della liturgia delle ore se non alla luce della dottrina della preghiera continua.

 

2.   Preghiera e Parola di Dio

Un elemento basilare della preghiera, della vita e della dottrina dei padri del deserto è costituito dalla memorizzazione di molti brani della Scrittura. Di parecchi anziani, la Storia Lausiaca e l 'Inchiesta sui monaci in Egitto affermano che sapevano a memoria Antico e Nuovo Testamento; e altre fonti concorrono nell'attestare questo modo di apprendere la Bibbia. Un'ampia conoscenza mnemonica della Bibbia era un dato abituale tra gli asceti del deserto, favorita peraltro dal silenzio dell'eremo e dalla vita di raccoglimento che essi vi conducevano. Sembra che la maggior pane dei monaci antichi abbia avuto una padronanza del segreto di leggere; parecchi erano pure copisti. Si racconta di padre Gelasio che « aveva un libro di pergamena, che valeva 18 monete. Conteneva tutto il Antico e il Nuovo Testamento. Lo lasciava in chiesa, perché potessero leggerlo i fratelli che lo desideravano... ». Soltanto più tardi furono accolti dai monaci gli scritti di celebri dottori della Chiesa.

Le frequenti citazioni, allusioni e risonanze bibliche che si riscontrano un po' dappertutto nelle antiche fonti monastiche evidenziano l'importanza che ebbe la Sacra Scrittura nella formazione spirituale dei primi monaci. In particolare, la preghiera di questi monaci era tutta quanta permeata dalla Parola di Dio. Il padre degli eremiti, Antonio, « stava così attento alla lettura delle Scritture, che nulla di quanto vi è scritto ricadeva sterile in terra dalla sua mente ». I conoscenti che andavano spesso da lui, lo trovavano intento a cantare i salmi. Nel grande discorso dottrinale, Atanasio mette in bocca di Antonio questa bella affermazione: « Noi abbiamo la Scrittura e la libertà donataci dal Salvatore». Tra gli insegnamenti di Antonio agli eremiti che andavano da lui, leggiamo: « Pregate continuamente, e recitate i salmi prima del sonno e dopo il sonno ». La Storia Lausiaca è ricca in testimonianze sull'importanza della Scrittura e della salmodia in concreto nella vita degli antichi asceti del deserto: sulle montagne della Nitria « chi si soffermi, verso l'ora nona, può ascoltare come da ciascun romitaggio escano i canti dei salmi: allora si ha l'impressione di essere sollevati in paradiso ». 

Nei Detti dei padri del deserto e, in generale, nelle antiche fonti monastiche, emerge più frequente e più netta l'importanza dei salmi, che costituiscono una parte preponderante della preghiera quotidiana, ma la Scrittura è presente in tutte le sue parti. Essa è poi accolta nella sua unita, che culmina e si realizza in Cristo. È lui che in ultima istanza i salmi ci aiutano a trovare, per rivivere, riesperirnentare in noi ciò che ha in lui: incontrarlo, ricevere il suo Spirito, entrare in comunione con il suo Corpo mistico tutto intero. Gli asceti del deserto ebbero una grande capacità di interpretare il testo della Scrittura nelle sue strutture fondamentali e di ascoltarlo nella sua globalità. Questa unità della Scrittura è poi vista in intimo rapporto con la vita della Chiesa. A questo criterio deve ridursi il valore teologico della lectio divina, così fondamentale in tutta la tradizione monastica antica ripresa poi da s. Benedetto e con s. Gregorio Magno eretta proprio a metodo della teologia spirituale secondo cui la Bibbia si legge con senso di reale oggettività, con l'occhio cioè illuminato dai carisma profetico o dal mistero della storia sacra che dovrà compiersi Sino al ritorno glorioso del Cristo.

