Testi per la vita monastica                                   Cultura monastica - sezione II


scheda

card. J. Ratzinger e V. Messori

L'idea di Chiesa


 

cap. III - Radice della crisi: l'idea di Chiesa

da:

RAPPORTO SULLA  FEDE - Edizioni Paoline 1985

V. Messori a colloquio con il cardinale J. Ratzinger

 


Tutti i diritti sono riservati per il testo:  © all'Autore e all'Editore.

 

 

 

 

 

 

card. Joseph  Ratzinger

 

 

L'IDEA DI CHIESA

 

La facciata e il mistero

 

Crisi, dunque. Ma dov'è, a suo parere, il princi­pale punto di rottura, la crepa che, allargandosi, minaccia la stabilità dell'intero edificio della fede cattolica?

Per il cardinal Ratzinger non ci sono dubbi: l'al­larme va focalizzato innanzitutto sulla crisi del con­cetto di Chiesa, sulla ecclesiologia: « Qui è l'origine di buona parte degli equivoci o dei veri e propri er­rori che insidiano sia la teologia che l'opinione co­mune cattolica ».

Spiega: « La mia impressione è che tacitamente si vada perdendo il senso autenticamente cattolico della realtà "Chiesa" senza che lo si respinga espressamente. Molti non credono più che si tratti di una realtà voluta dal Signore stesso. Anche pres­so alcuni teologi, la Chiesa appare come una costru­zione umana, uno strumento creato da noi e che quindi noi stessi possiamo riorganizzare liberamente a seconda delle esigenze del momento. Si è cioè in­sinuata in molti modi nel pensiero cattolico, e per­fino nella teologia cattolica, una concezione di Chiesa che non si può neppure chiamare protestan­te, in senso "classico". Alcune idee ecclesiologiche correnti vanno collegate piuttosto al modello di certe "chiese libere" del Nord America, dove si rifugia­vano i credenti per sfuggire al modello oppressivo di "chiesa di Stato" prodotto in Europa dalla Ri­forma. Quei profughi, non credendo più nella Chie­sa come voluta da Cristo e volendo nello stesso tempo sfuggire alla chiesa di stato, creavano la lo­ro chiesa, un'organizzazione strutturata secondo i loro bisogni ».

Per i cattolici, invece?

« Per i cattolici – spiegala Chiesa è compo­sta sì da uomini che ne organizzano il volto ester­no; ma, dietro di questo, le strutture fondamentali sono volute da Dio stesso e quindi sono intangibili. Dietro la facciata umana sta il mistero di una real­tà sovrumana sulla quale il riformatore, il sociologo, l'organizzatore non hanno alcuna autorità per intervenire. Se la Chiesa è vista invece come una co­struzione umana, come un nostro artifizio, anche i contenuti della fede finiscono per diventare arbitra­ri: la fede, infatti, non ha più uno strumento auten­tico, garantito, attraverso il quale esprimersi. Così, senza una visione che sia anche soprannaturale e non solo sociologica del mistero della Chiesa, la stessa cristologia perde il suo riferimento con il Divino: a una struttura puramente umana finisce col corrispondere un progetto umano. Il Vangelo diventa il progetto-Gesù, il progetto liberazione sociale, o al­tri progetti solo storici, immanenti, che possono sembrare anche religiosi in apparenza, ma sono atei­stici nella sostanza ».

Durante il Vaticano II si è molto insistito – ne­gli interventi di alcuni vescovi, nelle relazioni dei loro consulenti teologici, ma anche nei documenti finali – sul concetto di Chiesa come « popolo di Dio ». Una concezione che è poi sembrata dominante nelle ecclesiologie postconciliari.