 

3.   La « Lectio divina »

È una lettura spirituale della Scrittura, non una lettura tecnica, scientifica o accademica. È una lettura sapienziale, fatta senza fretta - neppure per fedeltà ad un programma di lettura stabilito -; colui che la pratica ascolta, assapora e ammira. Non è una lettura curiosa, che ricerca, discute o specula. 

La Lectio divina è una grazia che Dio elargisce e che bisogna chiedere, perché soltanto Egli apre la nostra mente all'intelligenza della Scrittura (cf. Lc 24, 45). Il messaggio della Scrittura è percepito grazie ad un intervento divino, per cui ci si comunica il senso della Paroia in comunione con i profeti e gli apostoli. I santi Padri attribuiscono alla Scrittura e alla sua lettura gli effetti di vita spirituale che noi siamo abituati ad attribuire soltanto alla grazia e ai sacramenti. Con un realismo alieno al nostro spirito analitico, i Padri vedono nella Scrittura la presenza stessa di Cristo, vero cibo e vera bevanda che ci vengono offerti come in una specie di sacramento. 

La lettura della Scrittura viene fatta in comunione con la tradizione viva della Chiesa (cf. 2 Pt 1, 19-21), in atteggiamento di fede, di ubbidienza e di dialogo amoroso (cf. Is 66, 2.5); aperti alla sua azione purificatrice e alle sue esigenze (cf. 2 Tm 3, 16); in atteggiamento orante: « quando preghiamo, parliamo con Lui; Lui ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini ». 

L'esercizio della lectio divina è antico come lo stesso monachesimo e molto presto diventa una pratica regolata da norme e considerata essenziale alla spiritualità monastica. Il monacato primitivo, in particolare quello dotto, non concepisce una contemplazione di Dio che non scaturisca dalla Scrittura letta, meditata, approfondita e assimilata dal monaco. Cassiano parlerà della lectio come di una vera ''disciplina'' che il monaco deve imparare.

Con Origene appare per la prima volta con chiarezza la pratica di una lectio divina. Sappiamo che era stato formato da maestri israeliti; ora la lettura della Bibbia nella sinagoga si faceva in una atmosfera di lode e di canti, e i giudei conoscevano già la lettura saporosa e orante della Bibbia. Origene era fedele a questo principio di lettura gratuita, fatta in un clima di raccoglimento, di passività, di ascolto di Dio e di docilità; nella sua vita e in quella dei suoi compagni, secondo quanto afferma s. Gerolamo, « la lettura subentrava alla preghiera, e questa alla lettura ».

L'espressione lectio divina, accanto a quella di lectio sacra, trova un largo uso nella letteratura patristica dei secoli IV e V: Gerolamo, Ambrogio, Agostino, ecc.. Con le Regole monastiche tale lectio viene consacrata come una delle pratiche fondamentali della vita ascetica, e le viene riservata una parte notevole nella economia della giornata del monaco (vedi ad esempio il cap. 48 della Regola di s. Benedetto); allora le allusioni nella letteratura spirituale si moltiplicano a misura che la sua pratica guadagna in estensione e in profondità. 

Le antiche generazioni monastiche hanno fatto della lectio divina una sorgente di preghiera. Alla base della struttura interna di questa preghiera c'è una grande idea: la preghiera è essenzialmente un dialogo. I due interlocutori sono Dio e l'uomo. L'iniziativa non può essere che di Dio. Quello che dice Lui è ciò che conta. Pregare è dunque anzitutto ascoltare; ascoltare Lui che parla nelle Scritture. il punto di partenza è la Bibbia e il primo fondamentale atto della preghiera è la lectio. Senza l'ascolto della Parola di Dio la preghiera è inconcepibile perché non è possibile stabilire il dialogo. 