« È vero, c'è stata e c'è questa insistenza, la quale, però, nei testi conciliari, è in equilibrio con altre che la completano; un equilibrio che è andato perduto presso molti teologi. Eppure, a differenza di quan­to pensano costoro, in questo modo si rischia di tor­nare indietro piuttosto che andare avanti. Qui c'è addirittura il pericolo di abbandonare il Nuovo Te­stamento per ritornare nell' Antico. "Popolo di Dio" è infatti, per la Scrittura, Israele nel suo rapporto di preghiera e di fedeltà con il Signore. Ma limitar­si unicamente a quell'espressione per definire la Chiesa, significa non indicare del tutto la concezio­ne che ne ha il Nuovo Testamento. Qui, infatti, "popolo di Dio" rinvia sempre all'elemento vetero­testamentario della Chiesa, alla sua continuità con Israele. Ma la Chiesa riceve la sua connotazione neotestamentaria più evidente nel concetto di "Corpo di Cristo". Si è Chiesa e si entra in essa non attra­verso appartenenze sociologiche, bensì attraverso l'inserzione nel corpo stesso del Signore, per mez­zo del battesimo e della eucaristia. Dietro il concet­to oggi così insistito di Chiesa come solo "popolo di Dio" stanno suggestioni di ecclesiologie le quali tornano di fatto all'Antico Testamento; e anche, for­se, suggestioni politiche, partitiche, collettivistiche. In realtà, non c'è concetto davvero neotestamenta­rio, cattolico, di Chiesa senza rapporto diretto e vi­tale non solo con la sociologia ma prima di tutto con la cristologia. La Chiesa non si esaurisce nel "col­lettivo" dei credenti: essendo il "Corpo di Cristo" è ben di più della semplice somma dei suoi mem­bri ».

Per il Prefetto, la gravità della situazione è accentuata dal fatto che – su un punto così vitale come l'ecclesiologia – non sembra possibile inter­venire in modo risolutivo mediante documenti. Nonostante anche questi non siano mancati, a suo avviso sarebbe necessario un lavoro in profondità: « Bisogna ricreare un clima autenticamente catto­lico, ritrovare il senso della Chiesa come Chiesa del Signore, come spazio della reale presenza di Dio nel mondo. Quel mistero di cui parla il Vaticano II quan­do scrive quelle parole terribilmente impegnative e che pure corrispondono a tutta la tradizione cat­tolica: "La Chiesa, cioè il regno di Cristo già pre­sente in mistero" (Lumen Gentium, n. 3) ».

 

« Non è nostra, è Sua »

 

A conferma della differenza "qualitativa" del­la Chiesa rispetto a qualunque organizzazione uma­na, ricorda che « solo la Chiesa, in questo mondo, supera anche il limite invalicabile per eccellenza dell'uomo: il confine della morte. Vivi o morti che sia­no, i membri della Chiesa vivono congiunti nella stessa vita che promana dall'inserzione di tutti nel­lo stesso Corpo di Cristo ».

È la realtà, osservo, che la teologia cattolica ha sempre chiamato communio sanctorum, la comu­nione dei "santi"; dove "santi" sono tutti i bat­tezzati.

« Certo – dice –. Ma non bisogna dimenticare che l'espressione latina non significa solo l'unione dei membri della Chiesa, vivi o defunti che siano. Communio sanctorum significa anche avere in co­mune le "cose sante", cioè la grazia dei sacramen­ti che sgorgano dal Cristo morto e risorto. È anche questo legame misterioso eppure reale, è questa unione nella Vita che fa sì che la Chiesa non sia la nostra Chiesa, della quale potremmo disporre a pia­cimento; è, invece, la Sua Chiesa. Tutto ciò che è solo nostra Chiesa non è Chiesa nel senso profondo, ap­partiene al suo aspetto umano, dunque accessorio, transitorio ».

La dimenticanza o il rifiuto attuali di questo con­cetto cattolico di Chiesa, chiedo, comporta con­seguenze anche nel rapporto con la gerarchia ec­clesiale?