È da sottolineare la portata evocativa del termine lectio divina. Difficile trovare nel nostro linguaggio un termine che ne renda contenuto. Non basta parlare di "lettura": tale termine indica qualcosa di troppo superficiale e di troppo poco impegnativo. Né è migliore quello di "studio" solo perché indica un'attività molto più impegnativa; esso si situa infatti ad un livello intellettuale, ma diventa facilmente sinonimo di ricerca scientifica o di cultura. Ora in nessun modo gli antichi monaci miravano con la lectio a farsi una cultura, sia pure teologica o biblica. Se lo studio si preoccupa di certezza scientifica, la lectio vuole invece alimentare una esperienza spirituale. Non si tratta di conoscere, bensì di riconoscere, di scoprire di nuovo, ciò che si crede, di consentirvi ancora, e di fare un'esperienza: quella dell'amore. Più vicino il termine "meditazione"; ma i metodi di orazione che lo hanno assunto,  gli hanno  dato connotazioni di sistematicità e di complessità psicologica che gli antichi ignoravano. La lectio divina invece si differenzia da ogni tecnica di meditazione, in quanto si presenta innanzi tutto come autentico inserimento nella historia salutis, intesa come unità di AT, NT, vita della Chiesa ed esistenza del singolo credente. A scanso di equivoci è bene dunque conservare nell'uso l'espressione latina tradizionale.

Le realtà di questo genere sono ricche e complesse, e difficilmente si lasciano ridurre in formule. Non è mancato tuttavia chi ha abbozzato un tentativo di definizione. Guigo il Certosino definiva la lectio divina: « Sedula Scripturarum cum animi intentione inspectio ».   Definizione espressiva che evoca all'immaginazione le numerose generazioni di monaci che hanno alimentato la loro vita spirituale con la lettura assidua delle pagine della Sacra Scrittura. Ma in fondo rimane piuttosto generica e non dice nulla della sua intima natura. Gli antichi, del resto, più che dare delle definizioni si sono preoccupati di vivere la realtà. Più completa e precisa è la definizione che nei nostri giorni ha dato il Bouyer: « Una lettura personale della Parola di Dio, durante la quale ci si sforza di assimilare la sostanza; una lettura nella fede, in spirito di preghiera, credendo alla presenza attuale di Dio, che ci parla nel testo sacro, mentre il monaco si sforza di essere egli stesso presente, in uno spirito di obbedienza, di completo abbandono alle promesse come alle esigenze divine ». Con queste parole il Bouyer ha sintetizzato l'essenziale dell'attitudine tradizionale di fronte alla Parola di Dio, presso i Padri come presso tutta la tradizione monastica.

Nella Scrittura è Dio che si comunica attraverso la Sua Parola. Una lettura attenta - studiosus et intentus, sono gli aggettivi che più spesso la definiscono - deve permettere il contatto vivente con tale Parola. Prima ancora che di riflettere, si tratta di ascoltare e di accogliere: di assimilare in modo vitale. La lettura viene fatta con tutto l'essere: col corpo, perché normalmente se ne pronunciano le parole anche con le labbra; con la memoria che le fissa; con l'intelligenza che ne comprende il senso e con la volontà che desidera tradurla nella vita. Il frutto di questa lettura è una "esperienza" : esperienza biblica che è inseparabile dall'esperienza liturgica, poiché è in medio ecclesiae. La chiave ermeneutica della lectio è l'evento pasquale del Cristo che si compie nella Chiesa. D'altra parte, nella liturgia si entra in quella dinamica di Parola efficace - ascolto obbediente e operativo che si continua poi nella lectio.

Nell'antico monachesimo, la ruminatio è un concetto chiave per esprimere la familiarità con la Scrittura. Il carattere metaforico del vocabolario della ruminatio è tale da poter condensare intorno a sé i tratti di una figura di esperienza spirituale: la meditatio-ruminatio, come esperienza "seconda" della Parola caratterizzata dalla sensazione del gusto, come quell'assaporamento legato all'attività del far risalire al "cuore" la Parola udita. È un ''prender forma ripetendo", è un "ripetere gustando", e conseguentemente un "pensare col cuore".

Nel primo monachesimo nelle diverse situazioni della vita, vengono "ruminati" versetti della Bibbia capaci di interpretarne il senso, aprendo ad esse possibilità nuove; anche il corso uguale, anonimo, della quotidianità, viene scandito dalla recita, cordiale e vocale, di testi biblici, specialmente i salmi: « Rimaniamo saldi e inalterabili. Mettiamo un freno, ruminando incessantemente la Parola di Dio, ai pensieri che si agitano in noi come acqua in ebollizione. Mediante questa masticazione ci libereremo dalla legge della concupiscenza e potremo dedicarci a ciò che piace a Dio. Saremo preservati dalle preoccupazioni del mondo e dall'egoismo, che è il peggiore di tutti i mali ».

Oggi si parla di "rilettura": questo termine corrisponde molto bene a ciò che è sempre stata la lectio, con l'elemento di tranquilla riflessione e di memorizzazione che essa comporta: prepara a che "ci si ricordi" di Dio facilmente, continuamente, e a che « questa memoria perpetua di Dio », come diceva Cassiano, purifichi la memoria umana in ciò che essa ha di istintivo e di non controllato.

La lectio divina è una di quelle costanti che si pone come identità della comunità monastica, pur nel fluttuare delle varie proposte con cui il monachesimo compare a servizio della Chiesa nei vari momenti storici.

 

4.   La salmodia

Abbiamo già accennato all'importanza che ebbe il salterio nella preghiera degli antichi monaci. Le fonti sono concordi nel sottolineare la pratica della frequente recita dei salmi sia nel monachesimo anacoretico sia in quello cenobitico. Secondo Vööbus, tale recita ebbe un posto così rilevante nella vita degli antichi monaci della Siria che l'intera attività monastica finì con l'essere designata col termine "salmodia". La spiritualità monastica è stata profondamente segnata dal contenuto del salterio, che è il libro dell'AT più citato nei Detti dei padri del deserto, nella Vita di Antonio, nella Storia Lausiaca e in altre antiche fonti del monachesimo.

Giovanni Cassiano, nelle sue Conferenze, insegna come la consuetudine di pregare i salmi li faccia diventare propri dell'orante: « egli canta quelle strofe non come opera composta dal profeta, ma come se fosse lui stesso l'autore: come un'opera personale, nella più profonda compunzione. O almeno pensa che i salmi sono stati composti apposta per lui: le sentenze che contengono non si sono avverate solo in tempi lontani, nella persona del profeta. ma trovano anche in lui, al momento presente, il loro compimento ». 

Nel processo di "cristianizzazione" dei salmi è stato grande l'apporto recato dalla spiritualità monastica, in modo speciale con i Tituli psalmorurn. Nel rapporto tra i salmi e Cristo è tradizionale un triplice riferimento: essi parlano di lui: psalmus vox de Christo, o parlano a Lui: vox ecclesiae ad Christum, o lo mostrano mentre parla al Padre: vox Christi ad Patrem.

Allo sforzo di "appropriazione" e di "cristianizzazione" dei salmi hanno contribuito notevol- mente le cosiddette orazioni sopra i salmi. Tra i sec. IV e VI, sia in Oriente che in Occidente, si introdusse la abitudine di intercalare delle pause di silenzio tra salmo e salmo, che più tardi furono concluse da apposite orazioni collette. Queste collette salmodiche furono molto diffuse presso il monachesimo primitivo, e conservate a lungo da numerosi manoscritti d'origine monastica; ancora a Cluny la recita dei salmi era frequentemente interrotta da pause di riflessione. 

Il De Vogüé afferma - citando Cesario di Arles - che la recita dei salmi non è - nel linguaggio proprio - una preghiera, ma piuttosto una preparazione e un invito alla preghiera. Inteso come Parola di Dio, il salmo suscita in risposta, nel tempo di orazione che segue, la preghiera propria- mente detta. Questa risposta i monaci l'hanno concretizzata nelle orazioni salmodiche.