« Certo. E tra le più gravi. È qui l'origine della caduta del concetto autentico di "obbedienza"; la quale, secondo alcuni, non sarebbe neppur più una virtù cristiana, ma un retaggio di un passato auto­ritario, dogmatico, quindi da superare. Se la Chie­sa, infatti, è la nostra Chiesa, se la Chiesa siamo soltanto noi, se le sue strutture non sono quelle vo­lute da Cristo, allora non si concepisce più l'esisten­za di una gerarchia come servizio ai battezzati stabilita dal Signore stesso. Si rifiuta il concetto di un'autorità voluta da Dio, un'autorità che ha la sua legittimazione in Dio e non – come avviene nelle strutture politiche – nel consenso della maggioran­za dei membri dell'organizzazione. Ma la Chiesa di Cristo non è un partito, non è un'associazione, non è un club: la sua struttura profonda e ineliminabile non è democratica ma sacramentale, dunque gerarchica; perché la gerarchia basata sulla succes­sione apostolica è condizione indispensabile per raggiungere la forza, la realtà del sacramento. L'autorità, qui, non si basa su votazioni a maggio­ranza; si basa sull'autorità del Cristo stesso, che ha voluto parteciparla a uomini che fossero suoi rap­presentanti sino al suo ritorno definitivo. Solo rifacendosi a questa visione sarà possibile riscoprire la necessità e la fecondità cattolica di Chiesa dell'ob­bedienza alle sue legittime gerarchie ».

 

Per una vera riforma

 

Eppure, dico, accanto all'espressione tradiziona­le communio sanctorum (in quel significato pieno sottolineato), c'è un'altra frase latina che ha sem­pre avuto diritto di cittadinanza tra i cattolici: Ecclesia semper reformanda, la Chiesa è sempre bisognosa di riforma. Il Concilio è stato chiaro al proposito: « Benché la Chiesa, per la virtù dello Spi­rito Santo, sia rimasta sempre Sposa fedele del suo Signore e non abbia mai cessato di essere segno di salvezza nel mondo, essa tuttavia non ignora affat­to che tra i suoi membri, sia chierici che laici, nella lunga serie dei secoli passati, non sono mancati quel­li che non furono fedeli allo Spirito di Dio. E sa be­ne, la Chiesa, quanto distanti siano tra loro il messaggio che essa reca e l'umana debolezza di co­loro cui è affidato il Vangelo. Qualunque sia il giu­dizio che la storia dà di tali difetti, noi dobbiamo esserne consapevoli e combatterli con forza e con coraggio, perché non ne abbia danno la diffusione del Vangelo » (Gaudium et Spes, n. 43).

Pur rispet­tandone il mistero, non siamo dunque chiamati a uno sforzo di cambiamento della Chiesa?

« Certo – replica – nelle sue strutture umane la Chiesa è semper reformanda. Bisogna però inten­dersi in che modo e sino a che punto. Il testo citato del Vaticano II ci dà già una indicazione ben preci­sa, parlando della "fedeltà della Sposa di Cristo" che non è messa in questione dalle infedeltà dei suoi membri. Ma, per spiegarmi ancor meglio, mi rifa­rò alla formula latina che la liturgia romana face­va pronunciare al celebrante in ogni messa, al "segno di pace" che precede la comunione. Diceva dunque quella preghiera: "Domine Jesu Christe [...], ne respicias peccata mea, sed fidem Ecclesiae tuae"; cioè: "Signore Gesù Cristo, non guardare ai miei peccati, ma alla fede della tua Chiesa". Adesso, in molte traduzioni (ma anche nel testo latino rinno­vato) dell'ordinario della messa, la formula è stata portata dall'io al noi: "Non guardare ai nostri pec­cati". Un simile spostamento sembra irrilevante ed è invece di grande rilievo».

Perché annettere tanta importanza al passaggio dall'io al noi?

« Perché è essenziale che l'invocazione di essere perdonati sia pronunciata in prima persona: è un richiamo a quella necessità di ammissione personale della propria colpa, a quella indispensabilità della conversione personale che oggi è invece molto spesso nascosta nella massa anonima del "noi", del grup­po, del "sistema", dell'umanità; dove tutti peccano e, dunque, alla fine nessuno sembra avere peccato. In questo modo si dissolve il senso della responsabilità, delle colpe di ciascuno. Naturalmen­te si può intendere in maniera corretta la nuova ver­sione del testo, poiché nel peccato si intrecciano sempre l'io e il noi. L'importante è che, nella nuova accentuazione del noi, l'io non scompaia ».