Ai salmi e alle collette si sono aggiunti poi, a poco a poco, altri elementi, come letture e inni, mentre la stessa salmodia si arricchiva con antifone. Si può seguire questa evoluzione nelle Regole monastiche antiche, un buon numero delle quali contengono una apposita sezione che regola il cosiddetto ufficio della preghiera.

La preghiera della liturgia delle ore ci insegna ad apprezzare i salmi, a capirli, non come documenti storici e letterari del passato che meritano di essere studiati, ma come espressione di una preghiera inserita nel tempo, nello sviluppo di una pietà e di una cultura, nelle diverse epoche della storia del Popolo di Dio. Il NT attesta che la preghiera di Gesù, poi della Chiesa apostolica, ha preso dai salmi più di una volta la propria espressione. Essi rimangono pieni di ricchezza anche per noi a condizione che li leggiamo pregando, nel modo e secondo l'interpretazione della Tradizione.

Il tema della preghiera ci ha condotto al cuore stesso della spiritualità dell'antico monachesimo. Dal precetto neotestamentario della preghiera incessante fino alle istituzioni della lectio divina e della salmodia, la preghiera appare sempre come una condizione stabile inquadrante l'intera vita del monaco nelle sue diverse manifestazioni. Nella preghiera il monaco è in continuo ascolto della Parola di Dio ed in essa egli prende coscienza della sua vita cli fede, di speranza e di carità.

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CONCLUSIONE

 

 

 

La spiritualità dell'antico monachesimo è anzitutto caratterizzata da un profondo senso teo-centrico della vita cristiana. Il monaco è affascinato dalla bellezza dell'amore di Dio. La consapevolezza di questo amore spinge il monaco ad abbandonare il mondo il quale, a causa del peccato, potrebbe essergli di ostacolo, in questo contesto l'ascesi appare come strumento necessario per crescere nell'amore di Dio. Gli scritti monastici parlano dell'esperienza dell'amore di Dio come di una realtà profonda e mistica.

L'amore di Dio che così profondamente scuote il cuore dei primi monaci, è quello stesso che spinse Dio Padre a mandarci suo Figlio. Cristo Gesù, soprattutto nella sua sofferenza, è per il monaco un punto di riferimento costante. La vita monastica si realizza nella sequela e nell'imitazione di Gesù Cristo. Il monaco è convinto che quanto più è crocifisso con Cristo, tanto più sperimenta la realtà dell'amore divino. Qui è messo in evidenza un profondo senso pasquale della spiritualità monastica.

Il perfetto monaco è un uomo pieno di Spirito Santo, uno ''spirituale''. Il carisma della paternità spirituale è un dono che rende capace, chi lo possiede, di generare figli nello Spirito e di guidarli alla misura di perfezione loro propria. Questo carisma è stato concesso a molti antichi monaci.

È vero che la scelta della vita solitaria e il posto preponderante dato all'ascesi hanno oscurato - almeno in parte - la dimensione ecclesiale e sacramentale della spiritualità dell'antico monachesimo. È anche vero però che a mano a mano che esso scopre la forma di vita cenobitica, riscopre con essa e con un'intensità sempre maggiore il ruolo del mistero della Chiesa e dei suoi sacramenti nella esperienza spirituale.

Se scopo ultimo della vita del monaco è l'unione con Dio, è normale che ogni altro valore venga giudicato alla luce di questo scopo finale e ad esso sottoposto. In attesa del raggiungimento di questo grande ideale, la vita del monaco diventa un pellegrinaggio verso la patria definitiva; egli vive distaccato dalle cose terrene, sempre vigilante e gioiosamente proteso verso la parusia del giorno del Signore.

Una siffatta spiritualità si alimenta soprattutto del costante esercizio della preghiera, che appare come una condizione stabile inquadrante l'intera vita del monaco nelle sue diverse manifestazioni. In essa il monaco rimane in continuo e attento ascolto della Parola di Dio e prende coscienza della sua vita teologale.

 

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