Questo punto, osservo, è importante, varrà la pe­na di ritornarci sopra; ma torniamo per ora dove eravamo: al legame tra l'assioma Ecclesia semper reformanda e l'invocazione a Cristo di perdono per­sonale.

« D'accordo, torniamo a quella preghiera che la sapienza liturgica inseriva al momento più solenne della messa, quello che precede l'unione fisica, in­tima, con il Cristo fattosi pane e vino. La Chiesa pre­sumeva che chiunque celebrasse l'eucaristia avesse bisogno di dire: "io ho peccato; non guardare, Si­gnore, ai miei peccati". Era l'invocazione obbliga­toria di ogni sacerdote: i vescovi, il Papa stesso alla pari dell'ultimo prete dovevano pronunciarla nella loro messa quotidiana. E anche i laici, tutti gli altri membri della Chiesa, erano chiamati a unirsi a quel riconoscimento di colpa. Dunque tutti nella Chiesa, senza alcuna eccezione, dovevano confessarsi pec­catori, invocare il perdono, mettersi quindi sulla via della loro vera riforma. Ma questo non significava affatto che fosse peccatrice anche la Chiesa in quan­to tale. La Chiesa – lo abbiamo visto – è una real­tà che supera, misteriosamente e insieme infinita­mente, la somma dei suoi membri. Infatti, per otte­nere il perdono del Cristo, si opponeva il mio pec­cato alla fede della Sua Chiesa ».

E oggi?

« Oggi questo sembra dimenticato da molti teo­logi, da molti ecclesiastici, da molti laici. Non c'è stato solo il passaggio dall'io al noi, dalla responsa­bilità personale a quella collettiva. Si ha addirittu­ra l'impressione che alcuni, magari inconsciamente, rovescino l'invocazione, intendendola come: "non guardare ai peccati della Chiesa ma alla mia fede"... Se davvero questo avviene le conseguenze sono gra­vi: le colpe dei singoli diventano le colpe della Chiesa e la fede è ridotta a un fatto personale, al mio mo­do di comprendere e di riconoscere Dio e le sue ri­chieste. Temo proprio che questo sia oggi un modo molto diffuso di sentire e di ragionare: è un segno ulteriore di quanto la comune coscienza cattolica si sia allontanata in molti punti dalla retta conce­zione della Chiesa ».

Che fare, dunque?

« Dobbiamo tornare a dire al Signore: "Noi pec­chiamo, ma non pecca la Chiesa che è Tua ed è por­tatrice di fede". La fede è la risposta della Chiesa a Cristo; essa è Chiesa nella misura in cui è atto di fede. La quale fede non è un atto individuale, soli­tario, una risposta del singolo. Fede significa cre­dere insieme, con tutta la Chiesa ».

Dove possono indirizzarsi, dunque, quelle "rifor­me" che pur siamo sempre chiamati ad apportare alla nostra comunità di credenti che vivono nella storia?

« Dobbiamo avere sempre presente che la Chie­sa non è nostra ma sua. Dunque, le "riforme", i "rinnovamenti" – pur sempre doverosi – non pos­sono risolversi in un nostro darci da fare zelante per erigere nuove, sofisticate strutture. Il massimo che può risultare da un lavoro del genere è una Chiesa "nostra", a nostra misura, che può magari essere interessante ma che, da sola, non è per questo la Chiesa vera, quella che ci sorregge con la fede e ci dà la vita col sacramento. Voglio dire che ciò che noi possiamo fare è infinitamente inferiore a Colui che fa. Dunque, "riforma" vera non significa tanto arrabattarci per erigere nuove facciate, ma (al contrario di quanto pensano certe ecclesiologie) "riforma" vera è darci da fare per far sparire nella maggiore misura possibile ciò che è nostro, così che meglio appaia ciò che è Suo, del Cristo. È una verità che ben conobbero i santi: i quali, infatti, rifor­marono in profondo la Chiesa non predisponendo piani per nuove strutture ma riformando se stessi. L'ho già detto, ma non lo si ripeterà mai abbastan­za: è di santità, non di management che ha bisogno a Chiesa per rispondere ai bisogni dell'uomo ».

 

 

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